Che economia è quella che si regge solo sul Pil e sulla crescita? di Carla Ravaioli
Dopo qualche decennio di aspre critiche (secondo ottiche diverse e per diversi fini sollevate dall'Onu, dal Wwf e da una serie di altri soggetti ambientalisti, dall' Ocse, dagli uffici studi dei governi di Usa e Australia, dai vignettisti del New Yorker, dal re del Bhutan) adesso il Pil ("Prodotto interno lordo", Gdp per il mondo), cioè il celebre misuratore della nostra ricchezza, approda al tribunale dell'Unione Europea.
"Beyond Gdp" ("Al di là del Pil") si intitola il convegno promosso dal Presidente della Commissione Manuel Barroso, che si svolgerà a Bruxelles domani e dopodomani, con la partecipazione del Commissario all'Economia Joaquin Almunia e della direttrice della Banca mondiale Kristalina Georgieva, oltre a rappresentanze di tutti i Paesi membri. Per la verità, a giudicare dalle anticipazioni, l'evento non pare annunciarsi carico di propositi rivoluzionari, come potrebbe, anzi dovrebbe. A parte l'impegno che prevede la sottrazione dei costi ambientali dal computo della crescita - cioè la semplice correzione di una incredibile mancanza - si parla soprattutto della necessità di integrare vari indicatori di benessere, quali l'aumento della speranza di vita, la possibile fruizione di servizi di volontariato, e simili. Nulla cioè che lasci intravedere la volontà di recare variazioni significative ai criteri preposti al calcolo del reddito collettivo; che appunto intenda andare "al di là del Pil". Ma non è detto. Non è impossibile che il dibattito fuoriesca dalla sua sede convenuta per allargarsi in modo da avere almeno una benefica ricaduta di informazione. Che non sarebbe affatto male.
Perché in realtà per le maggioranze resta ancora oggi un mistero che cosa davvero sia il Pil, questa sorta di talismano della felicità affannosamente inseguito e invocato da politici, economisti, operatori economici, ogni giorno trepidamente osservato nelle sue minime variazioni, prospettato non solo come indicatore della ricchezza prodotta da ogni paese, ma come misura del suo progresso e del suo benessere. Ben pochi sanno in che modo venga calcolato, di quali apporti finanziari sia composto, quali elementi della vita consideri e quali escluda. Se in occasione del programmato convegno tutto ciò diventasse sapere comune, forse - chissà - qualcosa cambierebbe nelle valutazioni e negli orientamenti politici diffusi, e magari anche nei comportamenti e nelle scelte quotidiane.
Innanzitutto sarebbe utile sapere che il Pil non rappresenta un computo fedele della realtà economica presa in esame, in quanto calcola soltanto i redditi che passano attraverso il mercato, che sono oggetto cioè di una transazione finanziaria, e ignora invece tutte le attività che non si convertono in moneta, ma che spesso sono parte integrante di una data realtà sociale, e della sua stessa condizione economica. A questo modo il Pil cancella tutte le economie di sussistenza, che ancora esistono in molte parti del Sud del mondo, in cui i prodotti vengono direttamente consumati. Esclude poi tutta quella vastissima attività famigliare e domestica, svolta senza compenso alcuno in massima parte dalle donne, che non produce direttamente reddito, ma produce i produttori di reddito, in quanto è presupposto indispensabile della continuità vitale della società e quindi dell'economia: un contributo alla creazione di ricchezza che l'Onu ha calcolato attorno al 35% del Pil mondiale.
Ma altri criteri del computo del Pil hanno addirittura dell'assurdo, o più ancora, dello scandaloso. Vengono infatti calcolati in positivo tutti i redditi derivanti da eventi catastrofici e luttuosi. Disastri ferroviari aerei navali, terremoti alluvioni tifoni frane, weekend particolarmente funestati da incidenti, e simili, che ovviamente richiedono attività straordinarie di medici, infermieri, ospedali, cliniche, pompe funebri, ecc. causando aumenti del reddito in proporzione diretta alla loro gravità, vengono inclusi positivamente nel Pil. Mentre non vengono affatto considerati e calcolati in negativo, non si dice le perdite umane, le sofferenze fisiche, il dolore - cose difficilmente quantificabili - ma le distruzioni materiali, i danni agli edifici, all'agricoltura, le interruzioni di attività, ecc. imputabili ai medesimi fatti.
