La sinistra va ripensata fuori dai vecchi contenitori. Intervista a Bertinotti
intervista a cura di Dino Greco - Cosimo Rossi
"Purché transitoria…". Si può sintetizzare in questa esigenza dinamica
la condizione che oggi Fausto Bertinotti ritiene basilare per coltivare
la prospettiva di una forza di sinistra di classe capace di far
rivivere uno spirito critico e una connotazione "anticapitalista": "un
partito", che in vetta alla risalita dalla china di una crisi epocale
possa dichiarare e declinare "l'appartenenza alla sinistra europea".
Nel frattempo è meglio evitare formule intermedie per l'ex presidente
della camera che si cruccia di "non aver spinto in avanti nella
costruzione di un fatto unitario" sia dai tempi di Genova prima e
dell'Arcobaleno poi. Ma premunendosi di rassicurare che alle elezioni
"tutti quanti non sono Pd e non sono Idv staremo insieme". Perché non
c'è discriminante identitaria che possa essere storicamente interposta.
"Dieci anni fa avrei detto il contrario", riflette l'ex segretario di
Rifondazione. Muovendo dall'affermazione del "fallimento" dello schema
delle due sinistre, per crisi irreversibile di ambedue le ramificazioni
figlie del Novecento, quindi del tentativo durato un decennio di tenere
in vita un'idea di trasformazione che scaturisse dalla loro
"competizione/collaborazio
Recentemente sei tornato sul tema della nonviolenza, che adotti come valore assoluto oggi, qui e ora, aggiungendo che non si può essere liberi se si ammette la violenza. Bisogna quindi relativizzare il principio nonviolento? E in che modo?
Si relativizza sempre nel momento stesso in cui si parte dall'esperienza. Io sono oggi per una scelta di nonviolenza; sono perché abbia un valore politico, culturale, quasi antropologico, sebbene nell' hic et nunc di questo mondo. Ghandi, del resto, ha detto esplicitamente che, nel momento in cui non si riesca a far vivere la nonviolenza, piuttosto che accettare le iniquità e le ingiustizie è meglio ribellarsi nelle forme in cui si può. Io non tesso il valore assoluto della nonviolenza, mi interessa l'interrogarsi criticamente. Come dice Capitini, la nonviolenza non è una politica di attenuazione del conflitto, ma la necessità/possibilità di dislocare il conflitto in modo che possa esercitare tutta la sua potenzialità liberatrice. E' una forma di messa a valore del conflitto, depurato dagli elementi che possono fargli prendere la strada distruttiva.
A questo proposito penso che prima, durante e dopo Genova una generazione abbia quasi spontaneamente adottato questa pratica di lotta di massa, come avvertendo la trappola sia fisica che mentale della violenza che distrugge l'espressione delle soggettività e annichilisce le ansie di liberazione. Penso che quella fosse un'intuizione feconda, che portava in sé la critica del potere e la consapevolezza della transitorietà della vittoria. E la constatazione che al declino della politica subentra una distruttiva conflittualità dovuta anche all'affermazione di fortissime tendenze individualiste e che, in assenza di correttivi di classe e di società, investe anche le relazioni interpersonali.
Questo comporta il recupero dell'imperativo categorico kantiano in base al quale l'altro è qualcuno da trattare sempre come fine e mai come mezzo? Ovvero l'onestà intellettuale come traduzione della nonviolenza nei rapporti interpersonali e persino politici? La cosa è tanto più importante in quanto la tendenza attuale alla diaspora pare anche derivare dall'incapacità di mettere a valore qualsiasi dialettica politica tra differenze…
Non posso vantare il candore dell'innocenza in politica, ma credo che una delle cose più inquietanti di questo tempo sia proprio questa incapacità di relazione. A sinistra, poi, è incredibile questa difficoltà tra compagni, quando invece poche parole danno altrettanto conto di un bisogno di relazione e condivisione.
