Muri e centri commerciali. Revelli sul frangente storico e le possibilità di un futuro
Vi propongo questa intervista di Federico Tomasello a Marco Revelli che reputo estremamente lucida e spietata nel descrivere il tragico spirito del tempo che accompagna questo nascere di millennio e la desolante afasia della sinistra di fronte ad esso.
L’anno appena nato segna il ventesimo anniversario di uno dei fatti più
rilevanti e simbolici del secolo scorso: la caduta del muro di Berlino.
Cominciamo dai tuoi ricordi, dalle emozioni del momento, da una prima
lettura di quell’evento anche nel tentativo di dire se esso fu un vero
e proprio evento rivoluzionario oppure un fatto fra gli altri in quegli
anni di grande cambiamento, enfatizzato e utilizzato dai vincitori in
termini simbolici?
Provo a mettere in fila una serie di questioni, alcune poste in modo
più impressionistico, diciamo così, altre con un maggior sforzo di
razionalizzazione… La prima osservazione – la più impressionistica di
tutte – riguarda il valore simbolico dei muri. E da questo punto di
vista i muri non sono difendibili: nessun muro è difendibile.
Simbolicamente – ma i simboli esprimono gli aspetti più profondi del
nostro comune sentire -, i muri comunicano chiusura, negazione di
libertà, limitazione ed esclusione. Contro i muri si fucilano le
persone, attraverso i muri le si segregano. L’impossibilità di
attraversare è impossibilità di comunicare. I muri sono solo un simbolo
negativo, rappresentano la peggiore delle tentazioni umane, quella di
rinchiudere e rinchiudersi. Perciò quando cade un muro la prima
sensazione non può essere altro che di liberazione.
Il che ci porta a una seconda osservazione, più storica: che è avvenuto
quando è caduto quel muro? Allora noi tutti – il mondo intero potremmo
dire - abbiamo assistito anzitutto ad un evento mediatico, che si
poteva vedere in diretta, con le immagini di Rostropovich che suonava
al violoncello l’Inno alla gioia sotto il muro, e i ragazzi seduti a
cavalcioni su quell’oggetto che era stato fino ad allora intoccabile, a
cui non ci si poteva avvicinare a rischio di essere presi a fucilate.
La sensazione insomma della festa. Si trattava però a ben vedere di una
festa fredda, molto mediatica. La sensazione – almeno la mia sensazione
di allora - era che l’evento atteso e desiderato – non si poteva altro
che desiderare la caduta di quel muro - fosse avvenuto non nel modo
sperato, non nel modo auspicato soprattutto dai dissidenti della DDR,
da quello di Win sind das Volk, insomma da quelli che per anni avevano
lavorato per la liberazione. Dietro quell’evento c’era senza dubbio una
rivoluzione perché un regime crollava, ma potremmo definirla una
rivoluzione senza rivoluzionari, una “rivoluzione passiva” direbbe
Gramsci, di quel tipo cioè che riservano spesso sgradite sorprese. Si
trattava prima di tutto di una rivoluzione fatta con i piedi, fatta
cioè da gente che si spostava in massa verso ovest ma senza la passione
e la cultura della libertà piena. “Senza parole”, potremmo dire, solo
con l’atto di “andare”: si spostavano di alcune centinaia di metri ed
il primo approdo che trovavano era il supermercato. In questo senso era
una rivoluzione all’insegna del consumo, delle merci. E’ questo l’altro
aspetto del fenomeno. C’era qui senza dubbio una domanda di
eguaglianza, ma eguaglianza rispetto allo standard di vita più elevato
dei tedeschi occidentali. Alla loro possibilità di accesso ai consumi
opulenti: era il Marco occidentale ciò che unificava tutti, più che la
ricerca consapevole di un altro modello di società. Si trattava dunque
di una libertà molto vigilata qual’è quella che si instaura all’interno
del mercato, dentro il quale i tedeschi orientali avrebbero ben presto
scoperto di essere destinati a rimanere comunque i più poveri, a
rimanerlo a lungo, soprattutto i pensionati, la parte cioè
biologicamente più debole.
Potresti fare in estrema sintesi un bilancio di questi venti anni in
termini di assenza: quali sono secondo il tuo punto di vista le
discontinuità più significative in termini storici dovute a
quell’evento?
