No alla guerra della Turchia contro il popolo kurdo!
Sarà la 25° operazione militare programmata dall'esercito turco verso la zona kurda in Iraq; le precedenti 24 operazioni militari non hanno avuto nessuno successo contro il movimento kurdo perché la questione è una questione politica e non militare. Infatti il movimento kurdo ha lanciato ben 4 volte il cessate il fuoco unilaterale per contribuire alla democratizzazione della Turchia e fermare le armi, ma purtroppo l'esercito turco non ha mai sospeso le operazioni di rappresaglia militare. I risultati delle elezioni politiche in Turchia del 22 luglio, avevano fatto nascere la speranza per l'avvio di una soluzione politica della questione Kurda ma purtroppo sia il Presidente del consiglio, che tutte le altre forze politiche, e i mass media turchi hanno iniziato una vera azione di linciaggio contro i deputati kurdi. Si vogliono delegittimare i deputati kurdi, donne e uomini, e tutte le forze politiche impegnate per trovare una soluzione politica alla questione kurda. Nello stesso tempo, la repressione contro la popolazione kurda è aumentata. Il presidente del consiglio Erdogan, che prima dell'elezione aveva mantenuto una certa distanza dalla linea militare, subito dopo il risultato elettorale si espresso invece per una soluzione militare. L'avvicinamento di Erdogan alla linea militare non sta producendo altro che l'allontanamento della Turchia da una soluzione pacifica per la questione kurda oltre che dal percorso avviato con l' Unione Europea . Per questo anche gli stessi deputati di aera kurda del partito di governo, sono contro l'invasione della zona kurda irakena, che produrebbe come prima conseguenza un conflitto totale fra il popolo kurdo e quello turco con effetti devastanti.
Si stanno già vedendo i primi risultati con la ripresa dell'immigrazione interna dai villaggi kurdi. Si rischia così di ritornare agli anni 90 con la fuga verso l'Europa. Questa ennesima operazione militare turca nel Kurdistan Iracheno ha un obiettivo molto esteso e devastante. Si vuole colpire l'autonomia del Kurdistan iracheno e di tutto il popolo kurdo, con pesanti conseguenze sulla stabilità di tutta l'area . Per questo chiediamo la massima attenzione dell'opinione pubblica europea e delle sue Istituzioni.
Quello del governo turco è un grido di guerra, la risposta non può essere il silenzio. La politica internazionale può ancora impedire che siano solo le armi a parlare e ad uccidere.
U.I.K.I (Ufficio d'informazione Kurda in Italia)
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Non è la prima volta che il Partito democratico di Barzani, di cui fa parte anche Zebari, dà una mano ai turchi per combattere i seguaci di Ocalan. Il ministro degli esteri iracheno sostiene ora che i militanti del Pkk sono in Iraq senza il permesso del governo di Baghdad o di Arbil, ma si dimentica che dopo la caduta del raìs i militanti del Pkk in fuga avevano ottenuto ospitalità nelle case liberate dalla pulizia etnica scatenata dai kurdi iracheni. I kurdi (anche del Pkk) potevano servire a riequilibrare etnicamente la popolazione soprattutto nelle zone arabizzate da Saddam e rivendicate come kurde, in particolare in vista del referendum sullo status di Kirkuk.
La repressione non si ferma ai confini. È già successo in passato: negli anni ottanta, Saddam e il governo turco avevano raggiunto un accordo segreto per lo sconfinamento nella lotta contro i kurdi, invisi a tutti i regimi che li ospitano: Turchia, Iraq, Iran e Siria. Il paradosso è che le varie fazioni kurde hanno sempre raggiungo accordi con i governi dei paesi vicini: in cambio di aiuti si sono trovati a servire interessi altrui, fino ad arrivare ad appoggiare l'occupazione americana dell'Iraq. Ancor più grave, si sono spesso combattuti tra di loro, come era successo a metà degli anni '90 nel Kurdistan iracheno, tra i militanti del Partito democratico e l'Unione patriottica di Talabani, ora presidente iracheno, per il controllo degli introiti del contrabbando di frontiera.
La questione dunque è vecchia ma si colloca in una situazione nuova: innanzitutto la necessità della Turchia di tenere sotto controllo il Kurdistan iracheno e di stroncare sul nascere le velleità indipendentiste che potrebbero avere effetto sui kurdi in Turchia. Velleità che sono diventate più realistiche dopo che i kurdi hanno scoperto nuovi importanti giacimenti di petrolio al di fuori di Kirkuk. Per farlo occorre una presenza militare pronta per ogni evenienza. Naturalmente questa interferenza non può essere ben accetta agli Usa che tuttavia non possono fare la voce grossa perché hanno bisogno dell'appoggio logistico turco costituito dalla base di Incirlik. E poi se i turchi con l'occasione li liberano del Pkk, tanto di guadagnato.
La Turchia non rappresenta solo un retroterra per l'occupazione militare Usa dell'Iraq, ma fornisce con il porto di Ceyhan lo sbocco al mar Mediterraneo dell'importante gasdotto per l'esportazione del petrolio iracheno prodotto nel nord del paese.
La minaccia di intervento militare turco in Iraq deve essere presa molto sul serio, insieme alla possibilità di un attacco statunitense all’Iran. Le conseguenze per la pace mondiale e per la vita di milioni di persone in Medio Oriente potrebbero essere devastanti.
Con un voto quasi unanime, per la prima volta dopo decenni, il parlamento turco ha votato una risoluzione che autorizza il governo ad inviare soldati all’estero, nel nord dell’Iraq. Pretesto dichiarato è la volontà di contrastare le azioni militari che il Pkk farebbe da oltre confine e la mancata repressione dello stesso da parte del governo regionale kurdo.