Tanto che confesso una nostalgia per le grandi organizzazioni che mi erano sembrate troppo coercitive e che facevano dell'introduzione di un certo tasso di ipocrisia, quello che si esprimeva nel "sì, ma" sostitutivo del dissenso, un elemento che costringeva a relazioni attive di unità.
Oggi invece, in assenza di quella temperie e col dovere di ricerca che tutti dovrebbero avere dopo una grande sconfitta, la conflittualità secondo me può solo essere messa in discussione alla radice. Penso perciò che dovremmo ragionare di più sulla nonviolenza anche come elemento critico della deriva a cui siamo giunti, a partire da due aspetti fondamentali.
Quali?
Primo: il dubbio. E cito per tutti Pietro Ingrao con l'elaborazione che a partire dall'XI congresso del Pci pone il dubbio come elemento costitutivo della ricerca. Secondo - e qui la citazione è di Rodano -: la verità interna. Cioè il fatto che dovremmo aver imparato che ogni scelta politica avviene sempre con una prevalenza di ragioni a suo favore, non con la totalità. I tanti discorsi sulla laicità stanno a zero se pensi che la tua scelta sia suffragata dal cento per cento delle ragioni. Il problema riguarda il modo di far entrare dentro il proprio schema anche una parte del ragionamento altrui attraverso la partecipazione attiva di chi dissente.
E' quella che Ingrao chiama "la concretezza polimorfa dei soggetti collettivi e la ricchezza che produce"...
E ha ragione.
E non si potrebbe chiamare più semplicemente democrazia?
Si chiama democrazia. Ma una forma attiva di democrazia.
Dico di più. Abbiamo smarrito l'insegnamento di contrastare l'avversario riconoscendone i punti di forza. Tantomeno siamo stati capaci di analizzare le forme concrete del capitalismo del nostro tempo, comprese le forme di dispotismo nella democrazia, per dirla con Toqueville, tantopiù abbiamo sostituito l'analisi con l'invettiva. Il contrario della lezione gramsciana che, di fronte all'avanzata del fordismo-taylorismo, si protende talmente nel tentativo di coglierne le verità intrinseche al punto di esserne attratto, come si legge in "Americanismo e fordismo". Ma come si fa a non vedere la nostra miseria di approccio rispetto alla grandezza incomparabile di Gramsci?
A proposito di amici e nemici, proprio il tema dell'identità è al centro di uno scontro a sinistra. Tra quanti pensano che nomi e simboli siano il luogo di tutte le virtù e quanti ritengono che siano il ricettacolo di tutti i vizi c'è spesso lo spazio di un foglio. Da una parte c'è il rischio di un sapere ossificato, dall'altra quello di una deriva subalterna. Queste due posizioni che coesistono e si contrappongono non rappresentano entrambe una condizione di impotenza?
A meno di voler continuare un gioco di società all'interno della sinistra, dovremmo sapere che l'identità è una delle parole meno facilmente maneggiabili: perché non ha a che fare con quel che pensi di te medesimo, ma con la storia e la tua leggibilità nella storia, sia essa storia di classe, di nazione, di partito. Quindi, secondo me, bisognerebbe sospendere le ostilità e dire che riusciremo a parlare della nostra identità quando saremo risaliti da questa sconfitta storica. Certo, mi piacerebbe poter dire come vorremmo poterci definire un domani dalla risalita e, a costo di essere minimalista, credo francamente che mi piacerebbe dire che siamo appartenenti al campo della sinistra europea. Mi piacerebbe perché sono due termini che oggi non dicono nulla, perché l'Europa è malata e la sinistra sta peggio, ma che possono rappresentare il terreno di una risalita.
A proposito di sconfitte e risalite tu, personalmente, non hai niente da rimproverarti per la scissione che è avvenuta? Pensi di aver fatto il possibile per impedirla? Oppure ritieni che fosse inevitabile?
