Tre interventi di Rossana Rossanda

Scorciatoie zero

Rossana Rossanda

Diversamente da Valentino Parlato, credo che giustamente Bertinotti veda il pericolo: il sistema politico-mediatico mira a spingere nell'angolo quel che resta di rappresentanza della domanda sociale, e possibilmente a toglierselo di torno. Vediamo l'ultima: Rc e Pdci o incassano una riforma pensionistica men che moderata, pagando un alto prezzo fra i lavoratori, che sono la loro base, oppure la respingono facendo cadere il governo e spostando l'equilibrio istituzionale a destra - cosa che gli verrebbe rinfacciata più ancora della rottura del 1998. Non c'è oggi una alternativa a sinistra: sono possibili soltanto una riedizione del centrodestra, assai probabile se si andasse alle elezioni, o un governo centrista se la maggioranza riuscisse a scaricare Rifondazione, Pdci e Verdi attraverso un allargamento all'Udc e la conquista di un numero sufficiente di deputati e senatori sciolti. Che quest'ultimo sia l'obiettivo finale della Margherita e di gran parte del Pd è dichiarato, ma i numeri non ci sono ancora. Resta in campo anche il pasticcio di un governo tecnico bipartisan, che sembra evocare ogni tanto il Presidente della Repubblica, ma questo scaricherebbe anche Romano Prodi, che non è disposto a tutto, e sarebbe il preludio a un nuovo centrodestra. 

Parlato ha ragione di scrivere che bisogna indicare il «che fare», ma intanto vediamolo per quel che è: non solo un incidente di percorso e non solo in Italia. Lo stesso e peggio succede in Francia, dove la destra di Nicolas Sarkozy non solo ha vinto, ma si sta mangiando pezzo per pezzo l'opposizione socialista, mentre quella più a sinistra è già ridotta ai minimi termini. E da un pezzo è successo in Germania dove la Linke si è faticosamente costituita ma resta istituzionalmente fuori gioco, la Spd essendo disposta a trattare fin con la destrissima Csu ma non con la propria costola di sinistra. In Spagna la stessa esistenza di una sinistra radicale è in causa. Se si aggiunge che da noi la Sd di Mussi, appena separata dai Ds, si riaccosta al governo proprio sul tema bruciante delle pensioni, lo stato della sinistra legata alla dimensione sociale - la sola che abbia un senso chiamare tale - appare davvero critico.

Che fare, dunque? E' qui che la risposta di Bertinotti, ma anche, se non sbaglio, quella più recente di Diliberto, non mi persuade. Il presidente della Camera scrive su Alternative che sarebbe maturo un soggetto politico unitario, aggregando Rc, Pdci, Verdi e il femminismo, i movimenti, le molteplici associazioni di base. Ma su che cosa e per quale obiettivo? Oggi come oggi il loro massimo comun denominatore sarebbe in verità minimo, una certa insopportazione dello stato delle cose presenti, cioè non molto di più di quello che legò in una coalizione elettorale queste diverse figure con altre, assai meno radicali, contro il governo Berlusconi. Né mi sembra molto più incisiva la posizione di quanti in Rc preferiscono andare a una confederazione tra diversi per difendere ciascuno la propria identità. Quelle identità appaiono, ora come ora, così deboli di fronte all'affermazione mondiale del capitale e del mercato che mantenere un antagonismo è moralmente lodevole ma politicamente di scarso impatto.

Ma mentre ha ragione Revelli quando accusa i partiti di sordità nei confronti della pluralità delle idee e «sensibilità» espresse dalla società, non è che dall'addizione di molte pluralità esca un progetto. Non è per caso né per puro conservatorismo burocratico che la sinistra della sinistra è divisa. Stenta a trovarsi un'idea capace di dare e darsi ragione delle altre e di dialogare con esse.

