Un sentimento profondo che parte da lontano, dai grandi cambiamenti degli anni Ottanta e Novanta. Ristrutturazioni selvagge, perdita del ruolo dei lavoratori, “paura della scarsità”, nuovi conflitti grandi e piccoli che sostituiscono quello fordista, la categoria dello “straniero”, la differenza tra “luoghi” e “flussi”, tra comunitario e globale. L’ultimo saggio del sociologo Aldo Bonomi esplora le intricate radici del rancore che ha imbevuto il nord d’Italia.
«Come è stato possibile che chi sapeva tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica-territorio negli anni Settanta e Ottanta, a un certo punto si sia trovato completamente spiazzato di fronte al cambiamento?»Questo interrogativo potrebbe, da solo, valere la fatica di leggere le densissime pagine dell'ultima opera di Aldo Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del nord (Feltrinelli, pp. 158, euro 12): un libro che bisognerebbe leggere in parallelo coi recenti Paura liquida di Zygmunt Bauman (Laterza, pp. 234, euro 15) e Spinoza: individuo e moltitudine , a cura di R. Caporali, V. Morfino e S. Visentini (Il Ponte Vecchio, pp. 408, euro 25) per comprendere le passioni della società nella quale siamo immersi, e progettare una via d'uscita per una sinistra che, in modo paradossale, non ha saputo cogliere le specificità dei cambiamenti in corso negli anni Ottanta e Novanta ed ha rimosso o sublimato le espressioni di questi mutamenti dietro esorcismi verbali o supponenze teoriche: «aver concentrato lo sguardo in alto, nel cielo della politica, ignorando ciò che nel frattempo accadeva in basso, sul territorio». Una sinistra che, con la scuola teorica dei Quaderni Rossi , «fu capace di leggere i grandi cambiamenti delle prime fasi dell'industrializzazione, di individuare nell'operaio massa fordista il cuore di una nuova composizione sociale affluente». Mentre nell'accademia erano di moda squisite discussioni salottiere sul disincanto, la secolarizzazione e l'oblio dell'essere, la Valcamonica conosceva quella concreta forma di disincanto derivante non dall'esegesi ermeneutica, ma dall'essere attraversati dalla ristrutturazione di un'economia a monocultura siderurgica: un effettivo «non ritrovare quelle condizioni effettuali dalle quali si era partiti», al cui termine si manifestava «un sordo rancore che coniugava modernamente arcaismi ed etnoecologia, la magica esaltazione del vivere la "montagna incantata" come luogo di salvezza dai cambiamenti tumultuosi che bussavano alle porte». Se si fosse applicato a questi mutamenti il metodo dell'operaismo, della ricerca sul campo, «sarebbe stato relativamente facile capire quello che stava succedendo. Ma così non è stato». Dove abbia portato questa idea di cultura tutta teoria, che sorvola i luoghi reali per calarsi in festival e circoli letterari buoni per blandire il Principe, ma senza alcun rapporto con i luoghi in trasformazione, è sotto gli occhi di tutti.
Per chi voglia invece tenersi distante dai cieli del sublime e dell'effimero e continuare a sporcarsi le mani sul terreno della prassi, conviene far tesoro non solo del metodo di Bonomi, ma anche della sua narrazione. Che è narrazione, in primo luogo, di passioni: una vera e propria fenomenologia delle passioni, unificate appunto dal «sordo rancore quale reazione alla frustrazione di un ruolo sociale perduto» che accomuna la "paura operaia" alla "paura della scarsità", del non avere accesso a sufficienti risorse. In secondo luogo, è narrazione plurale e multiforme di conflitti: non solo quelli identificabili come conflitti di classe, ma anche di tipo inedito, di non sempre facile decifrazione. Al conflitto di matrice fordista, la presunta fine del quale giustificherebbe l'idea di una società mite e pacificata, si affiancano i conflitti tra il locale e il globale; tra le piattaforme produttive e i luoghi di confine; tra flussi e luoghi; tra le nuove identità, ritrovate o inventate, e i nuovi stranieri; tra il bisogno di comunità come ritorno all'origine e la dimensione globale che dissolve le comunità. Lungi dal tendere al mite e all'omogeneizzazione, il sociale si sfrangia e moltiplica i punti di frizione, ciascuno dei quali richiede un lavoro di ricostruzione sul campo e di messa in opera di strategie di narrazione.
