DILEMMA PALESTINA. Conversazione tra Angelo D'Orsi e Furio Colombo (Micromega 1/2009)

 

 

 

 

MICROMEGA 1/2009 pag 179/166

DIALOGO 2

trascrizione a cura di ISM-Italia

C'è una soluzione alla questione palestinese? O essa è davvero una situazione 'dilemmatica', senza vie d'uscita? Israele è stata abbandonata dalla sinistra del mondo o con la sua politica ha allontanato tutti coloro che lavorano per la pace? E infine, l'operazione 'Piombo fuso' aiuta la causa della pace o è l'ennesimo tragico errore? Un confronto sincero e doloroso sulle ferite aperte della Palestina.

ANGELO D'ORSI / FURIO COLOMBO

 

 

 

Angelo d'Orsi: Io non sono un esperto di Medio Oriente, ma mi sono appassionato alla questione palestinese in quanto cittadino del mondo, e mi sono fatto l'idea che lì si stia consumando una situazione che non esito a definire, seguendo i princìpi che mi ha insegnato il mio maestro Norberto Bobbio, «dilemmatica», una situazione dalla quale non c'è via d'uscita. Sembrerò troppo pessimista, ma io non vedo autentiche vie d'uscita. Dunque l'unica cosa che ci rimane da fare è testimoniare, testimoniare nella maggiore buona fede possibile, ma soprattutto testimoniare informati.

Capire gli eventi significa contestualizzarli, e credo che non si possa capire quello che sta accadendo adesso se non facciamo riferimento a due date: il 1948 e il 1967, cioè la data della fondazione dello Stato di Israele e quella della guerra dei Sei Giorni, che produsse, a seguito della «vittoria» israeliana, delle annessioni che, come sappiamo, hanno praticamente raddoppiato il territorio dello Stato di Israele. Bene è ricordare che quelle annessioni sono state condannate dalla comunità internazionale e che per esse sono state emanate una quantità innumerevoli di risoluzioni dell'Onu (72 fino al 2004, se non erro), che chiedono a Israele di ritirarsi dai territori occupati nel1a guerra del '67, di consentire il rientro delle centinaia di migliaia di profughi, di interrompere, via via, le aggressioni al Libano e altri paesi dell'area. Inoltre, dal '67 in avanti Israele ha fatto una politica di insediamento nelle terre - terre sparse, perlopiù aride, insomma le peggiori disponibili - rimaste ai palestinesi.

Quelle due date, il '48 e il '67, corrispondono ad una serie concatenata di eventi terribili che sono stati subiti e vissuti dalle popolazioni locali - in particolare dai palestinesi (quelli sopravvissuti), espropriati della loro terra, delle case, dei beni, spesso addirittura dei minimi effetti personali - come delle ferite insanabili, delle offese a cui non vi può essere rimedio. Uno dei nodi irrisolti (e forse irresolubili) è la questione del rimpatrio dei profughi, che l'ONU continua a chiedere: da un lato, Israele ha ragione di temere di essere schiacciata dalla «bomba demografica», dall'altro, i palestinesi hanno diritto di rientrare nelle loro case. Gli interessi degli uni appaiono contraddittori rispetto a quelli degli altri. E dunque, la situazione è tragica perché non ha vie d'uscita.

Se dimentichiamo questi fatti, non capiamo nulla di quello che sta accadendo. Non capiamo, soprattutto, l'umiliazione degli arabi, e quella dei palestinesi in particolare, che poi finiscono col dare sostegno a un movimento come Hamas, che oggi viene indicato come la causa di tutti i mali. Si tratta però di un comodo paravento, perché Hamas è nata a suo tempo anche con il sostegno dei servizi segreti occidentali e israeliani in funzione anti-Olp (quando Arafat era additato come :il nemico pubblico n. 1, il «terrorista» per eccellenza, da Israele), e, da piccolissima frangia, è diventato un movimento maggioritario, che ha vinto delle libere elezioni, certificate anche sul piano internazionale, al seguito delle quali ci fu un vero e proprio colpo di Stato, sostenuto di nuovo dagli occidentali.