Il bilancio, bisogna dirlo, è molto negativo, soprattutto se misurato
sullo “stato del mondo” e non solo della Germania o dell’Europa. Perché
i vincitori di quella partita - l’Occidente, le sue leadership, gli
Stati Uniti e l’Europa - non riempirono quell’enorme cratere che si era
aperto con valori positivi, anzi: nemmeno due anni più tardi si
inaugurava un’epoca di guerre, con la prima guerra del Golfo; nello
stesso tempo le politiche sociali venivano destrutturate, garanzie e
salari dei lavoratori attaccati e abbassati e cominciava a gonfiarsi
quella bolla finanziaria all’insegna del “più credito meno salario” che
è stata il centro della new economy. Soprattutto si è affermata quella
sensazione di assenza di alternativa all’esistente che sarà poi
chiamata “pensiero unico”. E questa è la misura della catastrofe: sotto
le macerie del muro è rimasta schiacciata anche l’idea stessa di una
trasformazione possibile, di una fuoriuscita positiva dall’esistente…
Questo è accaduto perché il mondo è immediatamente apparso dominato da
una sola ideologia, quella del mercato e del suo unico, omogeneo,
acritico pensiero. Ma tutto questo non pone affatto in questione il
fatto che alla domanda se quell’alternativa (quella che si era
materializzata storicamente nel nodello sovietico o tedesco-orientale)
meritava, o semplicemente poteva, essere tenuta in piedi bisogna
rispondere – a costo di mettere direttamente in discussione la nostra
identità, l’identità di tutte le sinistre – di no. Dicendo con
chiarezza che quell’alternativa non poteva essere tenuta in piedi. E
non lo meritava neppure. Era indifendibile. Di qui dobbiamo partire,
nella nostra solitudine: per chi vuole trasformare l’esistente non è
più permesso di rifugiarsi nell’illusione che là – nella Germania degli
Honecker, della Stasi, del “muro” - ci fosse qualcosa che potesse
parlare anche a noi, alla nostra voglia di uscire dall’esistente.
Quella non era l’alternativa, storicamente è crollata ma anche dal
punto di vista etico e politico non meritava di essere difesa.
La caduta del muro ha dato adito a nuove teorie e speranze non solo
dalla parte di chi ha creduto nella “fine della storia”, secondo le
note tesi di Fukuyama, ma anche da quella di chi ha pensato che
quell’evento potesse segnare l’inizio di una nuova storia, di una
possibilita’ di trasformazione inedita proprio perchè libera dal
pesantissimo esempio e dall’asfissiante presenza dei paesi del
socialismo reale. Era una vana speranza oppure rappresenta un tema
tutt’oggi all’ordine del giorno? Ovvero a vent’anni di distanza si deve
ancora guardare a quell’evento nei termini di una nuova possibilità?
Questo è il tema all’ordine del giorno di oggi. Anche perché i
vincitori di ieri hanno portato se stessi ed il mondo che hanno
occupato ormai totalmente sull’orlo dell’abisso. Lo stile di vita, il
modello di società, il tipo di politiche che hanno gestito ed a cui
hanno dato forma in questi anni si rivela oggi insostenibile, non sta
in piedi. L’immagine della bolla che esplode è efficace e indicativa.