Come sempre succede quando si preparano le guerre le motivazioni non sono mai quelle [o solo quelle] dichiarate. Il casus belli nasconde sempre altre, meno confessabili, motivazioni.
Uno scontro come quello del 7 ottobre, nel quale hanno perso la vita tredici soldati turchi, è un episodio che non si verificava da dodici anni. La coincidenza con la richiesta di Erdogan al parlamento di autorizzarlo ad impiegare soldati in Iraq è quanto meno sospetta.
Per valutare la vera entità del pericolo costituito dalla minaccia turca occorre tenere presente l’insieme del quadro regionale, senza dimenticare mai che nel nord dell’Iraq sono presenti ingenti riserve petrolifere.
Nella regione sono aperti almeno due dossier che il governo turco ha esaminato nel prendere questa decisione: la possibilità di un attacco statunitense all’Iran, il futuro istituzionale del nord Iraq.
La guerra all’Iran, sostengono i pacifisti statunitensi, è molto più probabile di quanto i nostri media danno a vedere, i nostri politici sembrano pensare ed il movimento per la pace trema. Questo per due motivi: il primo è che l’Iran è il fianco più debole della nuova alleanza strategica che si sta costituendo tra Russia, Cina e, appunto, Iran. Un’alleanza che, se consolidata, potrebbe, nei prossimi decenni, sfidare l’egemonia Usa e mettere in discussione il sistema unipolare di governo del mondo costituitosi dopo il crollo del blocco sovietico.
Il secondo motivo è che un attacco all’Iran potrebbe essere l’unica soluzione rimasta all’amministrazione Bush di evitare una sconfitta strategica in Iraq. Già da tempo è in corso un cambiamento della politica Usa di alleanze in Iraq. Da un endorsment delle elite politico-religiose sciite si sta passando ad un sempre maggiore sostegno alle componenti sunnite. Sempre più frequentemente ciò viene giustificato con la necessità di contenere l’influenza iraniana. Di fronte all’impasse in cui l’amministrazione Bush si trova la tentazione di «sparigliare le carte», allargando il conflitto, deve essere molto forte in questi mesi a Washington. Da questo punto di vista il pericolo per la pace è veramente grande: non è detto che la Russia e la Cina stiano a guardare.
Se questo avvenisse, con il quasi automatico smembramento dell’Iraq, il governo turco vuole riservarsi la possibilità di «essere della partita».
Il secondo dossier è, infatti, quello legato allo status istituzionale finale dell’Iraq, ove la possibilità di ripartizione del paese è ancora all’ordine del giorno, soprattutto dopo il voto in tal senso del 26 settembre del Congresso Usa.
Sin dal 2003, subito dopo l’invasione dell’Iraq, il governo turco ha avviato una politica tesa a rivendicare la «turchità» della zona di Kirkuk, finanziando le forze politiche turcomanni, enfatizzando la presenza storica di questa comunità nella città petrolifera del nord della Mesopotamia. Ankara, forse, non è nemmeno estranea alla campagna terroristica da mesi in corso a suon di bombe nella città. Lo status della zona di Kirkuk, che le autorità kurde rivendicano, dovrebbe essere deciso con un referendum che si doveva tenere in novembre e che è stato per ora rinviato, anche su pressione turca. L’eventualità che ai propri confini si possa costituire un’entità kurda che controlli un terzo del petrolio iracheno è vista, e non è mai stato nascosto, come fumo negli occhi ad Ankara. E’ un’eventualità che i generali turchi si riservano di impedire ad ogni costo, anche a quello di invadere il paese.
La ripresa di attività militari del Pkk, dopo anni di cessate il fuoco unilaterale a cui il governo di Ankara non ha risposto con una disponibilità ad avviare un processo negoziale, ma nemmeno riconoscendo unilateralmente un minimo di diritti nazionali alla popolazione kurda, può essere stata volutamente provocata proprio per costruire il contesto giustificativo di un coinvolgimento militare turco nel conflitto in corso in medio oriente.
Questa ripresa è stata fortemente enfatizzata: l’attività militare del Pkk è stata, in questi ultimi anni, limitatissima. Si è trattato quasi esclusivamente di risposte difensive ad attacchi che, l’esercito che fu di Ataturk, ha continuato a perpetrare, con una perseveranza che fa pensare alla volontà di impedire il passaggio definitivo delle rappresentanze politiche kurde ad una strategia esclusivamente politica. Ogni esercito per giustificare se stesso ha bisogno di un nemico e se il conflitto turco-kurdo fosse davvero risolto la più potente macchina militare del Mediterraneo, dopo Israele, perderebbe molto del suo potere. Questa politica di chiusura al negoziato e di continue provocazioni militari ha rafforzato nel Pkk la spinta ad una ripresa delle armi che oggi è presa a pretesto.
E’ di fronte a questo scenario che la Turchia dell’inedita alleanza tra religiosi e militari sembra aver deciso di giocare le sue carte. Fin dove potrà arrivare non è dato saperlo: se si limiterà ad impedire un controllo kurdo del petrolio di Kirkuk o se tenterà, nel marasma della possibile guerra all’Iran, di appropriarsene. In tutti e due i casi la minaccia dovrebbe essere presa molto sul serio.
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Commenti
Anonimo (non verificato)
Dom, 21/10/2007 - 15:34
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E' guerra aperta!
roberto (non verificato)
Mer, 24/10/2007 - 16:33
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Lettera aperta per il popolo kurdo
andres
Mar, 30/10/2007 - 10:35
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Ochalan
roberto (non verificato)
Mar, 30/10/2007 - 13:18
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mi sembra...