Crisi dei mercati finanziaria. Il virus del neo-capitalismo
Crisi dei mutui e finanza mondiale, parla l'economista Joseph Halevi
«Questo virus è la forma del capitalismo Banche centrali e governi lo sostengono»
intervista a cura di Claudio Jampaglia
Allievo di Magdoff e Sweezy, palestinese di nascita, italiano per formazione, giramondo per scelta, Jospeh Halevi ha insegnato a New York, in Connecticut, in Francia e ora a Sidney, passando per il Canada e l'Argentina. Collabora alla Monthly Review , a il manifesto e non si è ancora stancato di provare a ragionare "da sinistra" sul capitale. La sua analisi della seconda settimana di crisi dei mercati finanziari, scatenati dal crollo dei mutui Usa ad alto rischio ( subprime ) è impietosa: è la finanza baby o se preferite "l'economia reale", un virus totalitarista che moltiplica denari per pochi e rischi per tutti.
Siamo a un punto di svolta nell'economia mondiale?
Con una finanza estrememente fluida come quella attuale di punti di svolta ce ne possono essere molteplici. Credo che le autorità Usa cercheranno di evitare che la situazione gli sfugga di mano. Non possono permetterselo impelagati come sono in Iraq e Afghanistan. Una crisi finanziaria di larghe proporzioni non sarebbe assorbibile dal sistema politico istituzionale. Non scordiamoci quello che nel maggio del 2000 l'esplosione della bolla clintoniana delle dotcom fece venire a galla, alla fine del 2001, le vicende tipo Enron. Ciò produsse nell'opinione pubblica nordamericana una crisi di legittimità nei confronti delle società finanziarie, dei managers e via dicendo. Tale crisi venne sostanzialmente accantonata dalla guerra all'Iraq e poi superata dall'enorme liquidità erogata dalla Federal Reserve, la banca centrale.
E cosa fa la Fed?
Cerca di impedire un'implosione finanziaria senza però bloccare la rivalutazione del rischio attualmente in corso. Nel primo caso deve continuare ad erogare soldi ai "mercati" nel secondo deve permettere che le cosiddette correzioni siano alquanto severe per indurre "i mercati" a rivalutare il rischio in maniera non erratica. La rivalutazione del rischio dovrebbe ridurre la portata delle enormi operazioni speculative che sono andate crescendo negli ultimi anni come le leveraged buyout (le società create per acquisizioni da vari partner a scopo solo finanziario, N.d.R.). Ma è come pensare di inventarsi la quadratura del cerchio, perché le leveraged buyout come il capitale private equity (finanziamenti ad aziende a solo scopo speculativo, N.d.R.) e gli hedge funds (assimilabili in italiano ai "fondi comuni di investimento speculativi", N.d.R.) che vivono del rischio ma fuggono di fronte all'incertezza sono la forma dell'accumulazione finanziaria di punta. Ma di fronte alla probabilità di una crisi seria la Fed non può che dare la stura all'emissione di soldi senza limiti. E così le altre banche centrali come l'arcigna Bce.
Perché non possono fare altro?
Gli economisti di qualsiasi scuola non hanno strumenti per prevedere una crisi su orizzonti temporali affidabili. Con lo sviluppo del capitale equity , degli hedge funds e via dicendo, i profitti dipendono dal capitale fittizio, cioé dall' arricchimento attraverso pure plusvalenze. Queste sono le nuove forme strutturali del capitalismo.
Una loro implosione non ci farà tornare al predominio dell'economia reale. Le crisi finanziarie sono andate aumentando dal 1980 e con esse l'ampiezza degli interventi di salvataggio. A favore delle aziende però, mai a favore dei salariati e dei pensionati colpiti da queste crisi, ad eccezione del caso nel 1989 della Savings and Loans che avrebbe trascinato con se tutto il sistema pensionistico e finanziario degli Usa.
Ci saranno ricadute reali solo sui consumatori indebitati o prevedi anche cambi di strategia e linea da parte della Fed o dei grandi investitori?
