1° dicembre, giornata mondiale di lotta all'Aids
Premessa
Il
1° dicembre, come ogni anno, si rinnova l’attenzione su scala mondiale
al problema Hiv/Aids e si valuta attraverso i dati l’andamento
dell’epidemia. Quest’anno, secondo le stime mondiali Unaids/Oms,
riviste e corrette con modelli statistici sempre più raffinati, la
prevalenza a livello mondiale dell’HIV (considerando le persone viventi
sieropositive) si è stabilizzata e il numero di nuove infezioni è
diminuito là dove sono stati attuati programmi di lotta contro il
virus. Tuttavia la stima di 33,2 milioni di persone che vivono con l’HIV, di 2,5 milioni di nuove infezioni e di 2,1 milioni di
decessi per Aids non è certo un dato positivo. Com’è naturale, inoltre,
la differenza tra le varie aree del mondo è grande: l’Africa
subsahariana infatti copre da sola il 68% del numero mondiale di
persone hiv+. E se è vero che un dato si è stabilizzato, è però anche
vero che il numero delle persone viventi hiv+ aumenta in quanto vi sono
sempre nuove infezioni e la speranza di vita è più lunga in una
popolazione generale che cresce con continuità. Inoltre, pur
cominciando a vedere un ritorno degli investimenti, le 6800 nuove
infezioni e gli oltre 5700 decessi giornalieri a causa dell’aids non
possono che far intensificare gli sforzi per ridurre in modo più
significativo l’epidemia. Senza contare che a tutt’oggi mancano
politiche mirate alle fasce di popolazione più vulnerabili che contano
al loro interno un numero crescente di persone sieropositive. Anche per
quel che riguarda l’accesso ai farmaci l’interpretazione è duplice; da
una parte il numero delle persone che hanno bisogno di trattamenti anti
Hiv e che sono riuscite a ottenerlo è circa il doppio rispetto all'anno
precedente, ma comunque rappresenta solo il 28% del totale, e anche in
questo caso la mappa geografica dell'accesso alle cure non è uniforme.
E per concludere, i responsabili dell’Unaids e Oms segnalano che le nuove stime non modificano la necessità di un’azione immediata e di un finanziamento accresciuto
in modo da raggiungere l’obbiettivo ancora molto lontano dell’accesso
universale ai servizi di prevenzione, di trattamento, di presa in
carico e d’appoggio in ambito Hiv/Aids.
Fermiamo l’Aids - manteniamo le promesse – diventiamo protagonisti!
Dal 2004 l’UNAIDS ha adottato lo stesso slogan per celebrare il 1° dicembre: “STOP AIDS. KEEP THE PROMISE” che
durerà fino alla fine del 2010, anno in cui si dovrebbe “misurare”
quanto è stato raggiunto in riferimento alla “Dichiarazione per
l’Accesso Universale ai trattamenti nella risposta mondiale per la
lotta contro l’Hiv/AIDS”. Benché lo slogan sia lo stesso, ogni anno vi
è una nuova parola chiave che indica il focus dell’anno. Per il 2008 la parola chiave è "Take the Lead", “Diventiamo protagonisti”,
un messaggio cioè indirizzato non solo a Governi e Istituzioni, ma a
tutti coloro che vorranno agire in prima persona, che vorranno assumere
la leadership in questa lotta: dai rappresentanti e componenti delle
associazioni al cittadino qualsiasi, che sia uomo, donna, sieropositivo
o sieronegativo, già di per sé leader o no.
