Un'analisi sul voto sul referendum sul Welfare. Intervista al sociologo Gallino

 

Stefano Bocconetti da www.liberazione.it

E ' abituato a ragionare sui numeri, sulle statistiche. Ma qui di cifre ce ne sono ancora col contagocce. A due giorni dal referendum addirittura si discute ancora - e ad essere sinceri c'è già chi polemizza su questi ritardi - su quante persone abbiano partecipato. I risultati definitivi, quelli dettagliati su cui poter ragionare, insomma, ancora non ci sono. Così, con il professore Luciano Gallino, ordinario di sociologia a Torino - uno degli studiosi più autorevoli del settore - si prova a leggere «a grandi linee» quel che è avvenuto con la consultazione sindacale.

Allora, professore. Tutto dice che c'è stata una forte affermazione del sì. Come se la spiega?
Innanzitutto una cosa. Io credo che il protocollo del 23 luglio offra una varietà di soluzioni a problemi assai diversi fra di loro...

Le definisce "soluzioni" quelle trovate nell'intesa fra governo, sindacati e Confindustria?

Sto parlando di altro. E non vorrei essere frainteso. Se lo vuole sapere credo che i soldi destinati ai pensionati costretti al minimo siano davvero piccole somme. E penso anche che l'aumento delle indennità di disoccupazione per i precari - la cui condizione non cambierà affatto con l'approvazione di questa intesa - sia irrilevante. Soprattutto se paragonata con quella degli altri paesi europei. Non stavo però entrando nel merito dell'accordo. Mi interessava di più cogliere un aspetto più generale.

Quale?
Per farla breve. C'è stato un referendum su un unico quesito. Ai pensionati si è proposto di accettare qualche decina di euro in più. Che non sono quasi nulla ma ovviamente fanno comodo. Nello stesso tempo, ai precari si è chiesto di accettare un accordo che lascia assolutamente inalterata la loro condizione ma consente loro di avere qualcosina in più di indennità di disoccupazione. E anche questo significa qualcosa in lavoratori che magari hanno contratti di tre, quattro, cinque mesi.

Questo spiega l'affermazione del sì?
Non mi pare che possano esserci dubbi a riguardo.

E il «no»?
Che comunque non mi pare affatto irrilevante sul complesso dei lavoratori attivi...

Come lo spiega?
Con le stesse dinamiche. Chi è a contatto, chi vede, chi subisce ogni giorno un lavoro usurante non poteva accettare un'intesa che restringe questa "categoria" a solo cinquemila persone. Chi sta alla Fiat, alla Fincantieri di Napoli, alla Zanussi sa di cosa si sta parlando. E ha espresso il suo dissenso con un "no". Piuttosto evidente.

Tutto questo le serve per dire cosa?
Che un'intesa così articolata e complessa non può essere sottoposta al vaglio dei lavoratori con una scheda con una sola domanda.

Che ci sarebbe voluto?
Non spetta certo a me dirlo, ma, insomma, chiunque capisce che di quesiti ne andavano formulate almeno tre. Sugli aspetti più importanti dell'intesa del luglio scorso. Sulla soluzione trovata per lo "scalone", sui paragrafi relativi alla precarietà, sui soldi destinati alle pensioni minime.

Forse la consultazione è stata immaginata così proprio per favorire il sì. Che ne dice?
Questo non lo so. So però - come capirebbe chiunque - che la scelta del "voto in blocco" ha portato alla crescita dei sì. Ai quali si sono aggiunti i voti dei pensionati.

Resta comunque il fatto che anche fra i lavoratori dell'industria - metalmeccanici a parte - hanno prevalso i consensi all'intesa. Lei ha una chiave di lettura per questo voto?

Davvero senza dati, senza dati disaggregati, qualsiasi ipotesi è prematura. L'unica cosa che si può dire è che la storia del movimento operaio italiano ci racconta di una diversa efficacia dell'iniziativa sindacale. Che varia da fabbrica a fabbrica, da regione a regione. Ma anche - se non soprattutto - da categoria a categoria, da esperienza contrattuale ad esperienza contrattuale. In ogni caso davvero comunque mi pare di poter dire che il pezzo più rilevante del «no» viene dalle grandi fabbriche. Dalla Fiat in testa. Ed è un segnale inequivocabile.

Tradotto che significa?
Che non si può far finta di nulla. Non si può dire che il dissenso all'accordo riguarda solo il venti o il venticinque per cento del mondo del lavoro. Stiamo parlando di milioni di persone. In una consultazione dove decisivo è stato il peso quantitativo dei pensionati. Insomma, vorrei riportare tutti alla realtà: il «no» all'intesa di luglio è venuto da una categoria e da grandi fabbriche che poi, quando si tratta di fare vertenze, accordi, non pesa solo per un quinto. Pesa molto, molto di più.

Per lei, dunque, non si può parlare di isolamento dei metalmeccanici.

Non scherziamo. Sono un pezzo decisivo del movimento sindacale con cui tutti dovranno continuare a misurarsi.

Professore, ma se dovesse riassumere per qualcuno, magari per i suoi studenti, il senso di queste tre giornate di referendum, che espressioni userebbe?
Così su due piedi, e senza dati dettagliati...

Sì, così su due piedi e senza dati.
E allora diciamo così: forse questo referendum ci racconta meglio di tante altre cose quanto squilibrati siano i rapporti di forza nel mondo del lavoro.

Sta dicendo che la vittoria del sì rivela la scelta dei lavoratori di accontentarsi? Anche di poco?
In un certo senso sì.

E perché tutto questo? Hanno introiettato le sconfitte di questi anni?

No, non credo che si tratti di questo. Non credo che si tratti soprattutto di questo. Penso però che i risultati del referendum ci descrivano soprattutto un segnale di debolezza. E francamente non vedo come avrebbe potuto essere diversamente.

In che senso?
Perché tutto va in quella direzione. Perché c'è un governo che ha spinto verso un protocollo, il cui impianto è decisamente squilibrato verso gli interessi delle forze imprenditoriali. Perché nel paese, nella società, i rapporti di forza sono quelli che sono, a vantaggio delle imprese. Non lo scopro certo io. E allora, ho la sensazione che in molta parte del mondo sindacale non ci si provi neanche a tentare di ottenere di più. Ci si accontenta. E quest'atteggiamento finisce per essere accettato. Ci si limita a prendere atto dei rapporti di forza.

Comunque sia, il voto di quasi cinque milioni di persone - se almeno questo dato sarà confermato - è stata una bella prova di democrazia. Su questo è d'accordo?

La sua domanda mi fa temere che possa esserci un equivoco. Io non do affatto un giudizio negativo sul referendum. Penso, come moltissimi, che una consultazione fra i lavoratori sia meglio farla che non farla. Ma, devo essere sincero, ha anche qualcos'altro in mente quando parlo di applicazione di strumenti democratici. Penso che gli interessati debbano essere messi in grado di scegliere. Non credo, insomma, che sia un buon metodo quello del prendere o lasciare per "pacchetti". Mettendo insieme, in un'unica scheda, interventi i più disparati. Ma in ogni caso, i referendum è sempre meglio farli.


12/10/2007

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