Se c'è qualcosa che non è stata toccata da quel che è accaduto negli ultimi tempi è il mio coinvolgimento affettivo in quella comunità di donne e di uomini che è il Prc: quello è il mio popolo. Quindi la mia difficoltà a rispondere non è politica ma soprattutto umana. Però negli anni ho anche imparato a non assecondare il consenso del popolo amato, ma semmai ad andare contropelo. Credo quindi di dare una risposta che è grossomodo il contrario di quella che ci si potrebbe attendere.
Cioè?
Penso sì di avere una qualche dose di responsabilità, ma nel senso di non essere andato più avanti di quanto non si fosse già fatto nei senso dell'apertura e della messa in discussione della pur affascinante e grande eredità di cui abbiamo vissuto. In altre parole, penso che la divisione non sia stata originata da uno spirito di scissione, ma piuttosto dalla mancanza di un orizzonte più largo. E in questo senso i passaggi che vivo criticamente sono due. Il primo è a ridosso di Genova, quando pure abbiamo fatto scelte e innovazioni importanti, ma forse occorreva decidere allora di fare la grande apertura e rompere lo schema del Prc per tentare la strada di una nuova costruzione. Là abbiamo incorporato un piombo nelle ali.
Nient'altro?
Il non aver detto "è morto il re, viva il re" dopo la sconfitta con l'Arcobaleno. Cioè non aver detto con durezza che malgrado la sconfitta bisognava andare avanti, perché quello era l'unico antidoto possibile a ciò che è successo dopo, cioè alla messa in discussione e alla liquidazione dell'ultimo tentativo di esperienza unitaria. Perché faccio notare che all'interno del Prc nessuno aveva obiettato all'Arcobaleno, il che significa che era proprio maturo, nonostante si venisse da un'esperienza di governo che ci aveva massacrati. Bisognava quindi salvare quell'intenzione unitaria, che era l'ultima chance. Senza quella, infatti, ci si è trovati privi di ombrello e rotti in mille pezzi. Quindi se mi rimprovero qualcosa è precisamente di non aver spinto in avanti nella costruzione di un fatto unitario.
E oggi?
Oggi penso addirittura che neanche quello basti più. E che si debba avere un orizzonte ancora più largo e più unitario per impedire che lo spirito di scissione sopravvenga banalmente, ovvero ritagliando spazi nella geografia predeterminata: ognuno nel suo spicchio neanche più garantito ma sicuramente impotente.
Ma dopo Chianciano non sarebbe stato più utile anche a una prospettiva unitaria tenere insieme tutti i pezzi del Prc?
Una volta scelto di non difendere l'Arcobaleno, è lì che si produce la scissione. Rifondazione poteva vivere e crescere solo nell'esperienza unitaria. Nel momento in cui invece rinunci sei costretto a retrodatarti in qualcosa che non è più il Prc, il ripiegamento nel partito in sé rappresentava già una scissione dalla Rifondazione.
Oggi tu sostieni l'esigenza di provare "a disconnettere e riconnettere", guardando all'ipotesi di un partito "non interclassista", cioè dalle radici legate al lavoro, che recuperi al proprio interno spirito critico e una forte connotazione anticapitalista. Ma la prospettiva politica di Sinistra e libertà in questo momento non si trova distante da questa tua indicazione e piuttosto incline al Pd? La separazione dal ceppo comune non rischia di provocare una deriva moderata dove non trovi più nulla?
L'assunto da cui muove quella proposta è il fallimento delle due sinistre. Credo si stia lavorando a elaborare il fallimento della sinistra radicale. Penso però che ci sia una colpevole omissione nel riconoscere il fallimento della componente moderata maggioritaria. Fatto sta che l'ipotesi a cui si è lavorato in Europa negli ultimi anni, quella delle due sinistre, è impercorribile in quanto interna ad una crisi di fondo che riguarda le sinistre europee di origine novecentesca siano esse comuniste, socialiste, socialdemocratiche, laburiste. Queste formazioni e culture vivono tutte una crisi storica. Perciò penso che oggi non ci sia altra possibilità che lavorare alla costruzione di una sinistra che torni ad essere protagonista della vita sociale di ciascun Paese e dell'Europa nel suo insieme. Per protagonista intendo capace di incidere nei processi reali, di intervenire nelle politiche statuali, di organizzare conflitti, di interagire con altre forze, di realizzare iniziativa, di mobilitare forze intellettuali. E non vedo come si possa pensare di farlo in queste condizioni con qualche aggiustamento.