Le famiglie dei salariati americani sono già molto oberate e devono rendersi vieppiù flessibili per poter sostenere il servizio dei loro debiti. A mio avviso sposterei l'attenzione non su una "rottura" ma sugli effetti. Il contagio dovuto ai debiti contratti nel mercato subprime non è dovuto all'indebitamento in sè ma al fatto che gli hedge funds hanno trasformato questi debiti in attività, raggruppandoli e ripresentandoli sul mercato come titoli. A loro volta su questi titoli si sono create delle scartoffie, altri cosiddetti "prodotti derivati", a loro volta piazzati sui "mercati" sia apertamente che surrettiziamente. Queste scartoffie sono come dei virus che propagano il rischio ma in due tempi. In un primo tempo lo disperdono tra i tanti detentori istituzionali di queste scartoffie, che vanno appunto dalle società Usa fino alla francesissima "Banque de Paris et Pays Bas". Ciò da l'impressione di una vasta distribuzione del rischio e quindi di una sua copertura. Questo incita a perseverare nel prestare soldi a clienti poco solvibili. Alla fine la struttura delle passività determina l'incontro con la realtà. E nel caso del subprime il reality check è arrivato quando il numero delle famiglie che faceva cadere i propri mutui in protesto ha cominciato a salire vertiginosamente. A questo punto il virus si è attivato ovunque si trovasse.
E come assumersi un debito e cercare di pararne il rischio moltiplicando il debito all'infinito?
Le istituzioni che prestavano soldi nel mercato del subprime sapevano benissimo che i clienti non erano solvibili, come lo sapevano anche gli hedge funds che hanno raggruppato questi debiti in titoli da piazzare sui "mercati". Il criterio è puramente speculativo inflazionistico: scommettere su un continuo aumento sostenuto del prezzo delle abitazioni. Ora questi criteri governano anche i capitali equity e le leveraged buyout . In questo caso si scommette sul fatto che le ristrutturazioni comprimino salari e condizioni di lavoro in maniera tale da far emergere rendimenti a due cifre tali da moltiplicare il valore delle azioni, attrarre capitale speculativo ecc. La stessa logica domina quindi nelle società produttive. Le aziende che non possono raggiungere rendimenti a due cifre, a loro volta "investono" in queste forme finanziarie per ottenere plusvalenze che con la produzione non potrebbero raggiungere. Il tutto implica una pressione crescente sulla forza lavoro, che l'economia - cioè l'assurdo Pil - cresca o meno. Quasi tutto il capitale funziona così, come un casinò o peggio come un gigantesca bisca della Macao di un tempo. Basta considerare che la stragrande maggioranza degli investimenti internazionali è in operazioni di portafoglio, cui si aggiunge il traffico elettronico delle scartoffie derivate superiore molte volte al Pil mondiale. E le banche centrali ed i governi sono lì a proteggere le bische.
Ci dicono che il mercato si aggiusterà da solo, farà la sua selezione. Tutto qui?
I fatti dimostrano che non c'e alcuna correzione endogena che porti verso un nuovo equilibrio. Sono posizioni propagandistiche. La questione non è degli strumenti, che per me sono delle scartoffie, bensì è la forma del capitale. La valenza finanziaria è dominante e non è un'ipertrofia. E' successo l'opposto di quello in cui sperava Keynes. Invece dell'eutanasia del rentier abbiamo la moltiplicazione a livello tentacolare del rentier . Già agli inzi degli '70 Sweezy e Magdoff sottolineavano la trasfomazione delle industrie Usa in conglomerate finanziarie con un ruolo dipendente della produzione. Per capire queste cose bisogna essere assolutamente marxisti, non ci si può basare sulle teorie borghesi perchè - anche nelle loro dimensioni più consapevoli, da Keynes a Stiglitz - alla fine sostengono la controllabilità dei processi con opportune regolamentazioni ecc. Il fenomeno finanziario non è una sovrastruttura nè una distorsione da correggere. E' la forma dominante raggiunta dal capitale astratto, cioè del capitale generale. E questa forma determina anche il funzionamento delle istituzioni politico-economiche che non sono più minimamente autonome rispetto al capitale generale.
Come viene letta la crisi in Asia. Esiste anche un soccorso cinese alla stabilità, via debiti, degli Usa?