Siamo di fronte a un processo mondiale di mercificazione, organico, articolato e in via di accelerazione. Non sembra ragionevole puntare su una sua messa in crisi per interne contraddizioni: è un pezzo che ogni ipotesi di catastrofisno si è rivelata illusoria. Né ha senso dirsi che la sua mortale contraddizione già sta nel fallimento della speranza di benessere per tutti che il capitalismo prometteva, perché il capitalismo non ha mai promesso nulla di simile. S'è limitato a dire che le leggi del mercato sono ineludibili, è necessario adeguarvisi e molti possono trovarvi il loro profitto. Un'egemonia nel senso gramsciano non è nelle sue necessità, come la felicità, la libertà e l'uguaglianza non sono suo fine. Un interessante saggio di Paul Krugman su Milton Friedman - quello dei Chicago boys che fecero strage in America Latina negli anni '70 e '80 - ricostruisce bene la posta in gioco in quegli anni (cfr. La Rivista dei Libri, Firenze, n. 7-8 del 2007, da The New York Review of Books). Vale più chiedersi perché il diritto all'uguaglianza nella libertà non sono più senso e bisogno comune, mentre la fatalità del mercato lo è diventato.

Già su questo daremmo risposte diverse fra Rc, Pdci e, per esempio, il manifesto. Noi pensiamo che il fallimento del cosiddetto socialismo reale, che è apparso per quasi un secolo l'alternativa fatta realtà, sia stato prodotto da una serie di scelte, comprensibili ma sbagliate e certo non obbligate, la cui data di inizio e sequenza sono riconoscibili, e che contraddicevano lo stesso progetto di emancipazione sociale, e hanno a che vedere più con la concezione della politica e del potere che con il tradimento dei capi o il complotto internazionale. Ma questa non è la risposta finora avanzata né da Rc né dal Pdci. Quanto a quel che scriveva a Valentino il lettore Ibba (domenica 22 luglio), e cioè che l'errore stava in Marx, è soltanto la vulgata liberista più diffusa e già in via di declino, quella secondo la quale non conterebbero niente le condizioni materiali della libertà.
D'altra parte questa considerazione non concerne il femminismo, che non senza ragione sposta fuori del tempo storico e della modernità il conflitto fra i sessi. Nel quale succede che l'emancipazione proceda contemporaneamente alla mercificazione, peraltro non specificamente capitalistica, lasciando aperta la questione della libertà femminile - sulla quale i femminismi danno interpretazioni differenti. Né la considerazione di cui sopra è presa in conto dal pensiero ecologico, fatti salvi O'Connor e pochi altri; esso, differentemente dal femminismo, ha una precisa storicità, ma non la collega a un modo di produzione.

Da queste diverse realtà e visioni del paesaggio politico derivano priorità diverse sul che essere e che fare, dalle quali si possono trarre un patto d'unità d'azione ma difficilmente un soggetto politico unitario - per innovativa che sia la sua maniera di essere o decidere rispetto ai partiti del secolo scorso. Occorre prima un lavoro di confronto e la definizione di azione comune su alcuni obiettivi, che non pretenda una repentina unità di culture - e già questo implica una qualche omogeneizzazione delle priorità oltre che un metodo collettivo e articolato di decisione.

E poi non c'è da illudersi che una federazione di diversi nell'ambito nazionale riesca ad avere non dico ragione ma una forza di contrattazione efficace rispetto a un sistema di dominio del tutto mondializzato. Questa soggettività dovrebbe essere almeno continentale, per far fronte a quella fetta di mondializzazione che rappresentano i poteri sovranazionali dell'Europa. Neanche la sinistra europea, che io sappia, riesce a coordinare proposte comuni neppure sul fronte dove più decisa e omogenea è l'offensiva della controparte. In nome della mano invisibile del mercato, l'Europa si è preclusa qualsiasi piano economico, non interviene sul costo della vita e quindi sul salario né sul precariato o le pensioni, dove vigono soltanto ma inesorabili le regole della Banca centrale, cioè competitività e monetarismo. Con conseguente deregulation, cioè attiva dissoluzione da parte degli stati nazionali di ogni regolamentazione o compromesso fra "compatibilità economiche" e diritti delle persone. Come faccia un sindacato a difendere uomini e donne necessariamente radicati in un paese da un'impresa mobile e autorizzata ad andarsene anche fuori continente quando gli pare è un mistero. E non parliamo dei famosi valori per i quali l'Europa sarebbe nata - altro che la Turchia, in Polonia il cattolicesimo più integralista può tutto, il diritto di aborto non esiste, ed è tanto se la Corte suprema ha messo in causa una legge offensiva dei diritti civili, varata dall'attuale maggioranza, che non ha rinunciato a reintrodurre la pena di morte.

