Percorso 6
L'agricoltura può avere un ruolo fondamentale nella lotta al riscaldamento globale E i piccoli agricoltori propongono un modello "organico" che aiuta economia e clima.
I contadini raffreddaranno il mondo. Una Via Campesina per l'ambiente
di Sabina Moranti
Ci avevano avvisato. Dieci anni fa, quando i rappresentanti delle associazioni dei piccoli agricoltori di tutto il mondo vennero a Roma per il Summit sull'alimentazione, espressero i loro dubbi sulla possibilità di debellare la fame con l'attuale modello agricolo. Continuando a premiare l'agricoltura intensiva e la deregulation - dissero - si rischia di mettere in moto pericolose dinamiche speculative senza ridurre affatto la fame nel mondo. A distanza di dieci anni le previsioni si sono rivelate corrette: non solo gli affamati non sono diminuiti ma la speculazione sulle derrate alimentari, ulteriormente incrementata dal boom dei sussidi agli agrocombustibili, sta portando a un'impennata dei prezzi senza precedenti che rischia di far tornare la fame anche dov'era stata debellata. I piccoli agricoltori del Nord e del Sud del mondo, già colpiti - soprattutto questi ultimi - dagli effetti del riscaldamento globale, rischiano di venire spazzati via dalle piantagioni energetiche dell'industria agrochimica che, mentre promette di risolvere il problema del cambiamento climatico, fa fuori le ultime foreste.Eppure l'agricoltura potrebbe avere un ruolo fondamentale nella lotta al riscaldamento globale, ma non "per coltivare" la benzina. L'ha riconosciuto in settimana perfino l'Ifad, il Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Agricolo che ha aperto uno spazio di consultazione con le organizzazioni contadine in occasione della 31ma sessione del Consiglio dei Governatori. Il presidente Lennart Båge ha chiesto alla comunità internazionale di aumentare gli investimenti nel settore della piccola agricoltura sostenibile sia per sconfiggere la povertà che per combattere i cambiamenti climatici. Dalle sue parole però non è chiaro se i piccoli agricoltori vanno aiutati o se possono rivestire un ruolo centrale nella lotta al riscaldamento globale come immagina Via Campesina, il movimento internazionale che riunisce più di cento organizzazioni e sindacati agricoli di tutto il mondo.«La sfida del post-Kyoto» sostiene Antonio Onorati di Crocevia «è cambiare gli attori sociali perché, come si è visto, così non si va da nessuna parte. Riconvertire il mondo industriale per abbattere le emissioni inquinanti è costosissimo e richiede dai 10 ai 15 anni. Per passare all'agricoltura organica invece, che secondo la Fao ha un impatto minore sul clima e maggiori garanzie in termini di produttività sul lungo periodo, servono soltanto 9 mesi. Non più di 5 anni se i terreni sono stremati dallo sfruttamento intensivo». Si tratta insomma di abbracciare il modello sostenuto e difeso dalle organizzazioni contadine, un modello basato sulle coltivazioni organiche e sulla filiera corta - per abbattere le emissioni relative al trasporto delle derrate ed eliminare i passaggi che rendono i prodotti più costosi, sganciando la produzione alimentare dai mercati speculativi. Un cambio di rotta necessario e urgente, prima che la combinazione fra riduzione dei terreni coltivabili (a causa del riscaldamento globale), deregulation e agrocombustibili, provochi una crisi senza precedenti.Già, gli agrocombustibili. Paul Nicholson, della Union de Gnanaderos y Agricoltores Vascos (l'unione dei piccoli produttori baschi associata a Via Campesina), è molto chiaro a riguardo: «Prima ancora di diffondersi gli agrocombustibili stanno già rovinando le produzioni locali. Basti vedere cosa succede in Messico con il prezzo del mais, alimento base in America Latina, che è cresciuto del 40 per cento in pochi mesi. Il riso, che è la base alimentare dell'Asia e quindi di metà della popolazione mondiale, è aumentato del 60 per cento quando sono cominciate le requisizioni delle terre per fare posto alle coltivazioni energetiche. Ma l'aumento dei prezzi, che uccide i consumatori poveri, non migliora affatto la vita dei produttori». Il perché è presto detto: sono i traders, i commercianti, i grossisti della distribuzione e gli altri intermediari a intascare i profitti mentre