E’ obbligatorio oggi pensare un’alternativa. Il problema è che i
tentativi di costruirla in questi venti anni sono stato sconfitti, non
possiamo nascondercelo. Il movimento dei movimenti, l’altermondialismo,
si erano costruiti dentro un’esatta consapevolezza del fatto che il
neoliberismo non poteva garantire il governo del mondo, non era la via
per la sopravvivenza dell’umanità, ma avevano sottovalutato la
determinazione, la capacità di violenza del pensiero unico e dominante,
il suo potenziale di manipolazione dell’immaginario collettivo ed il
suo radicamento in esso, la sua disponibilità alla violenza. E’
indicativo che poco dopo l’apertura del ciclo altermondialista prenda
vita la fase dell’11 settembre, dominata dalla guerra come categoria
fondante del nuovo mondo, un mondo che non a caso aveva come collante,
cemento e sistema venoso e nervoso la rete finanziaria. Tutta questa
capacità di resistere alla critica e all’antagonismo era stata
ampiamente sottovalutata così come si era di molto sottovalutato il
logoramento degli strumenti politici tradizionali: la forma partito, il
modello di democrazia rappresentativa - che ci si illudeva continuasse
a giocare lo stesso ruolo che aveva svolto nel novecento ma era invece
stato ampiamente messo fuori uso dai nuovi meccanismi, le forme stesse
della politica e le sue culture. Si è pensato che fosse sufficiente un
maquillage delle tradizionali culture politiche delle sinistre - sia
rivoluzionarie che riformiste – per adattarle alla nuove condizioni,
senza capire che in realtà erano state messe definitivamente fuori
gioco. Non si è compreso l’emergere di forme inquietanti di
plebiscitarismo, di un autoritarismo soft realizzato attraverso il
video piuttosto che con l’olio di ricino e le prigioni, di
mercatizzazione del consenso che ha trasformato la politica in
marketing e colonizzato le menti con i codici della merce e della
pubblicità. Tutto questo era stato sottovalutato.
Ed era stata sottovalutata anche la crisi di un concetto fondante di
tutte le culture politiche della sinistra che era l’idea di sviluppo.
Una delle caratteristiche del nuovo mondo, che determina l’impasse del
neoliberismo, è l’impraticabilità dell’idea di sviluppo se non nella
forma di uno sviluppo per pochi privilegiati, da costruire e difendere
con la guerra che ne diventa in qualche modo sinonimo. Lo “sviluppiamo”
– termine orribile ma purtroppo realistico - era stato il comune
denominatore di tutte le culture politiche della modernità e del
novecento, sinistre comprese, anzi esso assumeva caratteri patologici
nell’estrema sinistra, nella sinistra comunista: la teoria delle forze
produttive, l’accumulazione e l’industrializzazione forzate erano stati
il segno della radicalità bolscevisca. Il fiore all’occhiello di ogni
rivoluzionario in Occidente come nel Terzo mondo. Di questo portato ci
dobbiamo oggi liberare. Il tema odierno riguarda come organizzare il
mondo in una situazione in cui lo sviluppo (la crescita quantitativa
del Pil globale, la forzatura dei limiti naturali del Pianeta per
estrarne in forma illimitata risorse produttive) non è più realizzabile
se non con la guerra e solo per alcuni settori limitati dell’umanità.
L’unica cultura che può rispondere ad un bisogno di futuro è una
cultura dell’equilibrio, della sobrietà, della consapevolezza del
limite, del rispetto dei limiti invalicabili dell’ambiente, delle
materie prime, della nostra capacità di accaparramento delle risorse
materiali. Per ridistribuire in forma più equa quello che c’è (ed è già
molto), non per far crescere in forma abnorme una torta dalle
dimensioni già insostenibili. Questo è indispensabile se si vuole poter
pensare un’alternativa alla distruttività del capitalismo attuale. Ma
non c’è nessuna delle culture della sinistra storica che abbia questo
nel suo dna. E nemmeno che metta questo problema all’ordine del giorno:
lo spettacolo della nostra sinistra, delle varie sinistre italiane
(quante sono? ho perso il conto) impegnate a scannarsi, occupate
ossessivamente nella scissione dell’atomo piuttosto che nei grandi
problemi del nostro tempo, parla da sè. E così al pensiero unico
dell’avversario tutte le sinistre - compresa quelle cosiddetta radicale
– contrappongono un pensiero corto, che non riesce ad andare oltre se
stesso: la di là della propria identità storica nel migliore dei casi,
o oltre i propri estenuati ma aggressivi gruppi dirigenti nel peggiore…
…Proprio a questo proposito ti è forse arrivata eco del dibattito
apertosi anche sulle pagine di Liberazione intorno alla scelta di
un’immagine della caduta del muro per la tessera 2009 dei Giovani
Comunisti/e...
