Dopo lo tsunami: quale ricostruzione ?

 

Il terremoto politico che ha scosso il nostro paese e che ha suscitato l’interesse dei media di tutto il mondo, è legato al successo del M5S che in pochissimo tempo ha costruito una forza politica capace di imporsi sulla scena politica, con quasi un quarto di voti espressi, un quinto se si considera anche chi non ha votato. Ma, l’aspetto più interessante, la vera novità è un’altra. A differenza della Lega Nord, che aveva nel periodo 1992-94 conquistato molti seggi ed era diventata, in alcune regioni del Nord, la prima forza politica, il M5S non vuole solo vincere, ma abbattere il sistema dei partiti, quel sistema che il Msi di Almirante (qualcuno se ne ricorda?) chiamava la “partitocrazia”. Ma, l’analogia si ferma qui, perché i grillini sono convinti che quello che loro vogliono è una “vera democrazia” che nell’era del web non può che essere una democrazia digitale, dove “uno vale uno” e le scelte si fanno da casa con un Pc, oppure con un Ipad, un tablet, o solo con il telefonino da qualunque parte della terra. In questo modo, secondo i grillini, si abbatterebbe l’inutile burocrazia dei partiti, e i cittadini potrebbero esprimersi direttamente sui principali problemi della loro città o dell’intero paese in tempo reale. I rappresentanti nelle istituzioni, che loro definiscono sia come “portavoce” sia come “dipendenti”, avrebbero il compito notarile di sottoscrivere le decisioni prese dalla maggioranza sulla rete e di controllare/vigilare sulla pubblica amministrazione.
Al di là della fattibilità di questo progetto, del fatto che almeno venti milioni di italiani non usano ancora la rete, quello che mi fa venire in mente questo movimento è un fenomeno che nella storia abbiamo già visto, naturalmente con altri connotati ed altre motivazioni. Mi riferisco all’abbattimento delle Corporazioni di arti e mestieri che vennero in gran parte eliminate dopo la rivoluzione di Cromwell in Gran Bretagna, e dopo la rivoluzione francese del 1789 in gran parte dell’Europa. Adam Smith ha dedicato una parte rilevante del suo famoso saggio Indagine sulla natura e le cause della Ricchezza delle Nazioni proprio a questo obiettivo: dimostrare la necessità di sopprimere le Corporazioni, in quanto schiavizzavano gli apprendisti, impedivano le innovazioni tecnologiche e soprattutto la concorrenza sui prezzi. Solo il “libero mercato”, secondo il padre dell’economia politica e del pensiero liberale, avrebbe portato più ricchezza, una sua migliore ripartizione, una grande mobilità sociale ed il benessere per tutti. Sappiamo come è finita. Dopo la messa fuori gioco delle Corporazioni non è nato il “libero mercato”, ma si sono formati oligopoli e monopoli, varie forme di trust, che hanno assunto più potere di quello che avevano le Corporazioni, e i lavoratori “formalmente liberi” sono stati costretti ad organizzarsi e creare i sindacati per affrontare la lotta impari con gli imprenditori. Non a caso, anche i sindacati dei lavoratori sono stati spesso accusati di essere delle Corporazioni, e nel programma del M5S c’è anche la loro abolizione, in coerenza con l’ideologia del “libero cittadino” che non ha bisogno di rappresentanti perché è capace di curare da solo i suoi interessi. E’ la stessa idea/ideologia cara all’economia marginalista del consumatore “sovrano”, una monade calcolatrice, perfettamente razionale capace di valutare comparativamente i beni/servizi da acquistare in base al rapporto qualità/prezzo. Naturalmente all’interno di un mercato libero, trasparente, dove tutte le informazioni sono disponibili.
Questo paragone storico ci serve per dire due cose semplici, ma che riteniamo essenziali. La prima riguarda il fatto che partiti e sindacati si sono staccati dai bisogni della gente, non riescono più a svolgere il ruolo importante che hanno avuto in passato, non solo in Italia, ma nella gran parte delle democrazie parlamentari. La crisi della democrazia rappresentativa non è un’invenzione di Grillo, ma è ben nota e studiata da tempo (basti leggersi l’ultimo saggio di Marco Revelli, Finale di Partito). Anche le Corporazioni di arti e mestieri quando vennero travolte dalla rivoluzione della borghesia erano arrivate alla fine di un ciclo storico, erano ormai diventate un elemento di freno a qualunque cambiamento, perdendo quel grande ruolo che avevano svolto per secoli rendendo grandi, belle, e vivibili le città europee (come ci hanno mostrato i grandi storici dell’economia da Pirenne a Braudel).
La seconda questione riguarda la rete, il web come strumento fondamentale di comunicazione. E’indubbio che nella storia umana le innovazioni tecnologiche abbiano giocato un ruolo fondamentale, cambiando non solo gli stili di vita, ma anche modificando il modo con cui si esercita il Potere. Come sappiamo ogni grande innovazione tecnologica può migliorare le condizioni di vita delle popolazioni o può peggiorarle, a seconda di chi le gestisce e per quali fini. Va detto, ma è una cosa più complessa, che le stesse innovazioni tecnologiche sono il frutto di rapporti sociali di produzione, di rapporti di forza tra le classi, di ricerca del profitto che determina il successo di alcune e l’insabbiamento di altre.