L'Asia orientale non è autonoma dagli Usa. Il Giappone ha avuto un ruolo fondamentale nel generare denaro facile avendo perseguito una politica iper-keynesiana di tassi vicini allo zero e di deficit pubblici. Ma questo viene attuato con il beneplacito di Washington. Ancora qualche mese fa l'Fmi emise sconsigliava al Giappone di aumentare i saggi di interesse. La questione fondamentale è la Cina. Al suo interno ha problemi finanziari molto più gravi del subprime statunitense. E' avvolta in una bolla gigantesca e con un'inflazione crescente nel campo alimentare. Questa è una bomba per una paese con povertà di massa. Fino a poco tempo fa pensavo che il sistema dittatoriale fondato sul Partito Comunista potesse controllare il processo di accumulazione, con delle vittime beninteso, ma senza far deragliare l'industrializzazione. Comincio a dubitare. Non penso più che il miscuglio di cinismo politico e di intelligenza tecnocratica dei governanti comunisti cinesi riesca a mantenere il controllo del volante. In ogni caso, con la crescente volatilità finanziaria negli Usa, la Cina non può che rifinanziare il deficit estero di Washington investendo in buoni e titoli USA il suo attivo corrente.
Quali sono le ricadute in Europa?
I collegamenti Europa-Usa sono molto intensi riguardo il traffico finanziario. Per cui una deflazione da debito negli Usa si ripercuote immediatamente in Europa come abbiamo visto con il caso della "Banque de Paris et Pays Bas". Alla fine la Bce ha sborsato in due giorni un ammontare di denaro pubblico equivalente al Pil del Portogallo; l'ha fatto notare la Bbc. Ormai con le privatizzazioni ed aperture ai fondi privati, come per il Tfr in Italia, pensioni e compensi di diritto dipendono dal capitale fittizio. E siccome i "mercati" sono ignoranti, speculano sul rischio ma temono l'incertezza come la morte, sono anche soggetti al panico, come del resto per esperienza già sapeva Keynes.
Al di là della crisi finanziaria, l'Italia corre invece il rischio di una crisi via bilancia commerciale?
Non credo proprio. Quando si parla di crisi da bilancia di pagamenti ci si riferisce al rapporto tra posizione estera e tasso di cambio. In generale questa relazione può prendere ogni tipo di forma. Vedi il Giappone ma anche la Germania negli anni '70. Alto valore della moneta nazionale ed alto surplus commerciale. Oggi tuttavia si possono avere lunghi periodi in cui paesi indebitati e con deficit crescenti subiscono rivalutazioni nel tasso di cambio. Del resto basta non credere più nei prezzi come elementi determinanti dell'equilibrio per lasciar perdere le teorie circa la relazione tra tasso di cambio e bilancia dei pagamenti. Seconda osservazione. L'Italia sta nell'euro. Come potrebbe saltare il tasso di cambio? Solo facendo saltare l'euro nel suo complesso. La candidata a quest'operazione semmai sarebbe la Spagna che ha un deficit estero che viaggia sul 10% del Pil, superiore a quello Usa, mentre l'Italia ha un deficit al 2,5% del Pil. Come si finanzia la Spagna? In parte con trasferimenti dall'Europa stessa, ma non continueranno a lungo. In parte con investimenti finanziari visto che il tasso di crescita spagnolo, tra i più alti in Europa, fa balenare profitti-rendite migliori, soprattutto nel campo immobiliare. Questo settore è molto internazionalizzato in Spagna, specialmente in alcune regioni, quindi vulnerabile a ciò che sta accadendo negli Usa. Ora se questi elementi dovessero venire meno, il deficit verrebbe corretto attraverso una crisi classica: fallimenti e caduta degli investimenti. Con un deficit al 10% del Pil non è ancora successo. Non succederà in Italia con il 2,5%!
Quanto pensi che pesino patti e vincoli europei sulla politica economica italiana?