contadini e consumatori pagano per tutti quanti. Inutile pensare di risolvere il problema del riscaldamento globale cercando di produrre energie apparentemente più pulite di quelle fossili - ma i ricercatori scientifici cominciano ad avere forti dubbi a riguardo - mentre si continua a perseguire un modello basato sull'export e sulla filiera lunga, lo stesso modello che costringe a folli consumi di combustibile per portare nei nostri supermercati gli ortaggi cinesi mentre le piccole aziende agricole europee falliscono una dopo l'altra. Ai problemi mai risolti di questo modello sostanzialmente coloniale (le monoculture del Sud destinate alle tavole del Nord) si sono aggiunti gli effetti imprevisti delle liberalizzazioni e oggi siamo al punto, conclude Nicholson, in cui «i paesi non hanno più l'autosufficienza alimentare ma i prezzi sono così alti che non hanno più i soldi per importare». Va chiarito che il vero conflitto non è fra i contadini del Nord e del Sud del mondo ma «fra diversi modelli: quello industriale basato sui sussidi, sulla filiera lunga e sull'agrobusiness, ad altissimo impatto sul clima, e quello familiare. Noi piccoli agricoltori abbiamo le risorse per nutrire il pianeta e per raffreddarlo, ma dobbiamo cambiare paradigma». Invece di tenere separato il problema ambientale da quello dell'aumento dei prezzi, il movimento contadino insiste nell'affermare che sono due facce della stessa medaglia. Ibrahima Coulibaly, presidente della Coordinacion Nationale des Organisations du Mali (il coordinamento delle organizzazioni del Mali anch'esso parte di Via Campesina) insiste proprio su questo punto: «l'unica cosa che sanno fare i nostri governi per rispondere alla crisi dei prezzi è aiutare la domanda, cioè le importazioni, invece di sostenere la produzione nazionale e proteggere i mercati locali. In Mali sappiamo bene cosa sono i cambiamenti climatici: da almeno dieci anni è sparita la stagione fredda e spesso le alluvioni si alternano alla siccità in modo innaturale. Il problema è che anche negli anni buoni, quelli in cui grazie alle piogge abbiamo enormi eccedenze, non sappiamo a chi rivenderle perché siamo tagliati fuori dai mercati, anche da quelli locali». Coulibaly non chiede affatto aiuti straordinari - che anzi sono considerati dal movimento contadino un modo per tenere l'Africa incatenata all'antica dipendenza coloniale - ma il ripristino dei vecchi strumenti tradizionali come gli stock nazionali, per affrontare le emergenze e stabilizzare i prezzi arginando le manovre speculative.
Insomma, per raffreddare il pianeta e tenere sotto controllo i prezzi è necessario riportare in auge i vecchi strumenti della politica agraria, il governo dell'offerta, la trasparenza della catena alimentare e le coltivazioni organiche, le uniche che hanno provato di essere davvero sostenibili alla prova dell'esame scientifico. Quanto agli agrocombustibili, il segretario generale di Via Campesina, Henry Saragih, chiede una moratoria immediata ricordando che il suo paese, l'Indonesia, è uno dei più colpiti dalla «riduzione delle produzioni di soia e di riso a favore dell'olio di palma» usato come combustibile. Saragih non dimentica che «la stessa cosa sta succedendo in Brasile, in Thailandia e in Africa, dove si sta consumando un attacco senza precedenti alle foreste primarie. Nel mio paese sono state destinate alle coltivazioni energetiche superfici che equivalgono a sei volte l'estensione del Lazio, eppure la vita dei contadini che lavorano nelle piantagioni non è migliorata affatto». Saragih è convinto che l'unica via d'uscita sia l'alleanza fra produttori, consumatori e ambientalisti - non a caso la Via Campesina collabora con l'organizzazione ambientalista Friend of the Earth - visto che condividono gli stessi obiettivi: meno intermediari per non far lievitare i prezzi, più garanzie di qualità per non avvelenare i consumatori e sostenibilità ambientale mediante la protezione della biodiverstità, il minore impiego di sostanze chimiche e la riduzione delle emissioni inquinanti. Qualcosa che il modello di agricoltura intensiva incentrato sull'export ha ampiamente dimostrato di non essere in grado di fare.
Liberazione, 17/02/2008
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