In sintesi, la crisi dei partiti ci sembra irreversibile, almeno nel medio periodo, così come ci sembra inarrestabile la corsa verso una web-life. Ma, ci domandiamo: la democrazia digitale, sondaggista, è la risposta? L’esperienza del M5S ha più di qualcosa da insegnarci. Al momento di scegliere chi mandare in Parlamento, il M5S ha indetto le “parlamentarie”, a cui tutti gli iscritti potevano partecipare mandando un curriculum, come si fa con le aziende, e scegliendo tra un ristretto numero di candidati. Risultato: hanno partecipato alle “parlamentarie” qualcosa come 40.000 grillini , 90.000 per qualche altra fonte (Deaglio), ma in ogni caso un numero risibile rispetto ai voti presi. Paradossi della politica nell’era digitale: la colazione Pd-Sel ha portato al voto oltre 3 milioni di persone, ma ha ottenuto quasi gli stessi voti del M5S che ha fatto partecipare alla scelta dei candidati una parte marginale dei mitici “cittadini”. Qualcosa non torna e forse vale la pena cambiare prospettiva.
Proviamo, infatti, a guardare la crisi della democrazia rappresentativa da un’altra angolazione, all’interno del processo più generale di mercificazione della politica. Cosa sono diventate le elezioni politiche se non un grande mercato elettorale, dove conta il brand, la faccia del leader, le sue battute, la sua capacità di attrarre i consumatori/elettori come fanno i testimonial delle grandi marche ? Vince chi ha la capacità di innovare, di presentare un nuovo brand , di investire nel marketing, che significa rincorrere i gusti dei consumatori, orientarli, manipolarli. Non è un caso se negli ultimi trent’anni il costo delle elezioni politiche, della macchina elettorale, sia cresciuto iperbolicamente in tutti i paesi occidentali, come dimostra Marco Revelli nel suo ultimo saggio (Finale di partito, Einaudi). E se abbattiamo i costi della politica, come pretendono i grillini, con che cosa si finanzia il marketing elettorale e la politica in generale? La risposta è semplice : con la pubblicità, gli sponsor privati, le imprese multinazionali, la grande finanza, ecc., come avviene negli Usa, con tutte le conseguenze sull’autonomia della politica che conosciamo bene. Eppure, la maggioranza degli italiani vuole questo. Pensa che tagliando i costi della politica si salva il paese dal disastro. Certo, molti costi della classe politica sono insopportabili, ancor più gli scandali e le tangenti, ma ci possiamo fermare qui ? Possiamo accettare che un calciatore guadagni a vent’anni milioni di euro, o un cantante, o un comico, o un finanziere, mentre un operaio o un impiegato, se gli va bene, arriva a stento a fine mese ?
Il paradosso del M5S è che esso è, ad un tempo, un fenomeno di rivolta morale ed un pieno adeguamento alla legge del mercato autoregolato, come lo definì Polanyi. La sua strategia, se dovesse risultare vincente (non è scontato) punta ad abbattere il sistema dei partiti e a costruire una new town della politica e delle istituzioni, sul modello ideale del mercato autoregolato, dove solo i più meritevoli risultano alla fine vincenti.
Conosciamo bene le new town costruite in Italia dopo le catastrofi – dal Vajont a Gibellina, dai paesi alluvionati della Calabria Ultra ai paesi terremotati dell’Irpinia fino all’Aquila. L’Italia ha una triste storia di new town, progettate da grandi o piccoli architetti, ma tutte senza radici, storia, memoria e perciò invivibili. Città tristi, senza identità, come ce le racconta Monica Musolino in un bel saggio dedicato alle new town post-catastrofe (Mimesis, 2012). Tutto il contrario di quanto è avvenuto in Friuli nella ricostruzione post-terremoto del 1975, dove si è tenuto in gran conto la storia, le radici e le identità di quel popolo, attraverso un processo virtuoso di autonomia e responsabilità che ancora oggi viene studiato.
Siamo di fronte noi tutti, l’intero paese, ad una grande catastrofe, nell’accezione di René Thom, che è ad un tempo sociale, culturale, morale, ambientale e politica. Abbiamo quindi il dovere di pensare ad una “ricostruzione post-catastrofe”, ma non possiamo pensare di risolverla solo pensando alla riforma della politica, all’abbattimento dei suoi costi, senza pensare ad un altro modello sociale, alla demercificazione delle relazioni umane, della natura, della stessa moneta ridotta a merce-fittizia, per cui assistiamo increduli ad una massa enorme di denaro che produce denaro, andando contro le leggi di natura, come sosteneva Aristotele. Non di “riforme” abbiamo bisogno, la parola stessa fa paura ogni volta che viene pronunciata, ma di un progetto radicale di cambiamento verso la “ricostruzione” del nostro sistema economico, sociale e politico. Una ricostruzione che deve tenere conto del passato, delle radici culturali, delle identità, su cui costruire il futuro.

Tonino Perna

in data:27/03/2013

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