PER UNA NUOVA RESISTENZA

Marco Albeltaro

Per una nuova Resistenza

 

Ho pensato a lungo a cosa dire oggi. Se fare un discorso, per così dire, istituzionale, equanime; oppure un intervento militante.

Dovete avere pazienza, ma io i discorsi istituzionali non li so fare, e quindi inizio così: care compagne e cari compagni, care amiche e cari amici, oggi, 25 aprile 2013, in questo Paese, negli strati più larghi della sua popolazione e nella sua classe politica, dei valori morali, etici e politici della Resistenza e dell’antifascismo non è rimasto nulla.

Mi sono preso la briga di leggere gli statuti dei partiti che oggi siedono in parlamento per verificare quanti avessero un richiamo ai valori dell’antifascismo e della Resistenza. Il risultato è disarmante: non ce l’ha il PDL, non ce l’ha la Lega – ma questo mi pare ovvio, trattandosi in entrambi i casi di partiti antidemocratici – non ce l’ha il partitino di Monti, ma ciò che è più grave, ed è un fatto che va denunciato con forza, è che nemmeno il partito democratico ha, nel proprio statuto, un richiamo all’antifascismo e alla Resistenza. È un fatto di gravità inaudita. Ma questo non significa che non vi siano militanti sinceramente e attivamente antifascisti, anzi, ce ne sono molti. E quindi io mi rivolgo loro e gli dico: fate qualcosa, almeno voi, fate sentire la vostra voce perché l’antifascismo non è un valore statico, fermo, ma è un valore attivo, propositivo. Ce l’ha SEL il richiamo all’antifascismo – due parole – ma ha un peso assolutamente marginale. Grillo nemmeno ce l’ha lo statuto, e poi nei toni, nei modi e in alcuni contenuti non solo non sembra in alcun modo appartenere al campo antifascista ma anzi, alcuni suoi discorsi sono sovrapponibili a quelli non di Mussolini, ma di Hitler. Eppure a delle forze politiche che non si ispirano all’antifascismo dovrebbe essere perfino proibito l’ingresso in parlamento, il presentarsi alle elezioni.

L’antifascismo non è più un valore per l’attuale classe politica. E questo è un risultato del fatto che l’antifascismo non è mai divenuto il paradigma identitario del nostro Paese. Già all’indomani della Liberazione c’era chi aveva capito che nel paese si stavano muovendo i poteri forti per far sì che le spinte al rinnovamento provenienti dalla Resistenza fossero presto messe a tacere, imbrigliate da chi voleva nascondere, sotto la retorica della normalizzazione, la disperata voglia di tornare all’Italia pre-fascista, senza cambiare nulla, senza una vera democratizzazione del Paese. L’aveva detto Ferruccio Parri, il Presidente del consiglio della Resistenza: «La verità», scriveva Parri, «è che, nonostante la Liberazione, l’Italia non era cambiata, era rimasta, in larga parte, lo stesso paese fascista dei vent’anni precedenti». E possiamo dargli torto? Prima l’egemonia democristiana, poi il craxismo, poi il berlusconismo…

La Resistenza ha perso, è stata sconfitta. Noi abbiamo perso. La Resistenza ha avuto una vittoria militare ma non una vittoria piena sul piano politico. Alcuni risultati hanno avuto un peso straordinario, certo. Se non ci fosse stata la Resistenza non avremmo la Repubblica, non avremmo la nostra Costituzione. Ma quanto di quella costituzione è stato davvero applicato?

È un paese uscito dalla Resistenza quello che avalla le politiche di Marchionne? È un paese antifascista quello in cui un territorio come la Val di Susa viene militarizzato per costruire la TAV? È un paese nato dalla Resistenza quello che privatizza tutto – tutto – la sanità, i trasporti, la scuola, l’università, i beni comuni? È un paese antifascista quello in cui le forze dell’ordine massacrano Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi? In cui Andreotti è senatore a vita? In cui si celebra l’avvocato Agnelli, a dieci anni dalla morte, come se si trattasse di un santo? E non dell’Agnelli dei reparti confino, dei licenziamenti per rappresaglia? In cui se si individua l’esistenza di una possibile trattativa tra Stato e mafia si distruggono le intercettazioni, invece di renderle pubbliche?