Bonomi insiste molto su questa dimensione del narrare, e a giusta ragione: all'incapacità della sinistra tradizionale di narrare la società dell'ultimo quindicennio (della quale il nord costituisce, per certi versi, il laboratorio) corrispondono strategie narrative opposte ed efficaci, a dispetto dell'apparente rozzezza. Dietro la retorica berlusconiana del nuovo miracolo italiano «si celava il racconto del lavoro autonomo come ricaduta della deindustrializzazione e di un processo di fabbrica diffusa» che in modo differenziato si era dispiegato lungo un arco che, dal lavoro autonomo come forma flessibile di ristrutturazione e selezione (la Fiat Torino) alla trasformazione di una marca di frontiera in limes di attraversamento (l'autoporto di Gorizia), passando per l'affermarsi del polo lombardo del fare televisione (Milano) e del tentativo di riposizionarsi nella competizione, attraverso la rivendicazione di infrastrutture, di realtà come Brescia e Vicenza. In modo analogo, l'elaborazione della categoria dello "straniero" viene narrata all'interno di una produzione simbolica stereotipata, ma dotata di senso e con capacità di produrre effetti pratici, che reagisce alla frantumazione dell'identità tradizionale riposizionandola su modelli di identità perduta, non importa se realmente radicati in una passata tradizione o frutto di quella che Hobsbawm chiama "l'invenzione della tradizione". Straniero è quindi solo in ultima battuta il rom di Opera: prima di questi sono stati narrati,cioè raffigurati (con la capacità tipica della retorica, fatta propria dalla Lega, di identificare in modo riconoscibile il proprio avversario) lo "straniero di provenienza", estraneo alla società locale (dal meridionale all'extracomunitario); allo "straniero di professione", che ricopre ruoli riconosciuti come parassitari o improduttivi dalla comunità locale; ma anche, è straniero chi si pone al di fuori della sottocultura del lamento. Come ha notato Bauman, la tradizionale duplice strategia di assimilazione/rifiuto della straniero diviene impraticabile nell'età della globalizzazione, con effetti devastanti in termini di percezione sociale del sé e dell'altro. Ciò che nel concreto osserva Bonomi è che questa strategia si coniuga, inevitabilmente, ad un grumo sedimentato di rancore che viene percepito come conflitto interiore (il rivendicare un'identità nell'epoca della frantumazione delle identità), soffocato al proprio interno e proiettato all'esterno, sul territorio occupato dagli avversari, dai competitori, dagli "altri": «i rom, in questo senso, rappresentano il limite, il nostro possibile futuro di uomini sradicati da processi che ci paiono al di fuori delle possibilità di controllo». Le grigliate di Opera, dove un'intera comunità assedia poche decine di nomadi, sono espressione di una voglia di comunità figlia dell'apocalisse culturale (nel senso di De Martino: del non sapersi più riconoscere), della "solitudine della metropoli" come «condizione in cui qualunque allarme sociale manda in crisi il nostro modello di comunità originaria». Ma Opera è anche l'emblema di un conflitto tra luoghi e flussi che li attraversano: come la Val di Susa, «una comunità locale che si sente attraversata da un flusso e si mette di traverso»; come la base Dal Molin di Vicenza, un enorme flusso «che atterra in un luogo senza mediazioni, suscitandone la reazione virulenta» (e dove, aggiungiamo, praticando il conflitto trasversalmente si è pur vinto, strappando alla destra un caposaldo storico del Veneto). Più in generale, nel conflitto tra flussi e luoghi c'è, ammonisce Bonomi, «qualcosa di malato che avanza», e che, in assenza di una capacità di governo di questi conflitti, rischia di produrre "comunità maledette", generatrici di risentimento, "sangue e suolo".La ristrutturazione selvaggia, il devastante impatto dei processi di globalizzazione, accompagnati da una crisi senza precedenti di legittimità delle istituzioni incapaci di fornire risposte e rassicurazioni (la crisi della "governance" studiata negli anni Ottanta da Foucault) ha prodotto per un verso un impasto di figure sociali, una nuova plebe (nell'accezione di Hannah Arendt) - gli "spaesati", gli "stressati", i "naufraghi del fordismo" - che costituisce uno dei serbatoi elettorali della Lega. Per altro verso, queste comunità in crisi sono attraversate da uno spostamento emotivo dalla passione calda della politica verso le piccole, fredde passioni degli interessi: col conseguente proliferare di figure radicate nell'individualismo proprietario, nell'ambivalenza del sentimento egoistico che se alimenta sentimenti di chiusura e ripulsa, non di meno «esalta il farsi da sé, il contare sulle proprie forze». Si tratta di una moltitudine rabbiosa, identitaria, socialmente invidiosa, che si contrappone nei fatti a quelle nuove identità radicate nel globale, siano esse portatrici delle passioni calde della critica alla globalizzazione o protagonisti di quell'economia dei flussi globali che sorvola i luoghi praticando la deresponsabilizzazione etica e la tecnocrazia come unico criterio decisionale.
Rispetto a questo quadro, la proposta di Bonomi è nel "mettersi nel mezzo" tra flussi e luoghi, nel "fare società": «nessuna crescita economica da sola potrà garantire sviluppo della società, convivenza tra soggetti diversi e nemmeno livelli soddisfacenti di benessere. E pur non essendo sempre facile delineare una linea di separazione tra ciò che è artificiale, definito funzionalmente, e ciò che è contestuale, definito antropologicamente, la funzionalità deve saper recuperare anche quest'ultima dimensione a essa estranea». In altri termini, si tratta di uscire dalla narrazione di un'emergenza continua (dietro la quale c'è un nefasto impasto di scarsità di saggezza e mancanza di esperienza) e di costruire, anche a partire dalla narrazione di esperienze reali esistenti, o recuperabili dal passato - narrazioni sagge, dunque - «un'identità da società di mezzo, cioè quella dimensione intermedia tra società ed economia»: una dimensione che rimanda alle autonomie locali, ai percorsi di rappresentanza e di rappresentazione, alle autonomie funzionali. Una dimensione autopoietica.
Liberazione, 30/4/08
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