Sui congressi della sinistra italiana.

Pubblichiamo questo articolo un pò impietoso sui congressi svolti dagli ex soci della Sinistra Arcobaleno. Ci scuseranno i compagni e gli amici del PdCi, di SD e dei Verdi. Lo proponiamo come stimolo innanzi tutto e anche come seria riflessione (auto) critica. Per intanto noi adesso andiamo a Chianciano e speriamo di portare a casa la pelle (politicamente parlando)! 

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I più «feroci» fra gli osservatori hanno fatto notare che bastava assistere a quei due congressi per capire le ragioni della debacle della sinistra. I più feroci fra i pochi che si sono presi la briga di andare a leggere le «carte» delle assise dei comunisti italiani e dei verdi. Perché i più, nelle cronache da Salsomaggiore e da Chianciano, si sono limitati a raccontare aneddoti folkloristici. La «guerra» sul Lambrusco, scatenata e poi attenuata dal segretario del Pdci, Diliberto, o i fischi che hanno accompagnato la nomina di Grazia Francescato alla guida del Sole che ride. L'enfasi con cui hanno raccontato le risse al congresso dei verdi, coi delegati toscani e calabresi, esclusi per un vizio di forma, costretti a fare la voce grossa per essere ammessi al voto. Tensioni che in realtà ci sono state sempre, in tutti i congressi, da che sinistra è sinistra. Tensioni che c'erano addirittura agli appuntamenti del Pci. Magari non ai congressi nazionali, dove anche i più piccoli dettagli venivano discussi preventivamente, ma a quelli locali sì. Eppure, a leggere i resoconti, quei due congressi hanno prodotto quasi solo folklore. O poco altro.Ma non è così. Lì non c'è stato solo folklore, c'è stato forse qualcosa di peggio. Il congresso del Pdci, per esempio. A Salsomaggiore si sono riuniti i delegati eletti nelle assemblee di sezione da ottomila iscritti-votanti. Un po' più - ma solo appena un po' di più - dello zero e zero uno per cento del corpo elettorale di questo paese.
Che di tutto hanno discusso meno che della ragioni per cui la sinistra non è più in Parlamento. Non una parola sul perché questa sinistra non è stata capace di capire che oltre alle tradizionali divisioni fra chi è proprietario delle imprese e chi in quelle imprese ci va solo a vendere la propria forza lavora, si sono prodotti altri squilibri. Fra l'alto e il basso della società, fra chi comunque può progettare proprie strategie di sopravvivenza e chi, precario, è espropriato anche di questo diritto. Una sinistra che ha usato un linguaggio, parole d'ordine, uno stile lontano dai bisogni di chi voleva rappresentare. Una sinistra che ha sottovalutato la nuova frontiera dei diritti civili. Di tutto questo non si è parlato a Salsomaggiore, accontentandosi di una vaga autocritica sull scarsa incisività fatta registrare durante il governo Prodi. Tutto qui. Con l'aggiunta che la soluzione prospettata in quel congresso sembra studiata apposta per saltare tutte le domande sgradevoli. Lì, Diliberto, ha chiesto solo di riunificare ciò che resta della famiglia comunista. Mettere assieme qualche «pezzetto», il resto si vedrà.
Una fortissima accentuazione identitaria, insomma. Costruita, oltretutto, sulla parte peggiore - perché non dirlo? - di quelle identità (al plurale perché la storia, fortunatamente, ha insegnato che le «appartenenze» comuniste in Italia sono state tante e assai diverse fra di loro). Ed ecco il richiamo al centralismo democratico. Le norme ispirate a quel metodo non sono state introdotte in questi giorni, come hanno scritto i giornali, ma c'erano già nello statuto del Pdci. L'altro giorno, però, sono state confermate. Di più: Diliberto ne ha sottolineato la «validità», l'attualità. L'attualità di un metodo per cui si può discutere di linea finché si vuole ma poi, davanti agli «esterni», occorre presentarsi con una sola voce. Quella della maggioranza del partito. Un metodo che ha costretto al silenzio, negli anni bui del comunismo, migliaia di intellettuali, un metodo che lo stesso Enrico Berlinguer - che pure doveva andarci cauto nella riforma del Pci - trent'anni fa considerava vecchio. Superato. Certo, non ne parlava in modo aperto - all'epoca non si poteva - ma al superamento del centralismo democratico pensava quando propose la «parziale pubblicizzazione dei singoli contributi», che poi portavano alla definizione di una posizione. Fare conoscere ii dissensi come primo passo per superare la disciplina imposta dalla guerra fredda.