Questa elaborazione, contemporanea alle iniziative che incalzano, è complessa quanto in ritardo. Anche per le pensioni, mi permetto di osservare, né da sinistra del Pd né dalla Cgil è venuta una riflessione innovatrice sull'intero sistema che, che prendendo atto delle modifiche apportate e che apporterà a breve la tecnologia nella formazione della forza di lavoro, della composizione per età della popolazione, del flusso immigratorio, di una mondializzazione dagli squilibri crescenti fra zona e zona del pianeta, avanzasse una proposta innovativa e a maggiore, non minore, difesa dei lavoratori e degli anziani. E' stata condotta una battaglia di difesa della situazione esistente e poco più (sulle pensioni minimissime, sui lavori usuranti e per le donne), e sarà rinnovata e rafforzata, si spera, in parlamento, quando i risultati sulla previdenza saranno commisurati su tutto il problema lavoro - del quale il percariato è il dossier più bruciante - e dovrebbero essere infine sottoposti a referendum.
Sta di fatto che, ora come ora, l'intera operazione è fatta a costo zero per l'insieme della società, come se il «lavoro», sempre più complesso, materiale e immateriale, fosse una corporazione fra le molte, non il settore innervante dell'intera struttura sociale. Nel crescere della produttività e dei profitti d'impresa su scala mondiale, nella prevedibile accelerazione delle tecnologie, vecchia e nuova sinistra si contentano di poco - quando non dichiarano una curiosa convergenza di fatto tra il Partito democratico nascente e certi settori dell'ex nuova sinistra: la questione sarebbe invecchiata o una rivoluzione di fatto sarebbe stata già raggiunta nelle nuove figure sociali, meno classe e più moltitudine, che in occidente avrebbero acquistato più potere e, si suppone, maggiore partecipazione ai profitti. Il problema è posto, ma le risposte sono per ora povere, enfatiche o difensive, quando non rassegnate a una interpretazione del cambiamento e della «modernizzazione» della quale l'araldo più coerente è senz'altro Walter Veltroni. Il suo programma esclude il conflitto come riprovevole, delegittimando ogni rappresentazione della classe non proprietaria - che chiamerei ancora proletariato, vecchio o nuovo che sia - come di ogni altro soggetto che punta a trasformare idee e «valori» che sono stati portanti per secoli.

Si potrebbe sorridere osservando come la fine della storia, che ha avuto sempre e solo il senso di fine del conflitto sociale, venga affermata proprio mentre la storia subisce un'accelerazione finora sconosciuta. Ma di questo un'altra volta.