Lasciamo perdere… Questa vicenda mi dà un senso di desolazione per il
modo in cui eventi epocali vengono sviliti nella quotidianità di un
dibattito politico perduto – segregato” vorrei dire - nei meandri delle
alchimie d’organizzazione, ridotti a piccole bandierine ideologiche da
piazzare sul proprio campo anziché essere colti come grandi sfide per
capire cosa ci sta succedendo. Penso che non ci si possa servire della
“grande storia” per tentare di trovare qualche frammento di passato cui
aggrapparsi per affermare un’identità che non c’è più, oppure da
demonizzare per giustificare un’opposta identità che non affiora…
Tu hai da sempre rappresentato una voce radicalmente critica nei
confronti dei regimi del cosiddetto socialismo realizzato. Oggi pensi
che ci sia qualcosa che si possa salvare di quelle esperienze, sei fra
quelli che a posteriori ritengono che essi abbiano potuto giocare una
funzione storica positiva, se non altro in termini di garanzie e tutele
per i lavoratori e gli sfruttati che vivevano da questa parte della
cortina di ferro?
Credo che la vicenda non possa essere compresa se non la si inscrive
nella tragedia del novecento, un secolo tragico, nel quale la regola è
stata l’”eterogenesi dei fini”, il trasformarsi di intenzioni volte al
bene nel male radicale, come per il comunismo nei paesi in cui si è
realizzato, oppure l’affermazione del male assoluto come nel caso del
fascismo e del nazionalsocialismo. Nel novecento anche una guerra che
poteva essere considerata come una guerra di liberazione del mondo dal
pericolo nazi-fascista è stata conclusa con una catastrofe della
portata di Hiroshima e Nagasaki: anche quella che potrebbe tra
virgolette essere definita una “guerra giusta” è stata segnata, oltre
che da un massacro di proporzioni bibliche, da un evento foriero della
vera fine della storia. È difficile quindi rapportarsi con il Novecento
dicendo stai di qua o stai di là. Non c’è dubbio che l’ottobre russo,
la rottura di quella forma assolutamente dispotica che era lo zarismo
ha rappresentato una breccia per il mondo intero, ha permesso atti di
straordinaria generosità, esperienze collettive luminose, basti pensare
alle brigate internazionali nella guerra civile spagnola, gente che da
tutto il mondo va a combattere per la libertà e la democrazia di un
altro paese, basti pensare alla nostra Resistenza e alla partecipazione
ad essa di masse di sfruttati mossi da una speranza di emancipazione, o
semplicemente alle lotte del lavoro, operaie e bracciantili nel nostro
paese che tante conquiste sociali hanno permesso. Tutto questo sta
dentro quell’alone, quella vicenda storica che aveva però nel suo
centro un cuore nero, non visibile dall’esterno ma di cui oggi abbiamo
tutte le prove e dimostrazioni: i massacri, le persecuzioni, il regime
poliziesco, lo spionaggio, il tradimento perfino di se stessi, pensiamo
a Bucharin che arriva a confessare ciò che non aveva mai fatto pur di
poter rimanere dentro l’alone dell’esperienza epica della rivoluzione…
Parliamo di tragedie inenarrabili, che non possono essere trattate per
contendersi un millimentro di spazio politico oggi. Io credo che il
giudizio sull’esperienza del comunismo novecentesco debba passare
attraverso un doloroso lavoro di scavo critico e autocritico che
permetta alla fine di evitarne gli errori e gli orrori.
La caduta del muro prometteva un’epoca di progresso indefinito, pace e
di liberta’. Oggi a vent’anni di distanza Slavoj Zizek rileva come
viviamo un tempo in cui nuovi muri sorgono ovunque, da quello eretto
dal governo israeliano nei territori palestinesi a quelli nostrani come
via Anelli a Padova, dalla frontiera europea di Ceuta e Melilla alle
gated communities “a risposta armata” di Los Angeles e molti studiosi
sostengono che le frontiere non sono piu’ soltanto quelle che si
dispiegano fra gli stati nazionali ma che esse assumono sempre di piu’
un carattere ed una presenza tanto immateriali quanto invadenti dentro
le stesse metropoli occidentali. Condividi questo punto di vista?
Esiste un rapporto fra la caduta della cortina di ferro e questo nuovo
dispiegarsi di mura e frontiere?
