RIFORMA TITOLO V
La riforma del Titolo V della Costituzione non è né moderna né efficiente
Pubblicato il 7 ott 2016
di Enzo Di Salvatore*
I fautori della riforma costituzionale sostengono che il prossimo 4 dicembre occorra votare Sì al referendum per rendere più moderno, veloce ed efficiente il “sistema paese”.
La riforma, in verità, fa piazza pulita di ogni idea federalista e colpisce al cuore la tradizione regionalista italiana, imprimendo al sistema delle relazioni tra lo Stato e gli enti territoriali una svolta centralista. Sarebbe questa la modernità? È come se qualcuno ci proponesse di tornare allo Statuto albertino: a chi verrebbe in mente di sostenere che in questo caso l’Italia sarebbe più moderna? Si dirà che il ritorno al vecchio sia, però, giustificato dalla necessità di conferire al sistema velocità ed efficienza. Magari sacrificando la democrazia territoriale. Ma questo è ancora da verificare.
Con la riforma si riscrive l’art. 117 della Costituzione e si cancella l’attuale potestà legislativa “concorrente”, in base alla quale lo Stato è competente a formulare i principi fondamentali della materia e la Regione è competente a varare la normativa di dettaglio. Detto diversamente: per molte materie, la Costituzione dice oggi che lo Stato e le Regioni fanno le leggi assieme. La riforma individua una soluzione diversa: lo Stato è competente in via esclusiva su alcune materie (espressamente elencate); le Regioni sono competenti per altre materie (espressamente elencate). E tutto quello che non è espressamente riservato alla competenza esclusiva dello Stato, spetta – almeno in via di principio – alle Regioni.
I sostenitori del Sì sostengono che la riscrittura di questa parte della Costituzione porterà finalmente una ventata di chiarezza su ciò che è dello Stato e su ciò che è delle Regioni. In questo modo, lo Stato e le Regioni smetteranno di “litigare” e di rivolgersi alla Corte costituzionale perché sciolga i problemi di competenza: il contenzioso si ridurrà.
Il punto, però, è che il vento della chiarezza non spirerà affatto: il nuovo riparto della competenza alimenterà, al contrario, una maggiore conflittualità tra lo Stato e le Regioni. Per più motivi. Intanto perché è fisiologico che ogni riscrittura del riparto della competenza tra lo Stato e le Regioni sollevi problemi di definizione tra ciò che debba spettare al primo e ciò che debba spettare ai secondi: per quattordici anni – successivi alla riforma costituzionale del 2001 – la Corte costituzionale si è trovata costretta a definire i confini di quello che spettasse allo Stato e alle Regioni. Se cambierà il quadro costituzionale, attraverso l’introduzione di nuove materie e nuovi oggetti oppure attraverso una diversa denominazione delle vecchie materie e dei vecchi oggetti, occorrerà ricominciare praticamente da capo.
In secondo luogo, non è vero che la riforma delinea in modo netto il confine tra l’ambito di competenza dello Stato e l’ambito di competenza delle Regioni. In molti casi questo confine è assolutamente confuso: si pensi, solo per fare un esempio, alla tutela della salute, che oggi è attribuita alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni e che domani, se entrerà in vigore la riforma, sarà affidata alla competenza esclusiva dello Stato. Ebbene, se si va a leggere il testo della riforma si scopre che sulla tutela della salute lo Stato è competente a legiferare solo in ordine alle “disposizioni generali e comuni”. Con la conseguenza che ciò che non sia riconducibile a “disposizioni” che siano “generali e comuni” spetterà alle Regioni.
Nella sostanza si tornerà alla competenza concorrente: e però a una competenza concorrente che sostituisce l’accoppiata “principi fondamentali/normativa di dettaglio” con l’accoppiata “disposizioni generali e comuni/disposizioni non generali e non comuni”. Un problema che non riguarderà solo la materia della tutela della salute, bensì molte altre materie o oggetti: le politiche sociali, la sicurezza alimentare, l’istruzione, la formazione professionale, le forme associative dei comuni (ma qui la riforma si esprime con la locuzione “disposizioni di principio”), le attività culturali, il turismo, il governo del territorio. Su tutto – sulla chiarezza che non c’è – non potrà che pronunciarsi la Corte costituzionale.
Ma c’è di più. In alcuni casi, la competenza dello Stato e quella delle Regioni rischiano addirittura di sovrapporsi: si pensi al governo del territorio (di competenza dello Stato) e alla pianificazione del territorio regionale (di competenza delle Regioni; alle infrastrutture strategiche (di competenza dello Stato) e alla dotazione infrastrutturale (di competenza delle Regioni); alla tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici (di competenza dello Stato) e alla promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici (di competenza delle Regioni). E così via. Ebbene, anche in questi casi il vento della confusione dovrà essere fermato dalla Corte costituzionale.