In Italia
Per quel che riguarda l’Italia, le statistiche del Centro Operativo
Aids (COA) ribadiscono un trend positivo rispetto ai decessi e uno
stabilizzarsi dei nuovi casi di Aids, ma è sempre più evidente come l’epidemia si stia diffondendo tra la popolazione non socialmente marginale
e a causa di rapporti sessuali non protetti. Buona parte dei nuovi
contagi riguarda infatti persone eterosessuali, benestanti, tra i 30 e
i 50 anni, e con una vita sessuale di coppia stabile. Tuttavia i
rapporti occasionali (sia che avvengano tra singles sia al di fuori
della coppia fissa esistente) non vengono protetti e in seguito non si
considera di aver avuto un comportamento a rischio. La conseguenza è
non sottoporsi al test, non proteggere il partner fisso e arrivare a
scoprire la propria sieropositività solo al momento dell’essere ormai
in Aids.
Dati del Centralino telefonico LILA 2007
I centralini telefonici della LILA, 15 sparsi su tutto il territorio nazionale,
continuano la loro opera di informazione e sensibilizzazione
rispondendo a domande di ogni tipo e confrontandosi, giornalmente, con
mille richieste e mille quesiti tra i più disparati. Risposte tese a
ridurre l’ansia, a togliere dubbi, a rompere dinamiche comunicative
parziali e non scientifiche che causano allarmismi e incidono
pesantemente sul mantenimento dei pregiudizi che colpiscono le persone
sieropositive.
I contatti riferiti al 2007 sono stati complessivamente più di 5.000.
Profilo dell’utenza
Per quanto riguarda il 2007, si confermano i dati dell’anno precedente e sono ancora in prevalenza gli uominisieropositive.
Per questo motivo dunque
l’aumento delle telefonate che sono arrivate da persone che hanno
dichiarato la loro sieropositività ha suscitato in noi una certa
curiosità e abbiamo cercato di capirne i motivi. Mettendo in relazione
questo dato con l’aumentato numero delle richieste di informazioni
riguardanti l’area dei diritti e delle discriminazioni (passato dal 5%
del 2006 al 7% nel 2007), possiamo immaginare che siano proprio le
discriminazioni subite o quelle che si teme di poter subire in quanto
persone sieropositive a spiegare questi numeri.
Si tratta, a nostro modo di vedere, di un abbassamento della guardia
sul piano della tutela dei diritti che “consente” ad esempio alle
agenzie di lavoro interinale di chiedere un certificato di
sieronegatività come requisito all’assunzione senza che vi sia la
possibilità di far valere le tutele previste dalla L: 135/90. Ma
assieme a questi soprusi, registriamo anche un clima più generalizzato
di timori che ci vengono espressi dalle persone sieropositive che sono
in terapia e che devono frequentemente assentarsi dal posto di lavoro
per recarsi in ospedale a prendere i farmaci. In particolare
registriamo una incomprensibile rigidità da parte di alcune strutture
ospedaliere che hanno modificato le loro procedure e che non forniscono
più la quantità di farmaci necessaria per tre mesi ma obbligano i
pazienti a recarsi in ospedale ogni mese. La conseguenza di tale
atteggiamento si ripercuote ovviamente sulla necessità di assentarsi
dal luogo di lavoro più di quanto avveniva in passato e si accompagna
spesso alla richiesta di spiegazioni da parte del datore di lavoro.
Cosa ci chiedono
Per quanto riguarda le domande che ci vengono poste non registriamo
particolari modificazioni rispetto agli anni precedenti. Il 40% di chi
ci chiama vuole avere informazioni sul rischio di contagio e in particolare sul rischio riferito ai comportamenti sessuali.
Il 13% circa delle donne e il 6% degli uomini ha ancora in mente l’idea
che il bacio possa essere a rischio mentre è il 19% degli uomini contro
il 15% delle donne hanno dubbi rispetto al rischio in caso si
masturbazione. Sono calate le persone che chiamano per approfondire le informazioni sul test e sul periodo finestra passando dal 36,5% del 2006 al 25% del 2007. Chi ci chiama lo fa perché non ha chiaro cosa fare, dove rivolgersi, a chi chiedere informazioni e spesso ci dice di aver ricevuto indicazioni poco precise da parte dei servizi pubblici.
