La sanità pubblica una risorsa non una spesa.
di Eleonora Artesio*
Il tema della sostenibilità economica del sistema sanitario
nazionale è sempre presente nel dibattito politico; in alcune stagioni - come
l'attuale - assume rilevanza sia nelle valutazioni nazionali sia nei riparti
regionali delle risorse.
Che la spesa cresca è indiscutibile; che la crescita
sia irragionevole e insopportabile è, invece, opinabile.
I dati raccontano
un'altra storia: nel periodo 1990/2004 i paesi con servizi sanitari a
finanziamento pubblico registrano livelli più bassi del rapporto spesa
sanitaria/Pil e tassi di crescita inferiori rispetto ai paesi con finanziamenti
mediante assicurazioni private (in Italia dal 7,7% all'8,7%; negli Usa
dall'11,9% al 15,2%).
I denigratori della spesa sanitaria allora ricorrono a
un'altra tesi: il finanziamento pubblico sarà insostenibile a causa dell'aumento
consistente e rapido della domanda (invecchiamento della popolazione) e dei
costi (nuove tecnologie). Le evidenze scientifiche degli ultimi anni dimostrano
che l'accresciuta aspettativa di vita si tramuta in un incremento della vita in
buona salute, non in un allungamento del periodo di disabilità. Di cosa stiamo
discutendo, allora?
Non di dati oggettivi; non di una compatibilità
economica, ma di una "sostenibilità" politica. La sanità non sfugge al
deterioramento complessivo dei principi fondamentali dello Stato di diritto e
dello Stato sociale. La Costituzione italiana iscrive il diritto alla salute nel
titolo II dei diritti etico sociali, non nel titolo III dei diritti economici,
perché lo riconosce come bene "indisponibile" ovvero diritto fondamentale
dell'individuo (della persona, non solo del cittadino residente e contribuente)
e come bene "comune", ovvero interesse della collettività da cui discende la
ragione della spesa pubblica. Il diritto individuale è ancora rivendicato;
l'esigibilità del diritto attraverso un sistema pubblico di tutela è invece
messa in discussione.
In un'epoca in cui l'"io" prevale sul "noi" e il "mio"
sovrasta il "nostro", accade che gli esperti di sistemi sanitari valutino la
sanità pubblica positivamente mentre i cittadini-pazienti se ne lamentino,
prevalentemente per ragioni diverse dall'oggettivo esito della cura.
La
sanità, dal punto di vista del singolo, è indifferentemente diritto e consumo
quindi, appannata l'idea del bene comune, si rivendica l'accesso all'integratore
alimentare quanto al farmaco salvavita; si percepisce come insopportabile
l'attesa per una diagnostica programmata e di controllo incuranti dell'urgenza
di bisogni primari; si teme come concorrente indebito nella distribuzione delle
risorse l'altro/a, specie se straniero, povero o socialmente "sgradevole".
Si
può imputare al singolo la responsabilità/colpa di questo umore? Anche, ma ogni
comportamento riflette il senso del tempo e il nostro tempo rispecchia
un'invadenza del mercato che amplia l'offerta di beni effimeri (screening di
efficacia non dimostrata, farmaci preventivi e non protettivi, medicina
difensiva che si autotutela con prescrizioni inappropriate…). Questi umori sono
attentamente coltivati in un disegno che tenta di infiltrarsi nel sistema
pubblico, o in parti di esso, con finanziamenti privati (fondi o assicurazioni)
integrativi o sostitutivi.
Il nostro Paese difetta di memoria: nel 1978 tra i
fattori decisivi per il passaggio da un sistema frazionato su più mutue di
categoria a un sistema pubblico unitario vi fu l'incompetenza finanziaria di
alcuni tra i principali soggetti privati e il timore fondato di dover attivare
onerosi salvataggi per fondi o assicuratori privati. A trent'anni di distanza,
nei quali seppure con diseguaglianze geografiche si sono garantiti i livelli
essenziali di assistenza, ammaliano le vecchie sirene. Si canta così il
catastrofismo della "bancarotta" del sistema sanitario pubblico incapace di
resistere all'aumento della domanda e al conservatorismo dei pubblici
dipendenti.
Si cantano così le rosee sorti della partecipazione dei privati
alla gestione sanitaria, prima nelle funzioni della logistica poi
dell'assistenza.
Non stupisce in questo clima il recente documento di
Confindustria che, soavemente inconsapevole dei costi umani e sociali
dell'attuale crisi produttiva di cui evidentemente non si sente responsabile,
decreta il fallimento delle politiche nazionali e regionali in sanità e, forte
delle brillanti capacità imprenditoriali di cui i lavoratori in cassa
integrazione sono entusiasti testimoni, si candida a cogestire parti e funzioni
sanitarie.
Come resistere a queste sirene? Con il faticoso lavoro della
ricostruzione: dei legami sociali che inducano ciascuno a vedere il proprio
interesse e la propria speranza nei beni comuni, a cominciare dalla salute;
della partecipazione che non delega al decisionismo delle istituzioni e alla
tecnocrazia delle professioni le proprie sorti; della politica come bisogno
delle persone per ridare un senso collettivo all'esistenza.
*assessore
regionale Sanità Piemonte
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