Noi con gli ultimi. Sempre!

 

 

 

 

 

 

 

 

Se il fastidio si trasforma in una ideologia

di Rina Gagliardi da “Liberazione” del 30 agosto 2007
Una vicenda esemplare, quella della repressione fiorentina dei poveri lavavetri romeni. Tutto, ma proprio tutto, si gioca sul terreno simbolico, oltre che sul bisogno di "facile" popolarità dell'assessore Cioni. Non c'era, non c'è, alcuna emergenza di ordine pubblico, tale da giustificare ordinanze roboanti e muscolari come quella emessa dalla giunta di Firenze. Non c'era, non c'è, alcuna previsione di risultati efficaci, nel tempo lungo, anche dal punto di vista del contrasto alla "microcriminalità" (e che ora si scopra, di colpo, l'urgenza della lotta contro lo sfruttamento dei bambini, è solo una copertura tardiva). Non c'era nessuna ragione, insomma, di procedere come si è proceduto che non fosse una forte esibizione di ideologia repressiva, sicuritaria, antisolidale. Il ministro Amato, del resto, lo ha spiegato bene: si tratta di "rassicurare" i cittadini nella loro "percezione" dell'insicurezza, non certo di smantellare i racket o rendere le nostre città più tranquille. Si tratta - ieri a Firenze, domani a Bari e a Torino - di sancire, attraverso un gesto, appunto simbolicamente fortissimo, la riconquista dello spazio urbano, della terra, delle strade, contro l'invasore, lo straniero, il disgraziato, il diverso.
La politica, segnatamente la politica del nascente Piddì, galoppa così verso destra. Tra la fascinazione del modello Sarkozy e quella della "tolleranza zero" di Giuliani, la nuova formazione "postideologica" getta alle ortiche non solo e non tanto il suo patrimonio dottrinario, ma il Dna, la ragion d'essere basilare, la necessità storica della sinistra: che è, ed è sempre stata, la solidarietà con gli ultimi. E, poiché viviamo nella "società degli individui" e dei "consumatori", come spiega Walter Veltroni nelle sue lezioni parigine, essa, il Piddì, cavalca l'egoismo del "senso comune" gramscianamente disgregato, e la sua logica sorda ad ogni altra istanza - lo accarezza, lo esalta, gli dà dignità di governo. Da questo punto di vista, l'ordinanza fiorentina è una scelta molto grave: è al tempo stesso la rinuncia alla politica e il passaggio ad un'altra politica. Un indizio allarmante di americanizzazione, proprio nel nesso che stabilisce tra ruolo delle istituzioni e umori della società.
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Certo, la decisione di scacciare i lavavetri raccoglie il consenso della grande maggioranza della popolazione fiorentina - e non dubitiamo che lo stesso accadrebbe in una qualsiasi delle nostre città. Il sondaggio che il Corriere della sera ha prontamente messo on line non lascia dubbi: quell'88 per cento di plaudenti parla da solo. E ci pone interrogativi che per troppo tempo abbiamo lasciato inevasi. Sta mutando, in senso reazionario, la cultura profonda del paese? Si va profilando una schiacciante vittoria della destra - non della destra politica, ma della sua ideologia, valori, pulsioni, istanze? E che cosa possiamo e dobbiamo fare per contrastare questo esito, che è ormai nell'ordine naturale delle cose?
Intanto, credo, dobbiamo spingere più a fondo la nostra capacità di lettura di quel che va oggi accadendo. Un "bisogno d'ordine", in realtà, c'è sempre stato (ricordate la "maggioranza silenziosa" degli anni '70 e '80, quella che ce l'aveva con gli operai e gli studenti?) e si è espresso sempre in forme proporzionali alle sponde politico-organizzative che riusciva a incontrare. Oggi, però, accade qualcosa di più sinistramente spontaneo e diffuso - come per esempio, l'"autoorganizzazione" di quartiere contro il disordine delle bancarelle, e la miriade di migranti che campa vendendo finte Prada, o le ronde contro l'invasione cinese, o le insurrezioni locali contro i campi Rom. Non è solo la paura a muovere questi comportamenti, oggi basta perfino il fastidio. A Trastevere (dove mi capita di abitare) incontri di continuo persone, magari reduci dall'edicola con il manifesto in mano, che ti spiegano l'insopportabilità della loro condizione esistenziale, minata dai rumori notturni, dai lavavetri appostati, appunto, a tutti i semafori, dalla sensazione di vivere in un unico gigantesco pub. Ma che cosa sta trasformando il fastidio in un'ideologia, in una priorità, quasi in una scelta di campo che si scarica tutta addosso agli ultimi, ai meno responsabili, ai più sfortunati? Che cosa è successo, nella determinazione del senso comune, tale da bruciare, o quasi seppellire, tutte le appartenenze precedenti, di classe, di opinione, di credo politico? Conosciamo, a livello generale, le radici di questa regressione - o meglio, di questo bivio drammatico della nostra storia, nel quale l'umanità o compie un salto deciso verso la libertà o regredisce fin nei suoi fondamenti di civiltà. La globalizzazione che rade al suolo tutte le identità e mina alla base ogni idea stessa di identità solida. Il neoliberismo, con le sue ricette e le sue pratiche di selezione sociale e feroce competizione, con la sua società che ricomincia ad assomigliare alla giungla. La società dei consumi, che s'illude di poter continuare a consumare deprimendo e umiliando il lavoro. La precarietà diventata legge non solo del mercato del lavoro, ma di tutta l'esistenza sociale. La guerra che è tornata a prendere il posto della politica e riscopre in ciascuno di noi il lato peggiore, guerriero, selvaggio. La crisi (irreversibile?) delle grandi ideologie su cui si è retto il progresso del ‘900, e delle grandi costruzioni popolari dei partiti di massa. La scienza che fa balzi giganteschi e radicalmente incontrollabili. Tutti questi processi stanno determinando il terribile disordine del mondo attuale - quella "società liquida" dove si smarrisce ogni idea consistente di sé e degli altri, dove gli individui sono tutto e nulla, monadi infinite prive di qualunque possibilità di incontrarsi e vivere insieme la propria armonia. Monadi destinate ad impazzire - o comunque a vivere nella paura e nell'ansia. Monadi che trovano senso, talora soltanto nella punizione esemplare dell'altro - o nella sopraffazione del più debole. No, non pavento l'apocalissi, e nemmeno l'ineluttabile destino di un nuovo fascismo di massa che ci aspetta. Ma credo che sia davvero venuto il tempo di una riflessione più avvertita, e di un'iniziativa più forte, prima che sia troppo tardi.