Il manifesto, 25/7/07

Insisto

Rossana Rossanda

 Opinioni diverse e perlopiù polemiche con quanto ho scritto sull'unificazione delle sinistre a sinistra del nascente Partito democratico. Allora, prima di tutto precisiamo: le «Note da lontano» sono mie, non esprimono tutto il manifesto. In secondo luogo, non equivochiamo: sono convinta anch'io che occorrerebbe una forza vera a sinistra del Partito Democratico. La storia non è finita anzi, differentemente da quel che pensa più di un interlocutore, si è fatta più visibile e crudele nel mondo globalizzato la contraddizione fra le multinazionali e l'enorne maggioranza di popolazioni che non possiedono che la propria forza di lavoro fisica e intellettuale, e fra una sola (per ora) grande potenza superarmata e stati deboli o subalterni. E' uno scontro più complicato di quello della guerra fredda, che spesso incancrenisce in guerre locali, etniche e religiose, delle quali sono state le manovre delle potenze dominanti a creare le condizioni. Vedi l'aggressione americano-inglese all'Iraq.
Ma non è vero che, come dicevamo un tempo, dove c'è oppressione c'è ribellione. Non è automatico. Da allora è crollata l'Unione Sovietica che, quale che in realtà fosse, simbolizzava una società antagonista a quella degli Usa e del capitale. E' stato battuto un grande ciclo di lotte in occidente e in alcuni paesi terzi. Ma dove il costituirsi di spinte antagoniste non la spunta, il padronato è spinto alla riorganizzazione delle sue forze (che chiama modernizzazione) e nel proletariato - cioè coloro che non hanno mezzi di produzione - prevalgono disorientamento e stanchezza. E' quel che è successo in Europa, dove i partiti storici della sinistra sono scomparsi, e non è di molto conforto dirsi che erano moderati già da un pezzo. E quella grande massa d'opinione, non iscritta e non militante, che però li circondava si scoraggia e rifluisce. Tanto più che il capitale non domina soltanto con la repressione ma con l'ideologia del «c'è posto per tutti quelli che competono» e quella dei consumi, che il sistema mediatico enfatizza come «bisogni» in tutto il mondo.
Gran parte della «crisi della politica» viene non soltanto dalla burocratizzazione e dall'autoreferenzialità del ceto politico (da quando ho memoria, i momenti di vero incontro fra popolo e sistema rappresentativo sono assai più rari di quel che crediamo di ricordare), ma dal frammentarsi della società in interessi che si raggruppano e si dissolvono con un'accelerazione prima sconosciuta e stentano a trovare una causa comune, quando non la rifiutano. La sfera politica li riflette e ne è riflessa. Per questo la ricostruzione d'un modo di lavorare e delle priorità comuni non è semplice. Non erano capricci le divisioni fra Rc e Pdci, o quelle al loro interno come i verdi o il femminismo. Erano in ballo giudizi diversi su quel che accadeva e diverse previsioni di quel che sarebbe accaduto. Per non andare a tempi molto remoti, il tentativo di Asor Rosa e alcuni de il manifesto di mettere assieme una camera di consultazione - molto meno di un soggetto politico unitario - è durato ben poco: è bastato cercar di individuare alcune priorità di programma e qualche criterio di formazione delle liste perché si rompesse. Ogni sigla preferì orientarsi per conto suo e perfino alcune parti della «società civile» si divisero. Risultato, la coalizione s'è fatta «contro Berlusconi» e il suo programma è una somma di proposte di ambigua interpretazione - vedi Afghanistan, scalone sulle pensioni o legge Biagi.

Ma è stupido dirsi che è tutta una storia di egoismi e tradimenti. Dopo una botta come quella di fine secolo, ritrovare una visione comune fra riformisti e sinistra/sinistra, e nella stessa sinistra, non era semplice. Non lo è neanche ora: pensiamo alla diversa posizione sulle pensioni fra la Sd di Mussi e Rc, Pdci, Verdi. In ballo non sono «poltrone» ma il giudizio sul sindacato. Mussi ha deciso di attenersi alla Cgil, che ora oscilla fra un'approvazione in linea di massima su un brutto accordo e una mobilitazione per cambiarlo dopo le ferie. Ma delle pensioni si parla da più d'un anno, perché non si è fatta una mobilitazione prima? Perché si è arrivati, su un tema così delicato e complicato, senza una consultazione fra i lavoratori e senza una informazione corretta all'opinione pubblica? Se la Cgil non dovrebbe appiattirsi su un governo «amico», perché una parte della sinistra/sinistra dovrebbe appiattirsi sulle incertezze della Cgil invece che sostenerne le domande più forti? A ognuno la sua parte.

