E' morto Michelangelo Antonioni. E' morto il cinema?

Il profeta della postmodernità

di Angela Azzaro da "Liberazione" 1° agosto 2007

L 'immagine che esplode nella sequenza finale di Zabriskie Point anticipa e chiude l'epoca contemporanea. I frammenti di spazio e di tempo sono i brandelli di identità e di storia che il mondo ci consegna ogni giorno, in una società dello spettacolo che è servito poco o nulla conoscere prima del tempo, prima della deflragazione finale dell'Occidente. Prima che l'11 settembre diventasse lo spartiacque tra un passato e un presente di odio, di scontri di civiltà creati ad hoc per alimentare guerre e paure. Michelangelo Antonioni lo ha visto. Lo ha intuito e ce lo ha restituito non con saggi, non con paroloni, ma con la sensualità di un cinema più che moderno, contemporaneo di un futuro che (forse) non si avvererà mai. Adesso che Antonioni ci ha lasciati, il vuoto non è quello solito che si avverte sempre dopo la morte di un grande regista. E' qualcosa di più. E' la triste consapevolezza che non ci sarà più un cinema in grado di rischiare come il suo, un cinema che se ne frega delle convenzioni e sperimenta, attinge senza paura dalla pittura, dalla musica e dalla letteratura. Un cinema che va dritto alle contraddizioni, le anticipa, le racconta prima che siano evidenti. Solo oggi la profezia del teorico francese Andrè Bazin diventa realtà: il cinema è morto. E' morto con Antonioni.

 

Il regista ferrarese è stato, per generazioni e generazioni di cinefili, l'autore per eccellenza, colui che ha saputo raccontare la solitudine e la sconfitta della società borghese. Dall' Avventura fino a Deserto rosso i suoi personaggi femminili sono la bussola che scombina i giochi di una società asfittica, senza più speranza. Ma non basta soffermarsi al contenuto, alla parte più esplicita. La grandezza di Antonioni è tutta nella forma, nella capacità di piegare il linguaggio cinematografico alla sua visione del mondo. La televisione è lontana non per un fatto cronologico, ma perché messa sotto scacco da una dilatazione del tempo che rompe con la verosimiglianza imposta dall'arte borghese. E' qui che si consuma la rottura più importante, insanabile con il senso comune, con il moralismo. Non si consuma, tanto e solo, nelle storie raccontate, negli abbandoni e nelle grida, nelle notti in cui le coppie si incontrano e si lasciano, non si consuma nell'algida Milano o nella barocca Sicilia, nel deserto di un fabbrica. Si consuma nella ribellione più grande: dire no alla convenzione più duratura e proibitiva che pretende un racconto lineare, chiaro, dove tutto è motivato da un rapporto consequenziale tra la causa e l'effetto. Antonioni spariglia le carte, manda in frantumi tutto. Crea il mistero di un linguaggio che non può essere spiegato. Di una sparizione che a sua volta sparisce. La solitudine è tutta qui. E' la solitudine dello spettatore che si trova da solo a ricostruire una storia che non ha lieto fine, perché non ha nessun finale. Non c'è più spazio per le grandi narrazioni che consolano. L'unica possibilità è nella rivolta personale, nel colpo di schiena del singolo spettatore che da solo trova un senso e una ragione per non arrendersi. Non è la chiamata alle armi, è al contrario la richiesta di un'assunzione di responsabilità da parte del singolo. E' la partita a tennis di Blow Up : la pallina è evanescente ma il gioco continua. Se si vuole. Se si vuol credere, come i due clown che proseguono nella finzione.

 

Con Blow up e Zabriskie Point l'esasperazione delle forme arriva al punto più forte: è il punto in cui si ribalta il rapporto tra immagine e realtà. L'immagine prende il sopravvento, diventa più reale del reale. La teoria sulla società dello spettacolo di Guy Debord si fa cinema, si fa cinema tutto il dibattito sulla realtà virtuale, sulle seconde vite. Il fotografo di moda che, ingrandendo una sua foto, pensa di scoprire un omicidio, è la storia del nostro rapporto con il mondo che ci circonda. Dove inizia la verità, dove finisce la menzogna? E' vero ciò che vediamo o quello che resta in ombra, che volutamente i mezzi di informazione non raccontano, tacciono, nascondono? Una cosa è sicura: dalla Prima guerra del Golfo in poi siamo stati bombardati di immagini, ma sappiamo meno, sempre di meno.

 

E' per questo che Antonioni si colloca prima e dopo di noi. Prima perché ha saputo anticipare i nostri turbamenti, dopo perché parla di un altrove che l'arte ha sempre più difficoltà a saper raccontare, toccare, a saper raggiungere. Antonioni lo ha fatto, non negli ultimi film, quelli realizzati a quattro mani a causa della malattia. In quelli è stato scontato, misogino.

 

Lo ha fatto in Zabriskie Point : è il regista che dice basta all'immagine, che dice basta alla sua identità, alla sua autorialità di padre padrone. Quanti hanno avuto o hanno il coraggio di fare altrettanto?