 

Articolo di Marco Revelli su "il manifesto" del 29 agosto 2007

Se voleva rappresentare il senso comune dell'italiano medio, c'è riuscito benissimo, Walter Veltroni. La sua intervista al Corriere della Sera di ieri è uno spaccato quasi perfetto dei «sentimenti morali della nazione» (dell'Italia «prevalente», quella che non ci piace): sufficientemente ipocrita per non apparire cinico, subliminalmente (ma neanche troppo) «duro», disinvoltamente impolitico, sostanzialmente «classista» (nel senso di chi «piace alla gente che piace»....). È troppo? Vediamone qualche passaggio. L'incipit. Aveva già colpito, nel discorso del Lingotto, quel voler parlare non come membro di un partito ma «come italiano» da parte di uno che era venuto fin lì, da Roma, per celebrare la propria candidatura alla guida del Partito democratico. Non, che so?, per una partita della nazionale di calcio. O per una prima al Regio. Ma per l'investitura alla segreteria di un partito!
Mi era sembrata, allora, un'esibizione quasi spudorata di falsa coscienza. O ci sta prendendo in giro tutti, mi ero detto. Oppure ci crede davvero. Pensa effettivamente che il Pd sia «fatto per tutti». Non solo per quella parte, più o meno grande, che lo segue. Ma per tutti gli italiani. E che a tutti, come tale, debba piacere. Di qui quel retrogusto di durezza dietro l'espressione da diacono, perfino di trattenuta violenza (morale), in qualche misura integralista, dell'intervista. Da qui emerge con chiarezza che il Pd di Veltroni andrà avanti come un rullo compressore, facendo tabula rasa di qualunque cultura politica che opponga resistenza, di ogni traccia di memoria che non sia metabolizzabile, di ogni soggetto sociale che non sia integrabile, come ciò che avanza convinto di interpretare la «forza delle cose». Il «dispotismo della realtà», a cui si piega egli per primo, ma che pretende che ogni altro accetti.
Certo, in questo fare dello stato di cose esistente un dogma, la politica consuma la propria caduta. Questa resa al «reale», qual è, alle sue gerarchie consolidate, ai suoi rapporti di forza dati e quanto di più «impolitico» si possa immaginare, se per politica si intende l'arte della trasformazione del reale e del suo possibile trascendimento. Ma tant'è: il messaggio sembra fatto apposta per viaggiare, alla velocità della luce, nel mondo dei media. Nell'unica realtà virtuale che oggi sembra contare. Di luoghi comuni mediatici è intessuto, e possiamo stare sicuri che ne otterrà il giusto riconoscimento, da parte di quelli che «contano». Quanto agli altri, quelli che abitano i piani bassi, sono avvertiti rischiano di restare fuori. Dallo spazio politico se si intestardiscono a non cogliere la «grandezza», l'inedito splendore, l'«impresa storica» di ciò che va nascendo e ardiscono magari anche a mettere il dito sul vuoto di idee, sulle contraddizioni aperte, sull'assenza di progetto che non sia il «coraggioso» ruere in servitium dei mercanti e del mercato. O se, nella strada, non sapranno stare al «loro posto», pretendendo di continuare ad abitare gli anfratti, a lavare i vetri agli incroci, a vivere da nomadi, a mal sopportare il proprio precariato... D'ora in poi tutto deve essere più chiaro: guai agli ultimi.

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