Consideriamo poi che, oltre all'astensione, le uniche forze che hanno capacità attrattiva sono quelle populiste. E se flette la più grande operazione populista rappresentata da Berlusconi comunque crescono Lega e Idv. Quindi il problema è non solo di rappresentanza. E' più grande, è quello di incidere nella formazione del senso comune. E se non hai una grande potenza democratica l'incidenza nel senso comune non si produce, le chiacchiere stanno a zero. Il Pd è assente perché aderisce a quel modello populista. La mia opinione, quindi, è che bisogna evitare scorciatoie tranquillizzanti che non portano a niente. Perciò ho votato Sinistra e libertà: perché mi sembrava la formazione più transitoria.
Ma rispetto al partito di sinistra che tu stesso prospetti, non ti pare che questo percorso possa portare a un approdo dentro il Pd con l'illusione di fare massa critica e condizionare dall'interno quel partito?
Il motivo per cui Sinistra e libertà continua a interessarmi è che non sceglie di diventare partito. Per me oggi è bene tutto ciò che si declina come provvisorio e che non viene considerato come un contenitore di lungo periodo. Il contrario di quel che avrei detto fino a dieci anni fa.
Perché? Perché penso al big bang, alla messa in discussione, al fatto che tutte le occasioni sono buone da sfruttare.
Insomma non vedi il pericolo di confluenza subalterna nel Pd?
Chi ha una storia lunga come la mia, ha delle impossibilità di frequentazione. Se chiedono a me se andrei nel Pd, la risposta è no. Ma ragioniamo sugli altri, su ragazzi di vent'anni, su persone che cercano di impegnarsi. Mi capita tutti i giorni di parlare di politica con conoscenti o estranei. Ed è veramente raro che qualcuno mi racconti che nella formazione in cui milita si discute della mobilitazione sulla crisi, della mappa delle fabbriche su cui indagare, della ricostruzione di un intervento sulla scuola, della riapertura di un circuito con i migranti. Anche quelli impegnati nella sinistra mi dicono tutti che ci saranno le elezioni regionali a primavera e bisogna che ci organizziamo in modo da essere presenti. Perché questo sta diventando la politica: rappresentazione. E' persino paradossale: nel momento in cui le sinistre sono più deboli nella rappresentazione sembrano scegliere proprio la rappresentazione come unica forma di esistenza. E finalizzare tutto a quello, finendo per definire le aggregazioni non in funzione di cosa succede nella società, ma in funzione di cosa succede rispetto alle elezioni. In queste condizioni io cosa vedo? Vedo una forte capacità di attrazione dell'Idv. Il mio dissenso di impianto dall'Idv è totale, ma vorrei si provasse a capire laicamente qual è la sua forza di attrazione se di volta in volta catalizza compagni impegnati socialmente, intellettuali di spicco, insospettabili ambienti organicamente del Pd. E lo stesso vale per il Pd, se una persona come Sofri incita a non perdere il treno oppure comincia una discussione sulla doppia tessera sostenuta anche da una persona come Franco Marini. Io non sono per nulla attratto, ma vedo quel che succede: vedo il rischio che, indipendentemente dal grado di attrazione politica, il Pd possa persino peggiorare di gran lunga ma attrarre ugualmente come contenitore e luogo di rappresentazione, per cui le persone ci vanno. E allora devo capire che le sinistre radicali e di alternativa sono a rischio di una marginalizzazione brutale se non riescono a cambiare giochi. E per cambiare giochi bisogna intervenire nei corpi grandi. Non entrare, ma intervenire: nel congresso della Cgil, in quello del Pd, in quello dell'Idv. Bisogna fare un vero e proprio corpo a corpo che consenta a delle forze di mettersi in gioco.
