Rete Biellese - Sprigioniamodiritti. Vecchie e nuove carceri. Il dibattito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 







Straordinaria partecipazione alla proiezione del video "All'aria" di Galveston che raccontava le esperienze del vecchio carcere di Biella. Ne è seguito un vivace dibattito a più voci che ha cercato di tracciare il profilo, spesso drammatico, della situazione delle carceri in Italia, in particolare nel carcere biellese. Riflessioni, storie e esperienze che hanno segnato la volontà di uscire da una condizione emergenziale, caratterizzata dal diffuso controllo sociale dentro e fuori dal carcere.

Sprigioniamodiritti ha sottolineato il valore della campagna per l'abolizione dell'ergastolo e la necessità di intensificare gli sforzi per l'abolizione della condizione di carcerazione del 41bis. E' stato inoltre richiesta collaborazione per costruire una rete di solidarietà con i famigliari dei detenuti del carcere di Biella, "puniti" dai recenti provvedimenti che hanno spalmato gli incontri in carcere, tra detenuti e famigliari, a turni lungo l'intera settimana e non più al venerdì e al sabato.

Di seguito alleghiamo il prezioso intervento di Giuseppina Bianchi.

Il video che abbiamo visto, anche se è stato realizzato quando il carcere era già stato dismesso rende abbastanza chiaramente l’idea di che cos’era un piccolo carcere periferico, cos’era, perché oggi neanche la periferia non è più così, visto che ormai sono sorti quasi ovunque dei mostri in fotocopia, come quello di Biella.

Alcune affermazioni fanno un po’ impressione: :”eravamo come una famiglia, detenuti e guardie”.

Non bisogna lasciarsi ingannare da queste affermazioni da “Amarcord” è più che evidente che non era e non poteva essere così. Chi detiene le chiavi e chi da queste chiavi è rinchiuso, non sono la stessa cosa, non vi può essere un rapporto di amicizia.

Forse, per chi ha poi provato le nuove carceri supertecnologicizzate, nel ricordo, anche il vecchio carcere cadente assume un aspetto positivo.

E’ comunque vero che, pur nella oggettiva disumanità del carcere, i carceri vecchi erano più umani di quelli odierni. La moderna tecnologia e l’elettronica applicati all’istituzione totale per eccellenza, hanno significato un’aggiunta di disumanità e di isolamento, a partire dal fatto che i nuovi carceri sono tutti costruiti fuori dal tessuto urbano, come moderni lebbrosari.

Seppur rinchiuso, in un carcere cittadino, senti intorno a te il respiro della città, fuori non senti niente di niente.

Il primo di questi carceri supermoderni fu un carcere femminile: il carcere speciale di Voghera aperto nel 1982. Qui le prigioniere erano sottoposte all’art. 90 che significava colloquio con vetri e citofoni con i famigliari anche minori, divieto di corrispondenza con le altre carceri anche con i propri famigliari detenuti, un’ora sola di aria al giorno in non più di cinque persone con composizione decisa dalla direzione, limitazione degli oggetti da poter tenere in cella, all’inizio non si poteva tenere nemmeno l’orologio, vietato tenere un fornellino con impossibilità non solo di cucinare ma anche di scaldarsi qualcosa, porte blindate sempre chiuse, spioncino compreso, telecamere ovunque anche nelle docce. Inizialmente ci fu pure la pretesa di gestire dalla sala di regia l’apertura e chiusura delle celle, ma dato che l’elettronica valeva solo per far scattare la serratura con i famosi bip.bip mentre il cancello si doveva aprire o chiudere con le mani, la pretesa fallì sul nascere perché, se la cosa funzionava all’apertura, non si poteva dire altrettanto per la chiusura, perché non si è visto mai un prigioniero che si rinchiude in cella con le proprie mani.

Questa situazione durò per circa un anno, poi grazie a vari cicli di lotte si aprirono degli spazi di socialità, si potè avere una situazione quasi normale.

Quando viene aperto un carcere nuovo la situazione è sempre la stessa: chiusura di tutti gli spazi, le cose che in tutti gli altri carceri sono la normalità qui devono essere conquistate.

Recentemente è stata aperta una nuova sezione EIV nel Carcere di Catanzaro dove sono stati trasferiti compagni le cui famiglie risiedono a più di 1000 Km di distanza, anche persone aventi sulle spalle decenni di carcerazione.

C’è un qualche senso in questi trasferimenti oltre la vendetta dello stato?

Altra perla della modernità sono i processi in videoconferenza per i detenuti sottoposti al 41bis, io non mi ero mai resa conto di cosa significasse realmente, finchè non l’ho sentito raccontare da un avvocato. Il diritto alla difesa è completamente stravolto. Com’è possibile partecipare attivamente al processo se sei rinchiuso in una stanza a chilometri di distanza, come puoi interagire in tempo utile con il tuo avvocato, sempre che tu abbia la fortuna di averne uno, anzi due, uno nell’aula processuale e uno rinchiuso con te, se, per poter intervenire, devi tra le altre cose attendere il tuo turno non solo nell’iter processuale ma anche sulla linea telefonica?