Di qui semplicemente la mia modestissima raccomandazione di confrontarsi e stabilire delle priorità condivise prima di andare a unità formali. Sbaglio? Tanto meglio. Ma abbiamo tutti esperienza di troppe unità finite in niente. E la speranza che da cosa nasca cosa, che intanto ci si mette assieme e poi si vede, mi sembra avventurosa. Qualche lettore mi rimprovera di essere complicata - ma la situazione è complicata. Non è vero che ci sono poche e chiare discriminanti. Perfino sulla tenuta del governo la discussione è difficile. La situazione non è la stessa di prima delle elezioni. La voglia di mettere fuori Rc e Pdci dalla maggioranza è forte e non nascosta da parte di Dini e Rutelli; solo che è perseguita a medio termine perché oggi le condizioni non ci sono, senza di essi il governo cadrebbe. Dalla parte opposta c'è chi obietta: vale la pena di restare in una maggioranza che ci sottopone, spalle al muro, al rischio di perdere la fiducia della nostra base, come già dicono i sondaggi? Si voti contro il governo e perisca Sansone e tutti i filistei. Ma nessuno garantisce che se si andasse domani alle elezioni non vinca di nuovo la Casa della Libertà. Anzi. E soprattutto nulla garantisce che fuori dalla maggioranza la sinistra si rafforzi. Dopo il 1998 è passata all'opposizione del governo di centrosinistra e non si è rafforzata affatto.
La verita è che se l'alternativa è fra stare nel governo, sperando in una buona mediazione, o uscirne, è come stare fra l'incudine e il martello. Chi ha impedito a Rc e al Pdci o ai Verdi di mobilitare la loro gente nel corso delle trattative nella maggioranza? Mobilitare non significa riempire le piazze ogni due mesi, ma consultare, far parlare e agire nella società la propria base e esperti e lavoratori non organizzati, ma non per questo indifferenti o conformisti, prima e mentre ci si misura nelle commissioni parlamentari. Suggerirei sommessamente ai nostri eletti di informarsi su che cosa sanno e pensano delle pensioni e del cosiddetto pacchetto «welfare». Forse in passato il Pci, e per un certo tempo il Psi, avevano considerato il parlamento più come una tribuna dalla quale parlare al paese che come una sede di proposte legislative, ma adesso le sinistre radicali non hanno il difetto opposto?

L' ormai famosa crisi della democrazia rappresentativa viene anche dal fatto che i partiti si muovono solo nelle sedi istituzionali. Ma questo non è obbligatorio, anzi è contrario alla loro funzione costituzionale di essere nei canali di aggregazione fra popolo e istituzioni. È il solo, ma non trascurabile vantaggio di «essere in democrazia». Perché lo si scopre soltanto quando si tratta di nominare in qualche «primaria» un leader? Anche le nostre modeste primarie fanno strillare chi crede che la rappresentanza significa votare una volta ogni cinque anni e poi chiudere il becco. Si leggessero, come dicono a Roma, anche e soltanto la nostra modesta Costituzione. Fra istituzioni e aggregarsi della società non c'è né identificazione né inimicizia. C'è, uso sottovoce una parola abusta, dialettica. E una forza popolare, una forza dei lavoratori classici e di nuovo tipo deve essere permanentemente in consultazione e confronto, tanto più dove le leve del potere, quelle dell'informazione, sono detenute dalla classe dominante.