Ma questo è veramente possibile solo a partire da una posizione di autonomia…
La mia risposta è che, dovunque tu stia, il problema è se lavori a quella prospettiva oppure no, perché non è il contenitore che ti dà l'autonomia. La mia ipotesi è che all'interno di ognuna di queste forze si faccia la mappa delle energie disponibili a rimettersi in movimento. E' una specie di seconda tessera immaginaria: come se mi dessi la tessera del partito unitario della sinistra che voglio costruire. E' quello la mia stella polare. Perciò penso che sia buono quel che si considera transitorio.
Proprio sabato scorso Rifondazione, Pdci, Socialismo 2000 e diverse personalità hanno invece lanciato la proposta di una federazione di forze della sinistra che sulla carta risponde al profilo che tu stesso tratteggiavi. Cosa ne pensi?
Faccio un po' fatica a intervenire perché mi sono ripromesso di non farlo e perché si tratta di persone di cui ho stima e rispetto. Ma mi pare che rischi di essere un campo di forze più ristretto della vecchia Rifondazione comunista. Sono fuori settori intellettuali e del lavoro; ambienti, collaborazioni e amicizie importanti; persino una parte di chi aveva fatto appello al voto per la lista. Secondo me è sbagliato lo schema, come credo di aver già spiegato: per lo stesso motivo per cui sono contrario a che Sinistra e libertà diventi un partito, dubito della federazione. Meglio sciolti.
Ma tu stesso ti proponi l'unità non la divisione…
Certamente. Non sappiamo che dinamica produrrà crisi; non sappiamo se governo in questa struttura e composizione reggerà l'autunno se andiamo ad una crisi addirittura istituzionale. Non sappiamo se è possibile persino che si verifichi una proposta di mini/grande coalizione con le forze populiste all'opposizione e il rischio di spappolamento generale. Di fronte a tutto questo l'unica domanda riguarda come si andrà alle elezioni e tutti pensando a qualche tipo di alleanza. Allora non val meglio dire che comunque si arrivi alle elezioni ci si metterà insieme? Che coloro che sono alla sinistra del Pd e non sono dell'Idv staranno insieme? Una volta dato questo ombrello e rassicurata la nostra gente, si potrà così spostare la discussione a occuparsi delle questioni di massima. Bisognerebbe avvertire tutti a dare questa semplice rassicurazione, altrimenti l'astensione rischia di dilagare e sommergerci ancora alle regionali.
Parliamo ora di contenuti, di innovazione culturale e politica. Uno dei limiti della strategia della sinistra è quello di non essere mai stata capace di superare la dimensione della redistribuzione della ricchezza. Detto oggi sembra un paradosso, vista la difficoltà a fare anche questo. Tuttavia il tema della critica della produzione non può continuare a essere derubricato, pena appunto l'ininfluenza politica della sinistra. Com'è che, secondo te, il lavoro torna a intervenire?
Penso proprio che qui casca l'asino, perché tra i molti problemi che abbiamo nella ricostruzione della sinistra questo tema è fondamentale. La questione del rapporto tra lavoro, economia e organizzazione sociale torna infatti come elemento paradigmatico della contesa. Dimmi come è distribuito il salario e ti dico com'è organizzata la società. Nel 1976 avevamo le retribuzioni più alte d'Europa, nel 2009 siamo agli ultimi posti. Vuol dire che c'è un caso italiano al rovescio di come l'avevamo costruito negli anni 70 e che interroga sinistra e sindacato.
La questione del salario secondo me merita una discussione più approfondita di quella che circola. Può darsi ci sia stato un vizio nel non essere andati oltre la dimensione redistributiva. Ma un conto è avere un'autonoma idea della dinamica salariale da parte della sinistra e una sovranità salariale da parte del sindacato. Un altro è fare invece del salario una variabile dipendente.