Cosa ci dicono
Sono aumentate le telefonate riguardanti il rischio di contagio frutto di timori immotivati che derivano da una errata percezione del rischio
passando dal 49% del 2006 al 60% circa del 2007. Tale errata percezione
riguarda nel 69% dei casi gli uomini e nel 31% le donne.
In
generale ciò significa che chi ci chiama ha adottato comportamenti
sicuri ma senza averne totale consapevolezza. Il 19% degli uomini ha
infatti dichiarato, ad esempio, di aver usato il preservativo durante
un rapporto vaginale e lo stesso hanno dichiarato il 13% delle donne.
Ciononostante ci chiamano perché hanno la percezione di aver praticato
un comportamento a rischio.
Possiamo immaginare che, in generale, alla base di questo atteggiamento
vi sia una cattiva informazione che non aiuta le persone a percepire il
pericolo reale. Ma, soprattutto negli uomini, è anche il frutto di una
“elaborazione” che copre il senso di colpa per avuto rapporti sessuali
con una prostituta o con una trans attraverso la paura del contagio al
punto che nel 21% dei casi, esprimono ansia per aver “ricevuto” un
rapporto orale da una persona che non è la loro moglie o la loro
compagna.
Sono situazioni che possono apparire paradossali ma che raccontano di un disagio diffuso in cui ancora oggi vive buona parte della popolazione sessualmente attiva del nostro paese.
Per quanto riguarda la corretta percezione del rischio e quindi le
richieste di aiuto che derivano dall’aver avuto un reale rischio di
contagio, possiamo dire che il 38% degli uomini (erano il 38,5% nel
2006) ci chiama perché dichiara di aver praticato un rapporto orale non
protetto dal preservativo mentre le donne che ci chiamano per questo
motivo sono il 22,7% (erano il 27,14% nel 2006). La rottura del
preservativo spinge gli uomini a contattarci nel 21% dei casi, contro
il 6,5% delle donne (ma forse queste ultime non sempre hanno la
possibilità di accorgersene). Il rapporto vaginale non protetto è il
comportamento riferito dal 17% (era il 20% nel 2006) degli uomini che
ci chiamano contro il 50,7% (erail 59,9% nel 2006) delle donne. Questa
forte differenza di percezione rispetto alla penetrazione vaginale non
protetta tra uomini e donne ci fa supporre che gli uomini percepiscano
questo tipo di rapporto come una pratica che non rappresenta per loro
un rischio di contagio.
Da due anni la LILA ha strutturato anche un servizio di counselling dedicato alle terapie
che è stato utilizzato dal 14% del totale delle chiamate. Tra le
persone che hanno chiamato questo servizio, il 16% (era il 7,3% nel
2006) ha chiesto informazioni sugli effetti collaterali mentre il 25,7%
(era il 17,5% nel 2006) delle richieste ha riguardato le confezioni con
virus epatici e il 24,22% le infezioni opportunistiche. Oltre a ciò, il
14,8% (era il 7% nel 2006) riferisce di avere difficoltà nel
rapportarsi con il proprio medico infettivologo.
Complessivamente
la fotografia che possiamo stampare guardando i dati dei nostri
centralini fa emergere un livello di conoscenza delle vie di
trasmissione del virus Hiv ancora estremamente confuso e spesso legato
a elementi emotivi che nulla centrano con la possibilità di contagio o
di prevenzione.
Frequente è l’idea che sottoporsi periodicamente al
test possa essere uno strumento di prevenzione oppure, in altri casi,
aver avuto un esito negativo del test fa immaginare che tutti i
comportamenti avuti in precedenza possano essere considerati non a
rischio.