Sì condivido. Assistiamo alla crescita di muri fisici come quelli da te
indicati ma anche di muri per alcuni versi più agghiaccianti che sono i
muri interiori, costruiti nell’immaginario delle persone. Sono muri che
tracciano nuovi confini fra chi viene considerato umanità e quella
parte di umanità a cui viene negato lo stato di umano. Sono i muri che
attraversano il nostro canale di Sicilia, il canale d’Otranto, lungo i
quali le vittime sono migliaia e migliaia, vittime senza nome, senza
volto e senza sepoltura perché finiscono in fondo al mare. Sono i muri
che impediscono di vedere la tragedia di Gaza. Sono muri senza dubbio
cresciuti nel vuoto che si è creato dopo la caduta di quell’altro muro,
nel vuoto di cultura, nel pieno di merci, in cui i luoghi di
socializzazione sono diventati gli ipermercati, i centri commerciali, i
salotti televisivi o le curve degli stadi. Questa è la nuova
antropologia che si è disegnata nell’ultimo ventennio: uomini e donne
che non cercano più l’uguaglianza come nel mondo operaio e contadino,
ma cercano la distinzione, comprano tutti le stesse merci convinti che
il possesso di quelle gli consenta di essere diversi, un poco “più su”
degli altri. È questo il prodotto non tanto della caduta del muro ma
della nostra incapacità di costruire un’alternativa storica e culturale
credibile ed in grado di riempire quel vuoto.
Se il secolo scorso si e’ aperto sotto la luce piena di speranza della
rivoluzione, il nuovo millennio ha visto, fra le altre cose, un inedito
proliferare di rivolte, da Buenos Aires a Genova, dalle banlieues
francesi alla recentissima ed ancora aperta insurrezione greca. Pensi
che questi eventi possano in qualche modo rappresentare strumenti
utili, spunti da cui ripartire nella ricerca di una sinistra possibile?
Si tratta di segni, segnali di vita, sintomi che il territorio non è
stato integralmente occupato dagli altri e continua a produrre
fratture, difficoltà di controllo. Ma hanno il carattere di segni e
come tali non fanno ancora un discorso e non disegnano il profilo di
un’alternativa. Sono rivolte e come tali sono momenti positivi che
indicano che esiste ancora gente viva perché l’alternativa è il
silenzio dei cimiteri. Tuttavia “un segno” non fa ancora “un discorso”.
Non voglio parlare di un “progetto” perché non credo più nella
concezione ingegneristica della rivoluzione che crede di costruire la
società come si costruisce un condominio o una macchina, parlo
semplicemente di un discorso perché oggi c’è bisogno di un discorso
alternativo che disegni la possibilità di un futuro. Il tratto
distintivo del nostro secolo è esattamente l’assenza di futuro o la
percezione che il nostro futuro sia possibile solo a spese di qualcun
altro. La tragedia del nostro tempo è che manca un discorso che sappia
riaprire un futuro comune e solidale contro l’idea attuale della
sopravvivenza conflittuale. Oggi a sinistra non vedo nessuno che lavori
per questo, sono tutti occupati a raccogliere da terra i rottami delle
proprie identità infrante per poi, possibilmente, usarli come clave
sulla testa dei propri vicini.
Il ventennale della caduta del muro ha riaperto anche un dibattito
intorno ai valori della sinistra. In particolare c’è chi indica la
necessità di riconoscere definitivamente il tema della libertà come il
primo e più rilevante criterio dell’azione politica…
Io credo che sui valori non si possano stabilire graduatorie. Libertà e
eguaglianza sono i due valori forti ed identificanti. Non si tratta di
stabilire quale debba avere il primato, bisogna semmai indicare un
giusto equilibrio, il migliore possibile. La libertà ridotta alla sua
dimensione pura, sensa aggettivi o contrappesi, è quella teorizzata da
Nietzche per i signori: è la libertà per i più forti di fare ciò che
più gli aggrada. La libertà che non riconosce i propri limiti nella
libertà degli altri e nella possibilità di equilibrio con le altrui
richieste di uguaglianza è un’affermazione estremamente pericolosa.
Libertà non vuol dir niente se non si spiega quale libertà, per chi e
di fare che cosa. Così come quando parliamo di uguaglianza dobbiamo
anzitutto specificare tra chi e in che cosa. Quindi personalmente
proporrei di non utilizzare i valori politici come bandiere da
sventolare, ma di coglierne la problematicità.
da Liberazione, 4 gennaio 2009
Default:
Dove:
- Blog di Anonimo
- Accedi per lasciare commenti
Commenti recenti