La riforma introduce, poi, una “clausola di supremazia” (ma si tratta di una qualificazione impropria), con la quale si stabilisce che, su proposta del governo, il parlamento potrà esercitare la competenza legislativa in luogo delle Regioni, ossia “espropriare” una materia che la Costituzione attribuisce alle Regioni. Si badi: ogni materia, nessuna esclusa. Sia quelle espressamente elencate (come l’autonomia delle istituzioni scolastiche, i servizi scolastici, la valorizzazione e l’organizzazione regionale del turismo, la promozione dei beni ambientali, ecc.), sia quelle non espressamente elencate, ma implicitamente attribuite alle Regioni (come ad es. l’agricoltura). Quando sarà possibile “espropriare” la competenza delle Regioni? Lo dice il testo della riforma: “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica” o “l’interesse nazionale”.
È chiara questa previsione? No. Essa finisce per rimettere nelle mani del governo la decisione sul “se” sia opportuno che il parlamento intervenga (e fin qui niente di strano) e però persino la decisione sul “se” sussistano i presupposti richiesti dalla clausola (cioè: “se” occorra tutelare l’unità giuridica o economica della Repubblica oppure l’interesse nazionale), senza che possa opporsi alcunché: si tratta di “formule” politiche, non giuridiche, che rendono impossibile il sindacato della Corte costituzionale. In che modo, infatti, potrebbe essere dichiarata illegittima una legge del parlamento che interviene nella disciplina di una materia di competenza delle Regioni senza che effettivamente vi sia l’esigenza di garantire l’unità economica della Repubblica? D’altra parte, la riforma si ispira, in questo, all’art. 72 della Costituzione tedesca. E chi ha scritto il testo della riforma non può non sapere che in Germania, per più di quaranta anni, il parlamento nazionale ha attratto a sé molte materie di competenza dei Länder (gli Stati membri tedeschi), senza che questi riuscissero a opporre dinanzi alla Corte costituzionale alcunché: la Corte tedesca, infatti, ha per decenni sostenuto che l’intervento dello Stato poggiasse su presupposti di natura politica, in quanto tali non sindacabili. È per questa ragione che nel 1994 i tedeschi hanno deciso di cambiare la propria Costituzione: per garantire che la competenza degli Stati membri non fosse facilmente espropriata dal parlamento nazionale.
Ora, se entrerà in vigore la riforma, sarà ancora una volta la Corte costituzionale, a fronte del silenzio serbato sul punto dalla riforma, a dirci se il parlamento italiano sarà tenuto al rispetto di certune condizioni oppure no: ad esempio, se l’espropriazione della materia regionale dovrà essere motivata e contenuta entro quanto strettamente necessario a garantire la tutela dell’unità economica o giuridica ovvero dell’interesse nazionale. Ma si tratta di un evidente salto nel buio: nessuno al momento può sapere quello che accadrà. Resta comunque un paradosso: per molti casi, elencati dal nuovo art. 70 Cost., la riforma impone di ricorrere al procedimento legislativo “paritario”, e cioè chiede che la Camera e il Senato approvino la legge con gli stessi poteri; nel caso di cui si sta parlando, invece, al Senato – che dovrebbe rappresentare le istituzioni territoriali – è precluso di approvare la legge con gli stessi poteri della Camera dei deputati. Il che la dice lunga anche sull’effettiva capacità del Senato di rappresentare gli interessi territoriali (sebbene questo punto meriterebbe di essere trattato a parte).
La riforma affida alla competenza esclusiva dello Stato molte materie oggi attribuite alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni o alla competenza residuale delle Regioni. Se essa vedrà la luce, lo Stato potrà ergersi a decisore unico delle sorti del turismo, dell’energia, del governo del territorio, dei procedimenti amministrativi, delle infrastrutture strategiche, ecc. Si dirà che per molte materie è così da tempo, dato che lo Stato si è già “appropriato” da anni di alcune materie, che la Costituzione considera come concorrenti; e si aggiungerà pure che, in fondo, è “naturale” che sia così.
