LA QUESTIONE MORALE
La questione morale
e la diversità comunista
Imma Barbarossa
Penso che abbia fatto bene Paolo Persichetti (Liberazione, 28 agosto), nel trattare la questione Penati, ad allargare il discorso sulla corruzione che attraversa anche il centrosinistra e finisce con l'impregnare quello che nella vulgata viene ancora presentato come il partito erede o semierede del Pci, in questo caso erede trattandosi proprio di un ex Pci, di un ex amministratore di una roccaforte del Pci come Sesto San Giovanni. Era giusto allargare il discorso e andare indietro. Non si tratta, infatti, semplicemente di un «mariuolo» - per utilizzare il termine che usò Craxi a proposito della vicenda del Pio Trivulzio - anche se ovviamente il singolo mariuolo ha diritto alla presunzione di innocenza. Né si tratta dei "soliti milanesi" delle tangenti della metropolitana, impregnati di senso degli affari o delle attivissime ed efficienti cooperative emiliane diventate vere e proprie aziende quotate in borsa.
Si tratta di qualcosa di più profondo e di più allarmante, che attiene direttamente al nesso etica/politica. Ma credo che Persichetti sbagli nel trattare la questione della "diversità comunista" in maniera semplicistica e con una punta di qualunquismo che affiora anche nell'uso del linguaggio. Tanto più che dal qualunquismo oggigiorno siamo soffocati.
Procedo con ordine: nell'articolo si sostiene che, fallita l'ipotesi del compromesso storico nel 1979 (devo dedurre: fallita l'ipotesi dell'abbraccio con la Dc?), Enrico Berlinguer si rifugiò nell'etica come in una «barricata ideologica residuale», ossia nella "diversità comunista" che a questo punto viene presentata come un mezzuccio per prendere le distanze da Craxi e dai mariuoli (presenti e futuri).
Inoltre si afferma che, finiti i rubli dell'Unione Sovietica, i dirigenti del Pci si rivolsero ai capitalisti nostrani per finanziare l'attività politica del partito che, mi sembra di capire, non era più il Pci. All'epoca i dirigenti nazionali si sarebbero salvati perché il "compagno G." (Primo Greganti) «tenne botta» e la magistratura evitò di andare fino in fondo (ah, la categoria dei giudici comunisti è proprio eterna!).
Certo, liquidare la "diversità comunista" come una sorta di autosufficienza finanziaria del Pci (non rubavano perché avevano i rubli sovietici) è una ipotesi originale. Fa scempio di quello che era un costume di vero e proprio rigore della "base" comunista: personalmente come iscritta e dirigente della Federazione comunista di Bari ricordo un provvedimento di espulsione nei confronti di un segretario di Camera del Lavoro, iscritto al partito, che aveva accettato dei regali dalle lavoratrici; ricordo che noi parlamentari avevamo uno stipendio pari ai segretari di federazione e al V livello di Mirafiori, e il resto serviva a finanziare le campagne elettorali; ricordo che c'era una regola ferrea contro manifesti e volantini di propaganda personale etc. etc. Ma questo può sembrare retorica e orgoglio nostalgico.
Va fatta invece la critica al Pci, alla sua crisi teorica e politica, perché non siamo stati capaci di farne un elemento di discussione politica. E qui il discorso di Persichetti (che non è solo suo, giacché è abbastanza diffuso) va ribaltato. Il Pci non riuscì a fare un'analisi di quella ristrutturazione capitalistica che si stava avviando, di quella omologazione sociale che sarebbe precipitata verso il conformismo di massa, di quella concentrazione oligarchica dei poteri che avrebbe dato adito alla devastazione sociale di cui vediamo oggi le drammatiche conseguenze.
Il Pci si avviò verso la difesa delle istituzioni, ad oltranza, identificandole con il cuore della democrazia, presidiandole durante gli anni della "solidarietà nazionale" dopo la tragica vicenda di Aldo Moro, non accorgendosi che le istituzioni si stavano progressivamente svuotando di senso, di partecipazione, di potere democratico. La diversità comunista (penso alla oggi tanto citata intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari appunto del 1981) fu il tentativo disperato (nobilmente disperato) di costruire o ricostruire l'autonomia sociale, culturale, simbolica della parte della società italiana (il paese nel paese, per dirla con Pasolini) che era stata protagonista dei movimenti degli anni Settanta, gli operai, gli studenti, le donne. La scelta di impegnare il partito nei referendum su divorzio e aborto fu una "forzatura" di Berlinguer sul gruppo dirigente, come pure l'opposizione decisa ai quattro punti di scala mobile fu una "forzatura" sul gruppo dirigente della Cgil (la storia si ripete al contrario!) e… del partito.
Al Pci, e anche a Berlinguer, mancò in maniera devastante, la comprensione del '68, di quella politicizzazione della vita quotidiana e di quella politica diffusa; al Pci mancò la comprensione piena della politicità dei movimenti. La storia si può fare anche con i se, non serve stabilire continuismi e usare categorie semplificatorie.
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