Non ci sono vincoli europei! Lo vogliamo dire o facciamo i finti tonti? Su questo tema Bellofiore docet completamente. I paesi europei i vincoli se li giocano come vogliono. Ora la Germania li rivuole; modificati ed applicati a suo favore perchè sta avendo un boom delle esportazioni in Europa e verso la Cina stessa nei settori portanti. La Francia li sta facendo saltare perchè ha perso i surplus di parte corrente e si sta aprendo un conflitto tra interessi finanziari e commerciali. Da de Gaulle in poi lo Stato francese ha sempre cercato di essere il punto di equilibrio degli intressi industriali e finanziari e - come successe con Giscard d'Estaing nel 1996 - non ha mai esitato a forzare sull'Europa il mantenimento di quest'equilibrio necessario allo stesso peso politico della Francia in Europa. Il problema dei vincoli è un problema verso l'Italia ed è un problema interno italiano. Il punto è perchè Francia e Germania abbiano ridefinito i patti in maniera negativa per l'Italia e perchè il centrosinistra ed il capitale tradizionale, come la Fiat, abbiano accettato questa nuova definizione.
So che hai seguito il dibattito sull'anticapitalismo e la sinistra di questi mesi. Cosa ti suggerisce?
Mi sono trovato molto d'accordo con Bellofiore e Dal Bosco. La Ravaioli, che per me è una delle migliori teste d'Europa, solleva questioni validissime ma se si ragiona in termini economici non è possible affrontarle. Questo mostra il limite invalicabile del ragionamento economico. In ogni caso preferisco partire dallo stato di cose presente senza postulare un anticapitalismo preconcetto. C'è il rischio che l'anticapitalismo preconcetto finisca per risultare molto più debole dell'anticapitalismo che può scaturire dall'analisi dello stato di cose presente. Diventiamo un po', anzi molto, più chomskiani e molto meno hegeliani. Alla sinistra italiana non do molta credibilità: ha mollato sul lavoro, sui diritti sociali, sulla laicità (vecchia tara che nasce dall'orrendo connubbio sul maledetto articolo 7 della Costituzione), non si è mai veramente impegnata sulle questioni ecologiche. La sinistra non pensa più. Io sono un prodotto del Pci, dell'Istituto Lelio Basso e della Cgil degli anni '60. Ne ho ricevuto una formazione culturale e del mondo che mi ha permesso di navigare da 32 anni l'intero pianeta. Una cultura che mi ha collegato ai Dobb, Sylos Labini, Kalecki, Caffè e via dicendo, come la lettura de l'Unità mi metteva in contatto con il Bihar, il Kerala, l'Egitto di Nasser e le analisi di Harrison e Galbraith. Ne parlo spesso con il grande Valentino Parlato, sono ancora da spiegare in profondità la ragione dell'implosione culturale ed analitica della sinistra italiana.
E quindi come ripartire?
Per ciò che riguarda la cornice dell'attuale governo direi di lasciar perdere. Bisogna far nascere un movimento sufficientemente ampio dal basso, che si riappropri del salario, del lavoro, dei diritti sociali, pensioni, sanità. Ambiente e trasporti pubblici su rotaia dovrebbero avere priorità speciale. Ma senza una complessa pianificazione tutto questo è impossibile. Così come bisognerebbe ignorare i patti europei perchè appunto sono solo un modo per far valere un neomercantilismo contro un altro e bisognerebbe invertire i processi di privatizzazione finanziaria, nonchè riaprire la porta a politiche di programmazione. Con il centrosinistra attuale è meglio scordarsele queste cose. Per questo ci vuole un movimento dal basso. Nel 1948 Togliatti definì gli otto milioni di voti allo sconfitto Fronte Popolare come un baluardo contro la reazione. Aveva ragione. Resero possibile il Piano del Lavoro della Cgil, il cui livello di mobilitazione aprì lo spazio ad iniziative riformiste nella Dc, come il Piano Vanoni, le idee pianificatorie di Pasquale Saraceno, i programmi di Enrico Mattei. Oggi la situazione è molto più difficile perchè nella classe dirigente, centrosinistra compreso, non ci sono Mattei, Saraceno, Vanoni. E senza un movimento autonomo che faccia quantomeno da argine non si può sperare in nulla, certamente non nelle formazioni partitiche odierne.
"Liberazione"
18/08/2007
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