Si pensi all’energia. Sebbene la riforma costituzionale del 2001 l’abbia attribuita alla competenza concorrente dello Stato e della Regione, nel 2004 lo Stato ha adottato una legge con cui si è spinto fin nella disciplina di dettaglio. La Corte costituzionale, che si è trovata a valutare la legittimità di una soluzione di questo tipo, ha salvato dalla “bocciatura” la legge dello Stato, ma ha precisato quanto segue: lo Stato può disciplinare per intero la materia energetica in presenza di interessi di carattere unitario, ma a condizione che alle Regioni sia lasciata la possibilità di esprimersi attraverso lo strumento dell’intesa sulle scelte effettuate a Roma. Nel pensiero della Corte, l’intesa della Regione si configurerebbe, allora, come una misura di compensazione, costituzionalmente necessaria perché finalizzata a porre rimedio alla “perdita” della competenza regionale, dovuta alla decisione dello Stato di attrarre a sé la competenza sulla materia energetica. Ma questa misura cesserebbe di essere costituzionalmente necessaria il giorno in cui la competenza sull’energia fosse assegnata formalmente alla competenza esclusiva dello Stato: non ci sarebbe più alcuna misura di compensazione da garantire per la semplice ragione che la materia energetica non sarebbe più affidata alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni.
Si tratta di una soluzione ingiusta nei confronti delle Regioni: perché fa saltare il principio collaborativo tra gli enti territoriali, che caratterizza praticamente da decenni il regionalismo italiano. E si tratta anche di una soluzione assai poco lungimirante: perché, se disciplinata adeguatamente, sarebbe semmai la concertazione e non già l’imposizione unilaterale a favorire la riduzione del contenzioso con le Regioni e il contenimento dell’opposizione sociale all’assunzione di decisioni non condivise. Il che, più in generale, la dice lunga su quello che della democrazia territoriale pensa chi ha scritto la riforma: che essa sia solo un impedimento un ostacolo da rimuovere affinché lo Stato possa rapidamente e in perfetta solitudine decidere ciò che vuole.
La riforma non si applica formalmente alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano: a esse continueranno ad applicarsi le vecchie norme della Costituzione; e questo, almeno, fino a quando non verranno riscritti gli statuti (sulla base di una intesa con le Regioni e con le Province interessate). Per la verità, la riforma sarà comunque in condizione di spiegare i propri effetti anche sul sistema delle autonomie speciali. Le leggi che lo Stato adottasse sulla base delle nuove materie previste dalla riforma – si pensi ad esempio alla materia “infrastrutture strategiche” – si porrebbero, infatti, come limite di carattere “esterno” alla competenza legislativa di cui le autonomie speciali godono in virtù di elenchi di materie contenuti nei rispettivi Statuti. Detto altrimenti, esse potrebbero sempre continuare ad esercitare le materie di loro competenza, ma tale esercizio non potrebbe prescindere dal rispetto di alcuni limiti, come, ad esempio, quello dell’interesse nazionale o quello delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali.
Questo vuol dire che, qualora la legge dello Stato qualificasse le sue norme come relative a riforme economico-sociali oppure nell’eventualità che la competenza legislativa dello Stato fosse dettata dall’interesse nazionale (magari proprio quale conseguenza dell’attivazione della clausola di supremazia), la potestà legislativa delle autonomie speciali resterebbe giocoforza condizionata dalla legislazione varata dallo Stato.
La riforma non è moderna e neppure efficiente: essa non offre soluzioni adeguate ai problemi del regionalismo. Meglio sarebbe stato riorganizzare il sistema in Macroregioni e ripensare il tema dell’asimmetria, e cioè della diversificazione delle funzioni sulla base di comuni esigenze. Anche da questo punto di vista, il nuovo art. 116 della Costituzione – che prevede in linea tutta teorica la possibilità di attribuire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” su alcune (poche) materie dello Stato – continuerebbe ad essere insoddisfacente. Ci sono Regioni che hanno problemi che altre non hanno. Problemi del tutto peculiari. E la riorganizzazione del territorio in Macroregioni avrebbe potuto tenere conto di questo: si pensi, ad esempio, alle Regioni che si affacciano sull’Adriatico o ad alcune Regioni del Sud, che, più di altre, hanno problemi (comuni) di carattere ambientale.
L’attuale sistema delle autonomie speciali – che la riforma mantiene sostanzialmente inalterato – poggia su ragioni storiche in gran parte superate. Sarebbe stato, invece, opportuno convertire questa “specialità”: da identità storica in “specialità” di tipo funzionale, collegata a problemi regionali comuni e concreti, affinché si potesse giungere ad una diversificazione delle competenze dei territori. In questo modo si sarebbe potuto dar vita a un regionalismo “differenziato”, più autentico e originale; e si sarebbe evitato di far compiere allo Stato un salto indietro di cento anni.
* Professore associato di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo.
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