TRE PASSI NELLA CRISI. Dalla critica dell'economia politica alla critica del sistema capitalisitico.
«Questo capitalismo lucra anche su lavoro e vita». Intervista a Cristian Marazzi. di Claudio Jampaglia
Christian Marazzi è un mite economista e sociologo che insegna alla "Scuola universitaria professionale della svizzera italiana". E' noto per diversi libri ("Il posto dei calzini", "E il denaro va...") e anche per una partecipazione di molti mesi orsono a "l'Infedele" di Gad Lerner in cui ragionando di crisi aveva anticipato alcune difficoltà finanziarie per il colosso elvetico Ubs. Apriti cielo. Fu accusato di disfattismo bancario, quasi un crimine in Svizzera. Adesso, però, che succede esattamente quello che lui andava dicendo, nessuno gli ha chiesto scusa. Noi gli chiediamo, invece, cosa sta succedendo e la sua lettura è in controtendenza e si rivolge alla sinistra.
Stretta creditizia, crisi di liquidità, bilanci pieni di titoli "tossici", sembra che il sistema che tu hai chiamato del "bio-capitale" si sia gravemente ammalato...
Sta succedendo, a mio modo di vedere, che quello che alcuni avevano chiamato capitalismo manageriale o azionario ed altri una sorta di bio-economia, questo capitalismo degli ultimi 20 anni in breve, sta dimostrando tutta la sua fragilità. Il punto non è tanto la ristrettezza di liquidità o di capitali nel sistema. Ce n'é. E comunque le banche centrali sono impegnate ogni giorno a mantenere la liquidità. Il punto è che c'è anche una totale sfiducia nel mondo finanziario e bancario. Per le operazioni correnti le banche non hanno più la possibilità di far ricorso l'una all'altra. Nessuno sa più cosa abbia in bilancio la banca della porta accanto. Non si fidano più. E questo è ciò che collega la crisi finanziaria all'economia tout court. E da questa situazione la recessione non può che essere amplificata.
E come ne esce il capitalismo?
Cominciamo a dire come possiamo immaginare che ne esca... Dipende da come si definisce questo nuovo capitalismo finanziario. In generale, e questo vale soprattutto per la sinistra, tutte le colpe della crisi vengono addossate alla perversione della finanza e alle scelte che non privilegiano gli investimenti per l'innovazione, per l'occupazione. Alla finanziarizzazione si imputa cioè di aver prodotto solo rendita finanziaria e non crescita economica, reiterando quella divisione tra economia reale, da una parte, ed economia finanziaria e monetaria, dall'altra, che io credo appartenga ormai al '900. Le coordinate della crescita capitalistica dagli anni '70 stanno proprio in un nuovo rapporto tra macchine e lavoro vivo e il sentiero del capitale è stato quello, metaforicamente parlando, di uscire dai cancelli della fabbrica e andare a succhiare sempre più valore nelle classi sociali, nella società tutta. In tutto il suo spazio, in tutto il suo tempo.
E' questa la bio-economia?
E' la vita, i saperi, la cooperazione sociale e spontanea, tutto ciò che è nella sfera della circolazione della vita, come fonte di valore. La finanziarizzazione fa parte di questo processo. E la rendita finanziaria è la faccia monetaria di un valore captato nel corpo vivo della società. Cooperazione, disponibilità, creatività messe a valore. La vita ha preso il posto della terra, direbbero i fisiocratici (si riferisce al movimento di pensiero del XVIII secolo che sosteneva il valore dell'agricoltura rispetto a quello del commercio o della produzione, N.d.R.). E in questo c'è un divenire rendita del profitto e forse anche un divenire rendita del salario. Il destino dei lavoratori è stato legato a quello del capitale attraverso fondi pensioni e svuotamento del lavoro stesso. Tutto ciò è evidente negli Stati Uniti dove gli effetti ricchezza sono divenuti estremamente diseguali. Il salario è rimasto fermo, si è destabilizzato, de-standardizzato, precarizzato. Il lavoro non riesce più a produrre per stimolare la crescita, ma il capitalismo ha sviluppato enormemente il credito al consumo per sostenere la domanda e la crescita. Senza consumi non si cresce e la leva che ha colmato il gap tra salari e plusvalore prodotto è diventato il credito. La leva finanziaria è così entrata dentro la domanda di consumo. Ed ha funzionato fino all'anno scorso. E credo che per capire lo sbocco di questa crisi bisogna capire cosa c'è di nuovo nel capitalismo finanziario.
Nella bio-economia è centrale però la differenza tra chi sa e chi no, tra chi partecipa alla classe finanziaria e chi la subisce. Queste asimmetrie di conoscenza, di potere, stanno cadendo? Aiutano a svelare?