Lidia Campagnano ha scritto su queste colonne che gli eletti devono prendere l'iniziativa. E perché non gli elettori, i cittadini, organizzandosi in «gruppi di pressione»? Chi glielo impedisce? E come si fa ad attendersi da un partito che si giudica sclerotizzato di attivare una circolazione sanguigna che urterebbe contro i suoi vizi più cari? Andiamo. Anche la cosiddetta «base» deve smettere di volere la frittata senza rompere le uova. Di delegare sempre i gruppi dirigenti, qualunque cosa propongano, salvo borbottare o ritirarsi a casa. Siamo tutti adulti e vaccinati da intervenire forzando i canali e squilibrando i metodi. Certo che è faticoso. Faticoso sì, impossibile no.
Mi rincresce molto che tre senatrici di Rc, amiche e compagne, si siano risentite (rubrica lettere del 27 luglio) perché ho scritto che manca tuttora un giudizio sul socialismo reale da parte delle sinistre, incusa Rc. So che Rifondazione ha condannato lo stalinismo e nella scelta della non violenza ha rifiutato il concetto di rivoluzione come colpo militare o comunque di un'avanguardia che abbatte un governo o una forma di stato. E immagino che non sia stato senza fatica e combattimento.
Ma è una scelta politica, non è un giudizio storico su quel che è avvenuto dal 1917 al 1989 e tuttora sussisterebbe a Cuba e molti, anche in Rc, sostengono ancora. Né il rifiuto né il consenso a questi sistemi risponde alla domanda: perché è andata così? Sbagliava Marx nel vedere nel sistema capitalistico di produzione una illibertà radicale? Oppure aveva ragione di sostenerlo allora, ma la sua analisi non vale più per l'oggi? La mondializzazione la conferma o la smentisce? E se l'analisi di Marx almeno «allora» era corretta, perché è fallito il tentativo di realizzare una società non capitalistica? Dov'è cominciato l'errore? Nel 1917? Nella divisione fra Lenin e i socialisti rivoluzionari? Oppure nel dissolvere i Soviet? O sbagliò soltanto Stalin? Sarebbe stato meglio se non si fosse tentato il 1917, se si fosse opposta allo zarismo una resistenza passiva, attendendo che la guerra finisse un anno o due dopo, e lasciando alla modernità di aver lentamente ragione dell'autocrazia? C'è chi lo pensa. E non è l'ultima ragione della divisione nelle sinistre. Perché ne derivano conseguenze differenti anche per l'oggi. Non nel senso che una rivoluzione sia o no all'ordine del giorno, e quale, ma se la fine del capitalismo resta o no nell'orizzonte. Di fatto sento dire, sia da destra sia da sinistra, che uscirne è illusorio ed è nel suo ambito che si tratta di muoversi, o che la rivoluzione è già avvenuta anche se i più non se ne sono accorti. Parliamone.

il manifesto, 1/8/07

Note al Presidente

Rossana Rossanda

Signor Presidente del consiglio, ha ragione di preoccuparsi. Ho letto con attenzione quel che Lei ha risposto attraverso Liberazione e il manifesto alle sinistre che, ne conveniamo, meglio sarebbe chiamare popolari che radicali (ricordando, a scanso di equivoci, che si chiamano abusivamente «popolari» i partiti di destra detti una volta, e non per elogiarli, «moderati»). Ma lasciamo la filologia. Lei sa come noi dai sondaggi e dagli analisti che delusione e scontento corrono nella parte socialmente più debole del paese - quelli che cercano di vivere del proprio lavoro, quelli che devono vivere solo della pensione, quelli che in varia misura sono impoveriti o marginalizzati - e che tutti hanno votato per il Suo governo sperandone una sorte migliore. Questo «popolo» è poi quello che ha difeso il paese, varato la Repubblica e con i suoi figli ha costruito l'Italia dal dopoguerra a oggi.

Ora è un errore quando Lei scrive: tutti sanno che la priorità è il risanamento dei conti pubblici. No, non lo sappiamo tutti. Quel popolo non lo sa. Io non lo so. So che per chi da qualche tempo in qua non riesce più ad arrivare alla quarta settimana del mese, per i salari oggi assai più bassi di quelli dei tedeschi o dei francesi, per gli otto milioni di pensionati che non percepiscono 750 euro, l'80% dei quali non raggiunge i 500 euro, il primo obiettivo è riuscire a vivere. So che per i precari, che non sono affatto soltanto giovani, il primo obiettivo è che gli vanga rinnovato il contratto a termine, e anche questi sono milioni, non so se tre o quattro. Il paese può chiedere anche a loro dei sacrifici, non sono dei dementi e vi sono fin troppo abituati. Ma un governo con le sinistre lo può fare soltanto se ha messo in atto una inversione nella redistribuzione dei redditi, che dalla fine degli anni '70 in poi si sono divaricati in modo gigantesco. Lei lo sa. È diminuita la ricchezza pubblica, è cresciuta in modo esponenziale quella privata, ma non per tutti, per una classe medio alta che sbandiera consumi di spreco, mentre si sono impoveriti i ceti bassi e medio bassi.
Il governo Berlusconi ha svergognatamente favorito questa tendenza. Per questo è stato battuto. Ma il suo governo non ha invertito la rotta. Forse che i meno abbienti non lo vedono? A chi gli dice «prima mettiamo a posto i conti pubblici», obiettano: «Sì, ma perché cominciate da noi?».