La lunga esperienza che abbiamo sviluppato come federazione ci fa dire che lo strumento delle help-line
a chiamare (85%) rispetto alle donne (15%). Sul totale delle chiamate
che sono arrivate ai nostri centralini, il 21,5% (2,5% un più rispetto
al 2006) sono state fatte da persone che hanno detto di essere
Rispetto a questo dato va tenuto presente che gli operatori e le
operatrici della LILA non fanno domande specifiche ma si limitano a
compilare la scheda colloquio sulla base delle informazioni che vengono
liberamente fornite da chi ci chiama.
dovrebbe essere maggiormente incrementato e pubblicizzato poiché è una
delle poche forme di comunicazione che consente di interagire con chi
chiama e poter così attivare efficacemente un counselling di
prevenzione che tenga conto delle informazioni, delle motivazioni e
delle abilità comportamentali delle singole persone. Nel 13 % dei casi
è stato infatti necessario trasformare il counselling telefonico con
una modalità vis-a-vis perché ritenuta più appropriata a contenere le
ansie o a consentire alla persona di trovare adeguate risposte alle sue
domande.
Campagne di comunicazione/prevenzione ministeriali
Nel giugno 2006 Lila, insieme ad altre associazioni, inviò una lettera alla ministra Livia Turco chiedendo
che venissero ricostituite la Commissione Nazionale Aids (CNA) e la
Consulta Associazioni AIDS (CAA), reclamando per la prima una più ampia
rappresentanza delle persone sieropositive e una più varia
multidisciplinarità nella componente accademica; per la seconda si
domandava invece un maggior coinvolgimento nei processi decisionali
della CNA. Inoltre si segnalava come azione prioritaria della nuova CNA
l’attuazione di una campagna di comunicazione sulla prevenzione.
Oggi possiamo dire che la Ministra ha ascoltato le nostre richieste: la CNA
- nominata a dicembre 2006 - ha una composizione davvero
multidisciplinare e vede la partecipazione di 3 persone sieropositive,
la CAA partecipa attivamente ai lavori della CNA e infine, dopo vent’anni di attesa, è stata lanciata una campagna di comunicazione seria e al passo con gli altri paesi Europei. Finalmente nel suo messaggio vi è la promozione dell’uso del preservativo nei rapporti sessuali; finalmente si sdrammatizza e si normalizza l'uso del profilattico abbandonando il codice della paura per conquistare immagini e linguaggi positivi; finalmente si promuove un comportamento di assunzione di corresponsabilità
nei rapporti sessuali, non affidandosi solo all’altro o all’altra ma
essendo protagonisti e protagoniste dalla propria salute sessuale e di
quella della coppia (fissa od occasionale); finalmente si rivolge
direttamente e specificamente alle persone sieropositive
e alla loro sessualità con un messaggio positivo e non discriminatorio.
La prima fase della campagna, che sarà distribuita a gennaio 2008, sarà
mirata alla popolazione generale eterosessuale, ai giovani, alle
persone sieropositive. Nella seconda fase l’intervento sarà rivolto
alla popolazione omosessuale, ai consumatori di sostanze, alle donne,
alla popolazione migrante. Manca ancora purtroppo uno sguardo specifico
al “mondo carcere”, che ribadisca il diritto delle persone detenute ad
avere accesso sia alla prevenzione sia ai trattamenti indicati
dall’Oms, ma è nostra intenzione chiedere alla Ministra di avviare un
tavolo comune con il Ministero di grazia e giustizia che ci permetta di
suggerire programmi di prevenzione basati sulla evidenza di efficacia.
Le persone sieropositive in Italia
Trapianti e coinfezioni con virus epatici
Dall’avvento delle terapie antiretrovirali l’insufficienza
epatica causata dell’epatite C (HCV) è diventata una delle principali
cause di morte tra le persone HIV positive che vivono in Occidente.
Nei paesi del Sud Europa come Spagna, Francia, e Portogallo dal 30 al
70% delle persone che vivono con l’HIV sono coinfette con l’epatite C,
in Italia la stima raggiunge il 60%. La sopravvivenza all’HIV
è oggi superiore ai tempi di evoluzione dell’epatite cronica da HCV
verso la cirrosi e verso lo scompenso epatico terminale.