Ma queste cose pochi le sanno, è più conveniente e più comodo non dirle e non scriverle, non fanno ascolto, non rendono. Rendono certamente di più i processi nei salotti televisivi.

Siamo arrivati a tal punto di indecenza, che le intercettazioni dei colloqui con i famigliari – che dovrebbero essere solo visivi – vengono non solo intercettati, ma resi pubblici, mi riferisco a Perugia dove il giorno successivo al colloquio abbiamo ascoltato al TG quello che l’imputata aveva detto ai suoi genitori. Così si può fare un bel processo pubblico nel tribunale di Vespa per stuzzicare la morbosità e il voyeurismo del pubblico, per alimentare le chiacchiere da bar e l’allarme securitario.

Ma una giustizia a furor di popolo che razza di giustizia è?

Il carcere del Piazzo era un piccolo carcere dove erano detenute persone con condanne brevi che però, entrando e uscendo, finivano per trascorrere metà della propria vita in galera, un ergastolo a rate.

E ecco che, per chi entra e esce di continuo, il carcere diventa una specie di famiglia, unico punto di riferimento di una vita regredita ad uno stadio infantile.

Quello della regressione allo stadio infantile è un altro dei danni provocati da una lunga permanenza nel carcere, lì tu non puoi decidere niente della tua vita, devi dipendere dagli altri per ogni minima necessità della vita quotidiana, il tuo corpo è ostaggio nelle mani della struttura che può decidere come vuole della tua vita, lasciarti lì o spostarti a suo piacimento su e giù per la penisola, devi dipendere anche nelle cose più piccole e insignificanti: è il direttore a decidere anche, se sei autorizzato o meno a farti comprare un paio di mutande.

Se poi hai la disgrazia di ammalarti rischi di andare al creatore prima che qualcuno si renda conto che esisti.

Mi ha fatto molta impressione quel che dice don Pizzato sulle persone che d’inverno facevano piccoli furti per essere arrestate e passare l’inverno al chiuso. Questo non può far pensare a quanto si stia bene nel carcere, come è vulgata generale “hanno anche la televisione”, ma piuttosto a quale vita disgraziata debba vivere una persona che, per non morire congelata in inverno, è costretta a farsi arrestare. e questo purtroppo credo succeda anche oggi, forse più di prima.

Oggi in piena mania securitaria c’è da più parti la richiesta di costruire nuove carceri, forse è un nuovo modo per rispondere alla necessità di edilizia popolare, i nuovi poveri che non possono pagare l’affitto si possono ben ospitare a spese dello stato come ai vecchi tempi.

I nuovi poveri, gli ultimi, gli immigrati che sono diventati il capro espiatorio di tante giunte anche di centro-sinistra, si abbattono le baracche che offendono il decoro della città, ma solo quelle di proprietà degli stranieri, quelle degli italianissimi speculatori che le affittano ai poveri si lasciano dove sono.

Queste non offendono il decoro.

Questo è successo a Roma.

Le carceri nuove di cui è strapiena l’Italia saranno più pulite e più asettiche ma certo non hanno niente a che vedere con il dettato costituzionale che recita: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, nelle carceri nuove si muore come e più che in quelle vecchie. Ricordiamo il recente caso di Aldo Bianzino trovato morto il 14 ottobre scorso nella sua cella nel nuovo carcere perugino di Capanne.

Solita versione ufficiale del malore anche se l’autopsia rileva lesioni non compatibili con un malore. Chi pagherà per questa morte?

Domanda retorica, esattamente com’è retorico chiedersi chi pagherà per i morti di Torino.

Nel carcere del Piazzo c’era anche una sezione femminile, ne fa cenno anche Rita De Lima ed è proprio un peccato che non sia stato possibile fare per la parte femminile la stessa cosa che è stata fatta per la sezione maschile.

Mi è stato spiegato che non è stato possibile perché le donne ex detenute o non ci sono più o non hanno voluto parlare.

Questo non stupisce in questa società patriarcale, dove, purtroppo, anche le donne stesse, hanno introiettato l’idea di non essere all’altezza, di lasciar fare e dire agli uomini e in questo modo, il genere maschile continua a essere convinto di poter parlare a nome di tutto il genere umano.

Normalmente le sezioni femminili sono sempre collocate nei posti più infelici del carcere, non hanno palestre o campi di gioco, a volte ci sono anche bambini piccoli.

Per un detenuto maschio c’è sempre una donna, madre, moglie, compagna, sorella che lo segue anche per lunghi anni, molto raramente c’è il viceversa specie se la carcerazione è lunga. Se non c’è un’altra donna che si fa carico dell’assistenza, gli uomini (tranne qualche rara eccezione) dopo un po’ scompaiono perché loro, si sa, sono abituati ad essere accuditi e non ad accudire.