Allo stesso modo viene inserito nel computo con il segno + il valore di ogni intervento di disinquinamento di mari, fiumi, dell'atmosfera, ecc. ma non viene assolutamente calcolato il danno recato dall'inquinamento. Così pure tutta l'enorme e sempre crescente produzione di merci, che ovviamente occupa gran parte della certificazione del prodotto, non appare affatto quale pesante causa d'inquinamento. "Produrre inquina", come dice il Premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, ma questa verità non sembra proprio riguardare i contabili del Pil. «Se nel calcolo del Pil si includessero i valori negativi derivanti le tante forme di inquinamento, certamente nella maggior parte dei paesi occidentali si avrebbero saldi negativi», mi disse nel ‘91 Herman Daly, ambientalista di fama mondiale. Da allora le fonti di inquinamento si sono moltiplicate, ed enormemente aumentato è lo squilibrio dell'ecosfera che ne deriva, ma il Pil continua a ignorare la cosa, e a dare per ricchezza e benessere dei popoli l'aumento di cifre su questa ignoranza calcolate.
Tra le merci di cui non si considerano le conseguenze dannose, ma solo il positivo contributo al prodotto, vanno incluse anche le armi. Le quali figurano nel Pil mondiale per una quota calcolata sul 3,4%, da tutti ritenuta peraltro assai inferiore alla realtà, in quanto non ne considera l'enorme produzione clandestina, destinata a un vastissimo contrabbando. La guerra rappresenta dunque un cospicuo contributo all'ammontare del Pil, il quale aumenta ancora considerevolmente se si calcola la produzione di tutto quanto (approvvigionamenti, vettovagliamenti, alloggi, trasporti, supporto burocratico, ecc. ecc.) attiene al buon funzionamento di un moderno esercito. Senza dire di quella che cinicamente viene definita "la torta del dopoguerra", cioè la ricostruzione. Che entra ovviamente col segno + nei conti del Pil, mentre in nessun modo vi appaiono gli enormi danni della guerra, materiali, sociali, umani.
Che la guerra sia uno degli strumenti normalmente usati per il rilancio di economie in crisi non è una novità: celebri economisti, da Galbraith a Keynes, lo hanno ampiamente dimostrato. Che proprio in questa logica la guerra appartenga oggi alla "normale" politica americana, oltre ad esserne asse portante sul piano geostrategico, anche questo è noto, e anche più o meno supinamente accettato dal mondo. Proprio per questo forse non sarebbe male se, con l'occasione del prossimo convegno, si invitasse la gente a riflettere sul vero significato di una contabilità del prodotto che normalmente include la guerra tra i suoi imprescindibili addendi, nel momento stesso in cui ci viene proposta non solo come l'obiettivo indiscutibile del nostro agire economico, ma come misura di tutto il positivo, individualmente e socialmente desiderabile.
Forse potrebbe essere occasione, per "il popolo di sinistra", di interrogarsi anche sulla reale qualità di un'economia come quella attuale, che si regge sull'obbligo della crescita, non importa quale. Magari rileggendo un passo del Rapporto Onu sullo Sviluppo Umano del '96, il quale così recita: «Crescita di che cosa, e per chi? Crescita di inquinamento che richieda altri dispositivi antinquinamento? Crescita di criminalità che impieghi nuove schiere di poliziotti? Crescita di incidenti d'auto che comporti tante riparazioni? Crescita di reddito solo per i più ricchi? Crescita di armamenti militari? Tutto questo è parte della crescita del Pil».
Potrebbe essere il modo migliore di utilizzare il programmato convegno per ragionare a fondo sul tema, davvero spingendo lo sguardo "al di là del Pil".
Liberazione, 18/11/2007
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