Questi paradossi, questa ingiustizie, derivano da un cortocircuito, anzi da un problema vero e proprio.

Il problema è che Resistenza e antifascismo significano innanzitutto lotta, significano innanzitutto conflitto. E la parola conflitto è stata cancellata dal linguaggio della politica, in favore della retorica della concertazione. Dal conflitto dobbiamo ripartire oggi, noi antifascisti, per ricostruire un’egemonia culturale e politica nel Paese. Dobbiamo ripartire dalla nettezza delle nostre posizioni, dobbiamo ripartire dal rifiuto del compromesso. Dobbiamo avere il coraggio di indagare la Resistenza sul piano storiografico – ed è stato fatto molto bene e molto prima che arrivasse Giampaolo Pansa – ma le nostre indagini storiografiche, il nostro immergere le mani anche nei nodi più scottanti e controversi della Resistenza, non ci devono impedire di rivendicare ogni singolo colpo sparato dai partigiani per liberare l’Italia dal nazifascismo.

Perché le ragioni dei ragazzi di Salò, come li ha chiamati Luciano Violante in un discorso che sarebbe meglio dimenticare, vanno certo indagate sul piano storiografico, ma vanno nettamente e risolutamente respinte sul piano politico. È vero, come ci ha raccontato Italo Calvino, che bastava pochissimo, dopo l’8 settembre, per trovarsi da una parte o dall’altra. Si trattava spesso di casualità, di eventi fortuiti, ma poi, una volta fatta la scelta, si apriva un abisso incolmabile fra chi aveva deciso di diventare partigiano e chi si era schierato – anche indipendentemente dalle motivazioni – dalla parte del nazi-fascismo. E quello era un abisso non soltanto esistenziale e politico, ma etico e morale.

La storia dà torto o dà ragione, canta De Gregori. E mai come nel caso della Resistenza questi versi sono appropriati. Perché in questo relativismo storiografico imperante, si finisce per perdere la bussola, per non capire più nemmeno chi stava dalla parte giusta.

Ma basta farsi una domanda, anzi, fare una domanda ai vari pennivendoli revisionisti. La stessa domanda che fece Norberto Bobbio a Renzo De Felice durante un famoso dibattito: E se avessero vinto loro? Se avessero vinto i fascisti alleati di Hitler? Sarebbe stata la stessa cosa?

E per ricordare costantemente questa domanda dobbiamo ridare dignità politica alla storia e al lavoro storiografico. La storia non è opinionismo, e quando si parla di storia non è consentito esprimere le opinioni come se si stesse in un salotto televisivo. Perché la storia è ricerca, è sforzo interpretativo, ma soprattutto è ricerca sui fatti, su cosa è veramente accaduto.

Ciò che oggi tocca a noi fare, è calare la realtà della lotta clandestina, dell’antifascismo e della Resistenza sulla realtà culturale di oggi. Dovremmo non tanto celebrare pomposamente con bandiere e gonfaloni e poi fregarsene per il resto dell’anno. Dovremmo imparare a far capire ai più giovani cosa è stata la Resistenza per le vite di tante donne e uomini in carne ed ossa, che hanno deciso di lasciare le loro case, i loro affetti, i loro lavori, i loro amori scegliendo di andare in montagna, di armarsi e di fare la guerra contro un esercito più forte, più addestrato, meglio armato. Perché i partigiani quando hanno scelto di partecipare alla guerra non sapevano di vincere. E si sono gettati nella mischia, hanno messo la proprio individualità, la propria soggettività al servizio di un’idea di libertà. Che è anche un’idea di democrazia.