Il sistema è bugiardo di per sé. E' una classica asimmetria di crescita. Lo spiega bene Foucault, il potere deve produrre sapere, detenerlo e anche estirparlo dalla gente. I mercati funzionano per ondate di convenzioni: internet,
Stai parlando alla sinistra? C'è qualcosa che non va nell'analisi?
Quello che vedo non riusciamo a digerire è questo elemento espansivo della finaziarizzazione che ci obbliga a pensare a forme di lotta in cui siamo costretti a rimettere in discussione i capisaldi come il concetto di proprietà. Se c'è solo l'individualismo proprietario o patrimoniale, che sembra essere la nuova definizione del homo economicus post-fordista, come facciamo politicamente e anche organizzativamente a riproporre la proprietà sociale, quella collettiva, il pubblico in generale o il comune? Val anche per il sapere collettivo, le relazioni sociali e così via, tutto quello che noi produciamo e siamo nella bio-economia. In fondo siamo ancora ai "commons "del '600 inglese, le terre recintate che hanno dato il via alla proprietà e al capitalismo. Siamo di nuovo ai fisiocratici. E la finanziarizzazione permette di creare nuovi recinti, di creare scarsità dentro l'abbondanza. Per questo contesto, ad esempio, che ci sia mancanza di liquidità nel sistema, come non c'è mancanza di alloggi. L'unica cosa scarsa in questo sistema sono i diritti sociali.
E dal punto di vista macroeconomico quali sono le tue previsioni?
Posso solo rispondere con i dati che emergono giorno per giorno. Gli indici sono molto negativi in Usa come in Europa. E' la recessione. Ma vedo anche un serio rischio di stagflazione. Ci sono segnali di diminuzione dei consumi, ma il raddoppio del deficit pubblico americano ci pone un interrogativo senza precedenti. Pur tutelato e difeso da tutte le banche centrali può reggere ancora e quando? Qualsiasi altra moneta sarebbe crollata. Al momento, anche se l'interscambio con l'Ue è maggiore,
In America molti commentatori scommettono sulla fine della "superclass" del 1% dei decisori e detentori di capitale finanziario e sul ritorno della middle-class. Altri scommettono sui paesi emergenti...
Che ci sia una forte crescita, nei limiti ambientali, del ceto medio dei paesi emergenti è vero. Il modello americano però non è duplicabile, si può solo redistribuire, cioè spostare dei super-consumers da una paese all'altro. Ma io vedo l'altra faccia del discorso. Quello del siamo tutti sulla stessa barca. La chiamata a stringere tutti la cinghia. Mi ricordo Greenspan nei primi anni di questa turbolenza dire che bisognava affrontare assolutamente la questione dei salari. Lo hanno detto un po' tutti. Ma da 20 anni i lavoratori sono sotto scacco, dalla condizione di negoziazione al quadro legislativo e fiscale per arrivare a salario e potere d'acquisto. E adesso ci chiedono unità e sacrifici. Sta alla sinistra ricostruire un modo e un percorso perché ci sia un cambio politico in questa fase di tensione e di conflitto. Io credo che sia necessario uscire dall'ottica salariale e creare un'ottica di rendita sociale. Ciascuno di noi produce una ricchezza non solo monetaria, nella società. Dovremmo conoscerne la messa al valore e ragionare sulla proprietà sociale, sui diritti sociali. E' difficile. Vuole dire smuovere le proprie certezze. Ma è necessario. Liberazione, 4/10/08
Il mercato in difficoltà e lo stato interventista. di Riccardo Bellofiore
Nei commenti di queste settimane non ci è stata risparmiata la sequela di argomentazioni tranquillizzanti: crisi passeggera; non si può fare a meno della finanza; le banche europee sono al riparo; il vecchio continente, ancora manifatturiero, ne uscirà rafforzato; l'Italia può contare sulle medie imprese multinazionali. Peccato che questa finanza ci abbia portato sulle soglie di una nuova Grande Crisi. Che le banche europee abbiano aggirato la regolamentazione per garantirsi più elevati rendimenti. Che lo sganciamento dell'Europa dagli Usa si sia negli ultimi mesi sgonfiato come una favola. Che i pochi spezzoni vitali del nostro apparato produttivo siano fragilissimi e dipendenti dalla congiuntura. Certo, è finito un mondo. Il punto non è quello di capire il «perché» di breve periodo. Si tratta di capire come se ne esce. Meglio, come ne uscirà il capitale. Senza fermarci alle verità ovvie: socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti; la crisi verrà pagata dal mondo del lavoro. E senza saltare sul carro del solito Tremonti colorato «di sinistra», quando si ha a che fare con un neoliberismo compassionevole dai tratti fascistoidi e reazionari, incluso il protezionismo.