Se dimentichiamo tutto questo, come facciamo a capire il sostegno crescente di cui Hamas gode? Oggi Hamas è l'unico movimento di resistenza organizzata all'aggressione israeliana, e questo va detto, a prescindere dalle nostre antipatie o simpatie per Hamas. E io non ho nessuna simpatia per Hamas, il cui statuto per molti aspetti mi fa rabbrividire. Ma essa, che peraltro ha compiuto nel corso degli ultimi anni un'evoluzione politica e anche ideologica assai rilevante (e su cui nessuno dice nulla, qui da noi, tutti troppo intenti a usare la parola «terrorista», per chiudere il discorso, anzi per evitare di aprirlo) si è legittimata sul campo e non riconoscerla come interlocutore è atteggiamento non solo miope, ma stolto e controproducente, che non conduce ad alcuna via d'uscita. Ogni via d'uscita oggi passa attraverso il riconoscimento politico di Hamas.

 

Furio Colombo: Concordo sulla necessità di allargare lo sguardo ad una prospettiva più ampia rispetto ai fatti tragici delle ultime settimane. Oggi siamo schiacciati sugli eventi, costretti a vedere i dettagli degli eventi, e siamo privi - sia da parte dei leader politici sia da quella dei grandi commentatori del mondo - di un quadro d'insieme. Di quello che sta accadendo negli ultimi giorni a Gaza conosciamo la gravità, la durezza, la crudeltà, il dolore, ma - io credo - alla maggior parte delle persone sfuggono del tutto le ragioni. Sulla ricostruzione fatta da d'Orsi mi riconosco però solo in parte. Perché, per esempio, quando si cita il 1948, bisognerebbe spiegare contestualmente gli elementi che distinguono il modo in cui è nato lo Stato d'Israele, con un voto delle Nazioni Unite sostenuto da Unione Sovietica e Stati Uniti, da quello in cui sono nati altri nuovi Stati nel mondo, spesso spaccando etnie, separando popolazioni secolarmente unite, districando e sradicando religioni, creando milioni di profughi e milioni di morti, eventi che ormai sono da tutti considerati storia, e in quanto tale non più messi in discussione. Prendiamo, per esempio, quello che è accaduto a Mumbai qualche settimana fa: se quella situazione avesse portato alla guerra fra India e Pakistan, sarebbe stata una guerra spaventosa, ma noi l'avremmo considerata un guerra «normale», cioè brutale come tutte le guerre che finora abbiamo tollerato nel mondo. Certo, India e Pakistan sono due Stati potentissimi, ma le guerre ormai - tutte le guerre - sono sempre a carico delle popolazioni civili e questo è un argomento che bisogna prendere dalle mani dei pacifisti e mettere nelle mani dei logici, per cominciare a domandarsi se le guerre siano ancora possibili, dal momento che sono esclusivamente sterminio di civili, dovunque. Ma quando una delle parti è Israele, il discorso si fa improvvisamente diverso e concitato. Anche India e Pakistan hanno avuto il loro '48, quello di cui parla Rushdie nei Figli della mezzanotte. Nonostante uno dei leader fosse Gandhi, ognuna delle due parti ha assaltato treni carichi di popolazione in fuga, ha massacrato e abolito intere città, ha sradicato etnie, ha cancellato radici religiose, ha distrutto luoghi di culto, case, abitazioni, scuole, indiani contro musulmani, fino alla creazione dei due Stati, per poi dare origine, con altro sangue, altri stermini, altri sradicamenti, altro dolore, al Bangladesh. E nel frattempo nascevano Stati che, come Israele e come tutti gli attuali Stati arabi e africani, sono artificiali, disegnati nei club degli ufficiali occidentali bianchi, tutti, compresi quelli che fingono di avere delle monarchie storiche. E molti di questi nuovi Stati artificiali hanno attraversato situazioni spaventose, come il Ruanda. Ma per tornare a riferirsi alla situazione palestinese, io non ricordo nessuna bandiera giordana bruciata dopo la strage dei palestinesi del Settembre Nero.