Benché le persone HIV sieropositive abbiano accesso sia alle terapie
per le epatiti che al trapianto di fegato, anche se in numero limitato
e insufficiente, la nostra percezione è che la situazione non sia
uguale da regione a regione. Inoltre aldilà dell’essere HIV positivi,
la condizione di tossicodipendenza attiva o l’essere in terapia
sostitutiva ci risulta essere una forte discriminante per l’accesso ai
trattamenti in generale, soprattutto al trapianto di organo quindi
anche al trapianto di fegato. Nel 2001 Esperti del centro Nazionale
Trapianti e la Commissione Nazionale Aids del Ministero della Salute
hanno dato vita al progetto pilota sui trapianti di fegato da cadavere
nelle persone con HIV che si sta completando alla fine di questo anno e
che conta circa 40 trapianti di fegatotrapianti di rene, ne sono stati effettuati solo 5
in 2 centri. Sono numeri così esigui da rendere ovvio quanto ancora sia
sottovalutata questa possibilità terapeutica. Inoltre, nel gruppo di
esperti (panel) che ha gestito i trapianti in HIV positivi non era
presente alcun rappresentante dei pazienti, così come nessuna
associazione è mai stata consultata né coinvolta lateralmente ai lavori
del panel.
Chiusa la fase del progetto pilota è quindi
assolutamente necessario rimettere mano al protocollo pilota per
attuare una implementazione del protocollo soprattutto in alcuni criteri
che ne rendono impossibile l’accesso a persone che non hanno altre
opzioni per sopravvivere. In questa seconda fase è per noi prioritario che nel gruppo di esperti le associazioni siano largamente rappresentate, si uniformino i criteri di esclusione ed inclusione dalla lista di attesa secondo le esperienze di paesi all’avanguardia in questo campo come Nord America e Spagna, si implementi l’offerta di trapianto uguagliandola su tutto il territorio italiano e, visto l’aumentata aspettativa di vita delle persone HIV positive, si estenda la pratica del trapianto di organo anche al di fuori del fegato e rene.
effettuati.
Gli ultimi dati pubblicati riferiti a dicembre 2006 evidenziano che
sono 7 i centri in Italia autorizzati ad effettuare il trapianto di
fegato, ma solo 4 hanno effettivamente eseguito un trapianto. Ancora
più paradossale la situazione dei
Sindrome dismetabolica e chirurgia ricostruttiva
La scorsa estate alcune indagini giudiziarie riguardanti la casa
di cura San Pio X di Milano su presunte truffe nei trattamenti
di chirurgia plastica eseguiti su pazienti HIV positivi,
hanno fatto sì che in alcune regioni come L’Emilia-Romagna
e la Lombardia (che garantivano gratuitamente questi interventi
a persone provenienti da tutta Italia nonostante non rientrassero
nei Livelli Essenziali di Assistenza rimborsati dal SSN) li sospendessero.
Per questo motivo oggi molti di questi pazienti - che grazie ad
un accordo di rimborsi tra regioni avevano beneficiato degli
interventi gratuiti di chirurgia plastica all’avanguardia
presso il Policlinico di Modena - si devono sottoporre a
ritocchi pagando privatamente; d’altra parte, se
tali nuovi interventi non fossero eseguiti si vanificherebbero quelli
già realizzati nel passato e il risultato ottenuto fino a
quel momento. Inoltre, a seguito di quest’indagine pur doverosa
ancora in atto, paradossalmente oggi si rischia di spazzare via
tutto il lavoro e l’impegno di un centro che, nato solo nel
2000 con modalità di lavoro quasi volontario e grazie al
supporto economico di associazioni che garantivano i nuovi materiale
per la chirurgia plastica, è diventato in pochi anni uno
dei centri più competenti del mondo nella cura degli
effetti dismetabolici nella infezione da Hiv.