Ora, qualcuno propone un salto all'indietro di trent'anni. Al punto che la piccola minoranza del Pdci, quella di Katia Belillo e di altri, s'è rifiutata di prendere parte alle votazioni. E con questa «cultura» alle spalle, si dovrebbero poi indagare le imponenti e devastanti trasformazioni sociali di questo paese. Con l'unità di facciata imposta a tutti si dovrebbe magari andare al confronto con quel tanto di sinistra sociale che il 12 aprile non si è riusciti a rappresentare. Forti del «centralismo democratico», occorrerebbe andare al confronto coi movimenti, con le loro idee, coi loro progetti. Come quelli che si stanno discutendo in queste ore a Genova. Sette anni dopo quei tragici giorni che accompagnarono il G8 e che il Pdci di allora bollò come un fenomeno velleitario, organizzato da «autonomi». Con schemi interpretativi già vecchi, pure in quel caso, di vent'anni.
Più o meno questo è stato il congresso del Pdci. Molti simboli, nessuna risposta. Se non una proposta che sembra dettata dall'esigenza di superare, comunque, le soglie di sbarramento che la destra sembra intenzionata a proporre per le elezioni europee.
Centoventi chilometri più in là, di bandiere ce n'erano altre. Quelle verdi del Sole che ride. In un paese dove un ministro - anzi: una ministra - vuole privatizzare i parchi, dove il ritorno al nucleare è già più di una minaccia, dove dalla Val di Susa allo Stretto di Messina, l'Italia diventerà un unico grande cantiere per opere pubbliche, i verdi hanno scelto di non scegliere. Hanno certo risolto il problema della leadership - questione che nessuna forza di sinistra può permettersi di sottovalutare -, col ritorno di Grazia Francescato alla guida del partito, accantonando le pretese «giustizialiste» di chi voleva che il congresso si trasformasse in un processo a Pecoraro Scanio e al suo gruppo.
Ora c'è una nuova leader - una nuova vecchia leader visto che ha già ricoperto quest'incarico nel 2000 - e si annunciano novità rilevanti per il futuro: Grazia Francescato ha spiegato che ha intenzione di restare alla guida dei verdi un anno solo. Per poi lasciare la mano a due portavoce - un uomo e una donna -, magari di un'altra generazione.
Ma dietro le formule organizzative, restano le «non scelte». In un congresso - al di là dei litigi sulle tessere, tema che sembra unire la sinistra molto più di altre cose - dove il 40 per cento dei delegati ha «urlato» contro la Sinistra Arcobaleno. Non per i suoi vizi burocratici, non per la precarietà della soluzione elettoralistica, non per la vaghezza dei programmi. Le urla di quella quasi metà dell'assemblea erano destinate a chi quattro mesi fa ha fatto una scelta di sinistra. Loro, quella quasi metà dei verdi, avrebbe preferito andare con Veltroni. Quello che in campagna elettorale tuonava contro la «cultura dei no», per affermare un ecologismo del fare. Fare la Tav, per esempio, come hanno accettato gli amministratori del piddì, fare «emergenza» - emergenza che copre tutto - come hanno accettato gli amministratori del piddì campano. Tutto questo potrebbe apparire ingeneroso verso Grazia Francescato che ancora ieri, su l'Unità, rivendicava il valore dell'alleanza fra le ragioni del lavoro e quelle dell'ambiente. Ma poi, in vista delle europee, ha detto che «sonderà» le opinioni di tutti. E sonderà magari anche le disponibilità degli interlocutori a cominciare da un partito democratico, disperatamente a caccia di sostegni elettorali, visto che senza il «voto utile» è difficile che superi la soglia del 30 per cento alle europee. E chi è stato a Chianciano racconta che lì, fra i verdi, è forte la spinta a mettersi sotto l'ala protettiva di Veltroni. E che la Tav, i termovalorizzatori, le centrali a carbone vengono dopo.
Un quadro desolante, allora, come ha detto qualcuno. Che potrebbe fornire molti argomenti a chi cerca le ragioni della sconfitta della sinistra. Con un'aggiunta, però. Questa: molti dei «difetti» dei comunisti italiani e dei verdi erano già dichiarati mesi, anni fa. In parte però sono stati mascherati dal «dinamismo» di Rifondazione. Il Prc parlava coi movimenti e loro - Pdci obtorto collo - seguivano, il Prc parlava di un nuovo modo di far politica, di comunità da aggregare sul territorio. A cui assegnare la titolarità delle scelte che le riguardano. Come in Val di Susa e a Vicenza. E loro seguivano. Il Prc parlava di differenza di genere, di diritti civili e loro seguivano. Oggi, però, Rifondazione è al palo, fermata da un dibattito congressuale - vero, vivace, ma in ogni caso lacerante - che non riesce a parlare all'esterno. E in due dei suoi interlocutori tornano le più disparate tentazioni. Di sopravvivenza del ceto politico. Ma prima o poi il congresso di Rifondazione finirà e magari tutto si rimetterà in moto. E' una speranza.

da www.liberazione.it del 22.07.'08 di Stefano Bocconetti