Su queste colonne, un anno fa, segnalavo come lo scoppio della bolla immobiliare abbia visto il ritorno di un Minsky moment, di un punto di svolta superiore nel ciclo dell'instabilità finanziaria. La «nuova economia» si è nutrita di una convenzione Greenspan. La politica monetaria spingeva verso l'alto le «attività» (azioni, case), il che ha rafforzato l'effetto leva. Si ampliava l'indebitamento delle famiglie, a sostegno di un consumo «autonomo» da effetto ricchezza. E si forniva domanda ai neomercantilismi forti (come quelli asiatico e tedesco) e deboli (come quello italiano). Un sistema bancario ombra, ma interconnesso con le banche vere e proprie, poteva fornire moneta senza limiti, mentre la riduzione della disoccupazione di lavoratori «traumatizzati» non si traduceva in pressione sui salari.
A un certo punto, come nella poesia di Yeats, «le cose si dissociano, il centro non può reggere». La bolla scoppia, si rischia la deflazione da debiti. Dietro l'illiquidità fa capolino l'insolvenza, le relazioni interbancarie si bloccano. Facile prevedere i ripetuti interventi delle banche centrali come prestatrici di ultima istanza, e la politica di bassi tassi d'interesse, da parte almeno della Fed. Da marzo/aprile c'è stato un cambio di passo. Il Minsky moment si è mutato in un Minsky meltdown, in un collasso vero e proprio. Per lo spettro dell'insolvenza, sempre più operatori finanziari devono svendere attività: ma se lo fanno tutti, questo non aiuta i bilanci, li affossa. L'acceleratore finanziario è diventato un deceleratore finanziario. Quando il problema non è l'illiquidità, il prestatore di ultima istanza non può bastare. Lo si inizia a vedere con la prima crisi Bear Sterns.
Mentre l'economia reale entra in fibrillazione, si deve nazionalizzare, direttamente e indirettamente, sia la finanza che l'immobiliare: i due pilastri della crescita Usa, dunque mondiale.
Inutile prendersela con Bernanke. Studioso della Grande Crisi, teorico dell'acceleratore finanziario, sa che la politica monetaria deve essere diversa nelle fasi espansive e in quelle di crisi. Ha fatto quel che ha potuto. Non ce la fa perché non ce la può fare: perché i problemi della finanza affondano nelle contraddizioni dell'economia reale. E' per questo che non valgono granché i buoni consigli di chi, soprattutto i social-liberisti, intona le lodi di migliore regolazione e più stretta vigilanza, e vuole riregolamentare. Ottime parole, buone nei tempi di crisi, e presto dimenticate quando le cose vanno bene.
Il problema di fondo è che il rischio sistemico globale della finanza viene dall'attacco al lavoro degli ultimi decenni. La finanza sregolata, ma politicamente governata, è stata il modo singolare ma efficace per rispondere alla tendenza alla stagnazione da domanda che è l'altra faccia della precarizzazione del lavoro. Non è un problema di instabilità finanziaria: è un problema di domanda effettiva, che nasce dalla organizzazione della produzione, e del lavoro al suo interno. Il paradossale «keynesismo» trainato dalle bolle speculative è oggi al capolinea. La crisi di questo meccanismo obbligherà a trovarne altri: a ricostruire da cima a fondo circuiti monetari, governo macroeconomico, equilibri internazionali.
Il verso successivo di Yeats recita: «e la pura anarchia si rovescia sul mondo». Non ci conterei. Scommetterei piuttosto su una buona dose di mano visibile. Non necessariamente benevola, sia chiaro. Invece di discutere di Stato e mercato, quando è fuori discussione che lo Stato non può che aumentare la sua presa sull'economia, sarà forse il caso di organizzare una resistenza, ma anche di riprendere davvero i temi di un intervento politico nell'economia diverso da quello che il prossimo futuro ci riserva. il manifesto, 5/10/08
L'occidente alla catastrofe, forse è un male forse un bene, di Berardi Bifo
Il crollo del sistema finanziario internazionale è l'inizio di un processo di trasformazione profonda e catastrofica delle società di tutto il mondo. Gli effetti di questo collasso sono ormai prevedibili. Avendo succhiato tutte le risorse disponibili per salvare le banche, senza peraltro riuscire a salvarle, il potere politico americano ha fatto una scelta: mandare nell'abisso l'economia reale.
Cosa vuol dire infatti il colossale intervento del Tesoro? Vuol dire ipotecare le risorse di tutti. Ogni americano pagherà duemila dollari per salvare Wall Street, non ci sarà più credito disponibile e non ci saranno soldi per gli investimenti. La disoccupazione in America è aumentata di centosessantamila unità nel mese di settembre. E' facile immaginare cosa accadrà nei prossimi mesi. La crisi finanziaria, d'altronde, non va vista come un fenomeno isolato. Essa è in stretto collegamento con un'altra catastrofe, quella geopolitica, quella militare.