A supporto dell’esperienza modenese, le linee guida
internazionali già citano la terapia chirurgica
come trattamento integrato della malattia da HIV e nel prossimo
ottobre le nuove linee guida europee auspicheranno l’accesso
alla chirurgia plastica a tutte le persone con lipoatrofia facciale;
oggi, quindi, non possiamo permettere che proprio l’esperienza
italiana venga annullata nel momento in cui altri paesi si apprestano
a seguirla; è per noi lila urgente includere gli
interventi di chirurgia plastica ricostruttiva della lipoatrofia
facciale e di trattamento dei lipomi localizzati del sottocute nell’ambito
dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) così
da garantire un’accessibilità uniforme su tutto il
territorio nazionale, costruendo percorsi di valutazione dei risultati.
Riduzione del
danno e consumo di sostanze
La situazione della rdd in Italia è estremamente
difficile e potrebbe essere paragonata a quella di un malato grave
a cui urgono cure intensive ed immediate. Le cause sono da ricercarsi
nell’assenza di credito e supporto istituzionale da parte
di chi dovrebbe credere, difendere e finanziare gli interventi di
riduzione del danno, nella carenza di una volontà finanziatrice
in questo ambito, e infine nella mancanza di scelta politica e coraggio
nello sperimentare progettualità nuove utili per cambiamenti
drastici dei consumi e dei consumatori. Ma non è sempre stato
così, infatti nei primi anni 2000 le esperienze italiane
portavano nostre équipes all'estero per formare sugli interventi
di rdd i colleghi spagnoli e portoghesi (tanto per citarne alcuni),
oggi invece dobbiamo constatare che Spagna e Portogallo hanno inaugurato
le safe room mentre in Italia il solo parlarne scatena reazioni
politiche ideologiche precostituite e senza fondamento scientifico
alcuno. Il paradosso è che non solo non riusciamo
a sperimentare azioni innovative di rdd ma siamo addirittura in
difficoltà a difendere interventi ormai acquisiti
come la distribuzione di condom in centri a bassa soglia o lo scambio
di siringhe attraverso le Unità di strada. Tali passi indietro
rischiano seriamente di far riesplodere situazioni drammatiche di
contagi da HIV/HCV/HBV. Nello specifico il tema HCV, in Italia estremamente
sottovalutato, potrebbe a breve divenire la nuova grande epidemia
mondiale.
I casi di infezione sono in trend ascendente in tutto il mondo e spesso è necessario intervenire con un trapianto d’organo. Tuttavia sempre poco si fa in tema di trapianti per persone consumatrici e in Italia il consumo di cannabis, così come il trattamento metadonico, sono elementi di espulsione dalla lista d’attesa; inoltre il sistema di inserimento nella lista trapianti si differenzia da Regione a Regione. La difesa di quanto finora raggiunto è diventata quindi, per assurdo, la prima esigenza affinché la rdd sia veramente un pilastro del contrasto alla droga; a seguire è necessario sperimentare iniziative di comprovata validità a livello europeo e mondiale (safe room, pill testing, sistema di allerta rapido interregionale), senza dimenticare di sviluppare, o in alcuni casi far nascere, gruppi di advocacy dei consumatori che diventino veramente protagonisti nella contrattazione con le ASL e che difendano i propri diritti di cittadini prima ancora che di consumatori. Ma il panorama politico italiano non è incoraggiante: non è stato ancora abrogato il famigerato stralcio Giovanardi e la rdd non è stata affatto rilanciata, non essendole stato riconosciuto il ruolo scientifico e non ideologico che riveste in tutto il panorama mondiale. Vorremmo infine ricordare che il primo obbiettivo della rdd è quello di far vivere le persone consumatrici evitando di esporle a rischi di contagi o da situazioni estremamente rischiose, un assioma di base su cui difficilmente si può essere contrari.
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