Il punto primo è come mettiamo in discussione questo elemento. Cioè: bisogna smettere di pensare che l'unica forma di intervento possibile siano le politiche fiscali. Che sono necessarie. Ma questo non toglie il fatto che rimane un problema di rapporto tra salario e profitto che non può essere derubricato.
Per il fatto che il salario è un rapporto tra lavoro e capitale, non tra lavoro e fiscalità generale...
Appunto. D'altra parte veniamo da una storia in cui a volte, non sempre, tale questione è stata presa e posta sul serio da autorevolissimi esponenti di organizzazioni del movimento operaio.
La politica contrattuale copriva l'intero arco delle politiche e della distribuzione dei salari, oggi ci troviamo di fronte a un ulteriore problema che non possiamo più scavalcare. Data la diversa composizione di classe e sociale del lavoro, una ritrovata autonomia rivendicativa sul salario non è più in grado da sola di coprire l'intera questione redistributiva anche all'interno della compagine lavorativa. La questione di un intervento legislativo sul reddito, in particolare delle fasce di lavoro inoccupato, disoccupato e precario, non è quindi più rinviabile.
C'è, inoltre, un altro elemento: il rapporto con il fine e l'organizzazione del potere e della proprietà. E qui c'è un problema gigantesco che secondo me si chiama occupazione, piena e buona occupazione. Come diceva Riccardo Lombardi in un'intervista del 1976: «Oggi l'occupazione, il salario, tutto viene giustificato e organizzato in funzione della compatibilità con altri elementi: la bilancia dei pagamenti, la moneta, il profitto. Bisogna invertire i criteri; fare della piena occupazione la variabile indipendente. Saranno le altri variabili a doversi rendere compatibili con la piena occupazione».
Questo secondo me è un elemento fondativo di un nuovo programma di politica economica delle sinistre in Europa. Se non si comincia con questo piede ogni cosa perde significato e corpo: la riconversione ecologica, le forme di lavoro extramercantili, le forme di nuovo consumo. Senza questo c'è il nulla.
L'altro punto chiave è l'ecologia. Spesso gli economisti di sinistra soffrono una sorta di incapacità a uscire da una griglia teorica per cui lo sviluppo delle forze produttive è la sola condizione per arrivare a mettere in discussione i rapporti di produzione, mentre l'ambientalismo è ancora visto come una specie di cultura minore, perché propone contraddizioni che si risolvono solo a valle di quella tra capitale e lavoro…
Se finora abbiamo detto di argomenti che si potrebbero affrontare a sinistra contando sulle proprie forze, quella ambientale è invece una delle questioni fondamentali da risolvere in avanti. Il rapporto tra uomo e natura chiede un salto di qualità nella ricostruzione teorica di un paradigma della liberazione e della trasformazione.
Occorre proprio un'idea di riprogettazione del rapporto tra l'uomo, la sua vita e la natura che cambi l'economia. E secondo me tra quelli che ci sono andati più vicini c'è un pensatore come Napoleoni: in lui c'è l'idea che Marx è colui che ci ha dato più strumenti, non solo di critica dell'economia, ma per avvicinarci a questa idea della trasformazione attraverso il processo di liberazione e emancipazione delle classi subalterne. Su questa base ti consente di assumere in termini diversi il tema del rapporto con la natura. Non siamo totalmente privi di bagaglio e anche di esperienze in materia, ma certamente c'è ancora un grande cammino da fare. Io insisto sul fatto che la piena e buona occupazione e un diverso rapporto tra economia e natura o entrano in un circuito virtuoso oppure non hanno modo di prodursi nessuno dei due. Se rimaniamo dentro all'idea dello sviluppo forze produttive, anche con la riappropriazione della critica di classe, per come si è riorganizzato il capitalismo con la sua capacità innovativa non ce la possiamo fare, perché non riusciamo a riorganizzare le forze in grado di produrre criticità.
da www.liberazione.it
22/07/2009
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