E poi si continua a vivere la vicenda palestinese come una conseguenza del 1967 e della occupazione dei territori. Eppure l’Olp si è costituito nel 1964 invocando la liberazione della Palestina, quando Israele era nei confini tracciati dalle Nazioni Unite e nessun territorio era stato occupato.

Nella vicenda attuale, Israele è stata, in un certo senso, spinto a entrare nella guerra con grande bravura politica da parte di Hamas. Hamas, infatti, ha dichiarato unilateralmente la fine della tregua con grande tempismo: Sarkozy stava per uscire dalla presidenza Ue, Obama non era ancora insediato alla Casa Bianca e Israele era sotto elezioni. È stato scelto, cioè, il momento che avrebbe garantito la maggiore frantumazione europea, il silenzio americano e il comportamento sotto stress da parte di un governo esposto alle elezioni. Si sono cercate conseguenze spaventose, e le conseguenze sono state spaventose. Le approviamo? No che non le approviamo. Proviamo dolore, indignazione, terrore, senso di partecipazione a questa sofferenza immane? Certamente. Ma dobbiamo anche sapere con quanta accuratezza questo orrore è stato preparato. Nel giudizio su Israele io credo che debba prevalere 1'angosciata ricerca di una garanzia di salvezza. Sto dicendo che io non riesco a spiegarmi l'emozione e la tensione che circondano questo orrore, a differenza di tanti altri orrori del mondo uguali o più grandi, se non pensando che una delle due parti è composta da ebrei. 

 

 

 

D'Orsi: .Mi pare, però, che con questo modo di ragionare, la contestualizzazione storica diventa la notte in cui tutte le sono vacche nere. Insomma, non si può fare un discorso in cui si banalizza, affermando che la storia è piena di catastrofi, che la storia è piena di massacri. Certo, ma noi stiamo parlando di una situazione specifica ... Il Medio Oriente, la Palestina occupata e ora, per la parte rimasta in mano ai palestinesi, «violentata» da Israele. Che c'entrano India e Pakistan?

 

Colombo: Ma il ragionamento che ho fatto serve per rivolgere una domanda a noi stessi: perché nessuno ha mai bruciato una bandiera della Giordania o di altri Stati aggressori dei palestinesi?

 

D'Orsi: Ma non possiamo mettere sullo stesso piano le bandiere bruciate con quello che ha fatto Israele nelle ultime settimane a Gaza! Senza contare poi che dietro le stragi del Settembre Nero ci furono, per quel che mi consta, anche i servizi israeliani! Ma, lasciamo da parte ciò. Durante i dibattiti sulla guerra in Vietnam, c'era sempre qualcuno dal fondo della sala che si alzava e diceva «vogliamo parlare della Cecoslovacchia?». No, non vogliamo parlare della Cecoslovacchia, Colombo, vogliamo parlare di Israele, vogliamo parlare di quello che sta succedendo a Gaza oggi, non del Ruanda, non del Pakistan. Sono d'accordo con te quando dici che Israele ha fatto una scelta indubbiamente condizionata dalle elezioni politiche previste a breve. Non è un caso che negli ultimi sondaggi il gradimento di Barak sia salito di venti punti da quando è scoppiata la guerra. Questo però mostra anche la fragilità di Israele, perché Israele non può pensare di vivere di guerra, e non può pensare di vincere tutte le guerre. Sta seminando una tale quantità di odio che prima o poi ne sarà travolta. Se Israele non accetta di cambiare questa logica, ci saranno cento, mille Hamas. Se la politica è l'arte di guardare lontano, non si può ragionare sempre in termini di risultato immediato, e guardando lontano le politiche portate avanti dai governi israeliani stanno producendo gli effetti esattamente opposti a quelli proclamati. E allora, anche mettendosi nell'ottica di un difensore d'Israele, bisogna rendersi conto che queste politiche sono politiche esiziali, che porteranno alla fine di Israele. I peggiori nemici di Israele sono i suoi governanti, la sua classe politica e buona parte degli stessi intellettuali, che appaiono sempre più allineati agli indirizzi governativi. 