La vita dei partigiani è ciò che dobbiamo raccontare prima delle loro stesse idee, perché i partigiani non sono solo quelli che le foto del dopo 25 aprile ci hanno restituito. Quei giovani belli e felici che marciano per le vie delle città in festa. I partigiani sono quelli torturati, uccisi e incarcerati dai fascisti, sono quelli morti in montagna per malattie dovute alle condizioni di vita, sono quelli con le mani e i piedi congelati dagli inverni rigidi, sono quelli mutilati, feriti in combattimento, sono quelli consegnati nelle mani dell’esercito nazi-fascista dalle spie e dai delatori, sono quelli impiccati ai pali del telegrafo, i cui cadaveri rimanevano esposti per giorni, per spaventare la popolazione.

I partigiani sono stati donne e uomini coraggiosi, che stavano dalla parte giusta. E ancor più coraggiosi perché erano pochi, sia rispetto ai fascisti e ai nazisti, che rispetto al resto della popolazione. Perché la Resistenza – bisogna dirlo – non fu mai un movimento di massa. Fu l’azione di piccoli drappelli di donne e uomini che, progressivamente – e sottolineo progressivamente – godettero di un consenso di massa.

E proprio questo fatto dell’esiguità delle forze partigiane si collega, in qualche modo, con ciò che dicevo all’inizio. Ed è un esponente del Partito d’azione, a darci una chiave di lettura importante proprio della voglia diffusa di archiviare al più presto la Resistenza, di fare finta che nulla fosse successo e di tornare alla rassicurante vita dello Stato pre-fascista. Si tratta di Giorgio Agosti che, in una lettera del 1947, scrive: «Il nostro errore psicologico è stato nel credere che la gran massa degli italiani dovesse guardare con riconoscenza quei pochi che avevan preso l’iniziativa della riscossa e se ne erano addossati, nell’interesse di tutti, il peso più duro e tragico. E non abbiam capito che è proprio l’aver agito quando gli altri scappavano o si nascondevano, ciò che milioni di attendisti non ci perdonano: la Resistenza sottolinea, per contrasto, il collaborazionismo, la viltà, la pigrizia. Dietro alla politica della pacificazione non c’è soltanto il proposito subdolo dei vecchi fascisti, ma c’è il desiderio della grandissima maggioranza degli italiani di dimenticare, di metter tutti sullo stesso piano, di ridurre a pura fazione politica quella che è stata soprattutto una rivoluzione morale». Questa amara notazione di Agosti ci mette davanti alla realtà di un paese nel quale non è stato il fascismo ad essere una parentesi, ma l’antifascismo. Perché, come ci ha insegnato Piero Gobetti, è il fascismo l’autobiografia della nazione italiana.

Se quelle che pronunciato oggi sono parole amare, non sono però parole rassegnate. Quello di cui abbiamo bisogno oggi, quello in cui tutti dobbiamo impegnarci, ciò che noi dobbiamo costruire è una nuova Resistenza. Una Resistenza che non impiega più le armi, ma che usa la ragione. Che rivendica i valori dell’antifascismo, che è antifascista. Che chiede l’applicazione della Costituzione e non la sua riforma. Che lotta per l’applicazione della Costituzione. Che rivendica il conflitto. Che pratica il conflitto.

Che rivendica il diritto alla storia come uno dei diritti fondamentali dell’umanità, contro le retoriche, contro le menzogne dei potenti e dei potentati.

Il nostro antifascismo deve essere un antifascismo militante, che ricostruisca un senso comune antifascista. La nostra, quindi, deve essere la lotta per una nuova Resistenza, ricuperando la storia della Resistenza, delle sue idee, le storie delle donne e degli uomini che l’hanno combattuta. Solo così avremo onorato il sacrificio di chi ha combattuto per la libertà, per la sua e per la nostra libertà. Oggi non possiamo non essere partigiani, tutti noi. E quindi: Avanti! Siamo ribelli!