Hanno ragione. Sono le sole categorie sociali investite come tali. Delle altre si persegue, se si becca, solo chi evade le tasse, reato neppur prevedibile per chi ha un reddito fisso. Anche questo Lei sa come me. Ma la sua filosofia è che il governo deve favorire chi più ha perché finalmente si risolva a investire nel nostro asfittico capitale produttivo italiano (a dire il vero, con la legge sul Tfr il suo governo obbliga a investire soltanto chi non ha). Non le attribuisco alcuna intenzione di dissanguare i poveri.

Ma la persuasione, propria della Banca Centrale Europea e della Commissione che Lei ha a lungo diretto, che solo iniettando sangue, cioè soldi, nelle imprese e garantendo minuziosamente il libero gioco del mercato si avrà una crescita economica, della quale, poco a poco, profitteranno tutti, i più disagiati inclusi.

Non sarebbe il caso di riflettere sui risultati di questa scelta, che ormai ha almeno quindici anni? Facciamo un bilancio. Una vera crescita non c'è stata. L'Europa galleggia appena attorno al 2,5 per cento, e l'Italia è quella più in basso fra i paesi industrializzati. In Francia e Olanda il progetto di trattato costituzionale, sottoposto a referendum, è stato bocciato e sarebbe successo anche in Italia, se non fosse passato silenziosamente al Parlamento. Dove si vorrebbe mandare quel che ne resterà. Le previsioni Sue, di Barroso e di Almunia non si sono realizzate. Non sarebbe il caso di trarne qualche conclusione? E di capire che c'è da diffidare della politica non economica ma monetaria che avete fatto, imponendo tagli pesanti su occupazione, previdenza, sanità e istruzione, mentre i detentori di capitali non investono in produzione ma nella speculazione, immobiliare e no? Questo è il trend. Non lo dico io, lo dicono gli Stiglitz e i Fitoussi, che non definirei massimalisti. Non ci ripeta, prego, l'elenco di quel che siete riusciti a fare, alzare di sì e no cinquanta euro le pensioni minime. Lasci dire a Fassino che lui «non capisce» come si possa essere scontenti, Cgil inclusa, del cosiddetto pacchetto welfare. A prova che non ha più idea di come la gente campi. Noi, viceversa, capiamo che i problemi che avete davanti sono grandi, fra l'incudine dei parametri europei e una ripresa che non vuole ripartire sul serio. Ma perché avete usato il tesoretto per rientrare prima nel debito, invece che alleviare il livello crescente delle vecchie e nuove povertà? Eppure Sarkozy ha dichiarato alla Ue: «Sapete? Rientreremo non nel 2008 ma nel 2012». E ha difeso Alstom e Eads soltanto per una certa idea di sé e del primato della sua nazione. Almunia non lo ha scomunicato. Forse proprio per questo, mentre sul lavoro mena botte da orbi? Perché Lei non si sente di difendere con altrettanta determinazione una moderata causa sociale in nome della quale ha avuto i voti? Noi, come Rc e Pdci e i Verdi, non auspichiamo davvero la sua caduta. È la destra della Sua coalizione che sembra sognare nuove maggioranze. Noi le diciamo che è la vostra politica tutta e solo monetaria che va cambiata. Ragionevolmente. Non è né giusto né lungimirante logorare le sinistre popolari, o la Cgil come Lei ha fatto imponendo un aut-aut a Epifani. Crede che senza una Cgil forte un governo di centrosinistra reggerà? Non reggerà. Non ha davanti a sé molto tempo. Veda quel che è successo in Francia nel 2002, in Germania alle ultime elezioni, e succederà alle prossime in Gran Bretagna. La destra è abile nel populismo, e aspetta solo di fare strame dei ceti più deboli. Non li spinga alla disperazione. Non aspetto risposte né le chiedo. Ma ascolti quel che le segnalano con insistenza due giornali modesti e onesti, e le dirà la manifestazione di ottobre. Non sono in pochi a pensarlo.

il manifesto, 4/8/07