Dal
Questa è la posta in gioco, questo è l'orizzonte nel quale ci muoviamo. Il 20% della popolazione terrestre che si appropria dell'80% delle risorse della terra è forse pronto a restituire il maltolto? Purtroppo non è pronto, anzi non vuole nemmeno riconoscere l'entità del problema, almeno fino ad oggi. E questo vorrà dire guerra, razzismo, violenza. E' bene saperlo.
Ma questo vorrà dire anche la fine dell'Occidente. Non del capitalismo badate bene, ma la fine dell'Occidente, del mondo come lo conosciamo da Cristoforo Colombo in poi.
C'è qui un'opportunità per gli eredi del movimento egualitario e libertario, c'è qui un'opportunità per i movimenti di autonomia della società?
C'è un'opportunità gigantesca, a mio parere, anche se ora è difficile da cogliere.
Il capitalismo non è una cosa, non è un ammasso di cose. Ce l'ha spiegato Marx. Marx ha detto: il capitale è un rapporto, non una cosa. Io, se me lo permettete, che pure sono piccolo piccolo, vorrei correggere, su questo punto, Marx. Il capitale non è una cosa, ma non è nemmeno un rapporto.Il capitalismo è l'introiezione di un rapporto. Solo quando gli uomini e le donne introiettano il rapporto tra lavoro e salario, tra valorizzazione e dominio, tra bisogno e merce, solo quando gli uomini e le donne credono che lo sfruttamento sia naturale, il capitalismo li può dominare.
Se gli umani capiscono che ci sono altri modi di organizzare la loro attività e il loro scambio, il loro rapporto con la natura e con le risorse, se capiscono che ci sono modi meno faticosi e meno violenti, allora forse vivere senza dominio capitalista diviene possibile.
Oggi noi attraversiamo una catastrofe. Catastrofe non è una brutta parola, una parola che porta disgrazia. E' un concetto dal senso preciso. In greco significa spostamento che permette di vedere una prospettiva che non si vedeva prima.
Kata significa giù, sotto, ma anche oltre, al di là. E strofein significa spostare.
La catastrofe finanziaria e geopolitica non è di per sé una liberazione. Al contrario, di per sé moltiplica il pericolo, di per sé aumenta la paura.
Ma se ci sono uomini e donne intelligenti, creativi, coraggiosi e soprattutto liberi dall'eredità del passato, come noi siamo o almeno dovremmo essere, allora vedi che si presenta una enorme (imprevedibile ed imprevista) opportunità. L'opportunità è quella di cavalcare la (inevitabile) disfatta dell'Occidente, che ormai è in corso, che ormai è inarrestabile, in un nuovo atteggiamento mentale, in una nuova concezione vissuta della ricchezza.
La ricchezza non è la massa di cose di cui disponiamo, la ricchezza è il modo in cui viviamo il tempo, è il rapporto di solidarietà che sappiamo avere tra noi. Come i gigli nei campi e come gli uccelli nel cielo anche noi umani possiamo vivere di poco, di molto poco. Dovremo imparare a vivere del poco indispensabile, perché altrimenti finiremo tutti malissimo. Non sarà facile impararlo e ancor più difficile sarà insegnarlo a tutti gli occidentali. Ma impareranno, con le buone o con le cattive.
Noi vediamo oggi, grazie alla catastrofe, che il capitalismo non è eterno e non è naturale, che l'economia della crescita non è la migliore organizzazione della vita sociale. Quel che dobbiamo fare è comunicarlo. Senza ansia, senza rabbia, senza arroganza.
Molte cose scompariranno nei prossimi mesi, molti moriranno di fame e molti di violenza e di guerra. E' bene saperlo, è bene prepararsi. E' bene preparare quelli che ci stanno intorno. Ma nulla di ciò che sta sulla terra è eterno, neppure le nostre vite, i nostri giornali, i nostri partiti. La sola cosa che non deve estinguersi è la capacità di capire. Comprendere, comprendere, e trasformare.
Liberazione, 8/10/08
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Commenti
Anonimo (non verificato)
Gio, 09/10/2008 - 21:43
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è tempo di strappare l erbe
roberto (non verificato)
Ven, 10/10/2008 - 18:29
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Una crisi che è nata dal
Anonimo (non verificato)
Mar, 14/10/2008 - 10:26
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Che crolli pure tutto. è
Mary (non verificato)
Mer, 15/10/2008 - 14:44
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Communist youth of USA
ponchòperù (non verificato)
Ven, 17/10/2008 - 07:19
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Muerte al capitalismo
Anonimo (non verificato)
Lun, 20/10/2008 - 17:10
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Roba da pazzi, a la gente
Anonimo (non verificato)
Lun, 20/10/2008 - 17:11
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Senza la vita non ci può
Anonimo (non verificato)
Lun, 20/10/2008 - 19:33
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L'importante è amoreggiare