 

 

 

Colombo: Come tu saprai, il mio ultimo libro è intitolato La fine di Israele,  ed è un libro tragico in cui si analizza il fatto che Israele si è trovato finora da un lato con il sostegno della destra del mondo, che crede solo nella guerra. E dall'altro con l'indifferenza, quando non l'ostilità, non solo della sinistra, ma anche della maggior parte di coloro che in inglese si chiamano liberal. Noi - intendo l'Occidente, l'Europa e gli Stati Uniti - siamo corresponsabili di quello che sta accadendo. Come per la strage di Srebrenica: le Nazioni Unite erano lì e hanno voltato le spalle. Il mondo avrebbe potuto evitarlo, ma non lo ha fatto.

Tu prima citavi il 1967 come una delle date fondamentali per capire quello che accade oggi. Ebbene, il '67 è stato il momento in cui, con un colpo di bravura e tempestività, Israele ha salvato se stessa dallo sterminio. Io ho seguito quella guerra come giornalista e ricordo le infinite colonne di mezzi blindati che calavano dall'Egitto, dalla Giordania e dalla Siria. Se non ci fosse stato un intervento intenso dell'aviazione, quella guerra sarebbe stata la fine di Israele. Da lì nascono due questioni diverse: una è quella dei territori occupati e delle relative mozioni delle Nazioni Unite a cui tu hai fatto pertinente riferimento, l'altra è quella delle colonie, idea di origine americana. Bisogna ricordare il rabbino Kahane e il periodo che Netanyahu ha trascorso negli Stati Uniti, dove persino i cristiani fondamentalisti che detestavano Israele e che hanno messo la bomba (il primo atto di terrorismo interno americano) a Oklahoma City, il 29 aprile 1995, sono stati persuasi a mostrarsi filoisraeliani pur di poter sostenere la guerra invece della politica. C'è stata una sola persona che ha avuto la forza e il coraggio di affrontare la questione delle colonie ed è stato Sharon, nell'ultima fase della sua vita. Quando l'ho incontrato a Roma poco prima che stesse male, mi disse che avrebbe sgombrato unilateralmente i territori perché sapeva che solo lui, in quanto uomo di destra, avrebbe potuto farlo. E in effetti iniziò a farlo, e proprio per questo è nato Kadima (il nuovo partito di centro-destra), per separarsi da Netanyahu, per separarsi dalla destra estrema, in un momento in cui non si riusciva più a trovare la forza dei laburisti, il rapporto con le Unions, il rapporto con la sinistra europea che li aveva abbandonati del tutto ... 

 

 

 

D’Orsi: Però, scusa l'interruzione, se Israele si comporta in questo modo è chiaro che viene abbandonata. Insomma, ormai Israele è ostaggio della destra, le comunità israelitiche sono diventate succursali delle ambasciate di Israele, questo è pazzesco ... Hanno perso il loro significato, e il loro ruolo è ormai tutto politico, completamente eterodiretto da Tel Aviv.

 

Colombo: Facciamo attenzione al nesso causa-effetto. Ti porto un esempio di quello che sto dicendo. Nel 1991 scrissi il mio primo libro su Israele, Per Israele, in occasione della Guerra del Golfo, quando Israele veniva bombardata e non reagiva, quando Isaac Stern ha fatto il famoso concerto a Gerusalerrnne con la maschera antigas. Ebbene, nella sinistra italiana, solo Piero Fassino sostenne quel libro e tentò invano di cambiare la posizione rigorosamente anti-israeliana del suo partito.

 

D'Orsi: Perdonami, ma dal quadro che stai dipingendo sembra che ci sia una persecuzione mondiale contro Israele. Se è una barzelletta, consenti, oggi non fa ridere; anzi può solo irritare. Ma si può prendere sul serio una tale affermazione? Oggi, poi! E, dimmi, chi ha mai alzato la voce per i palestinesi? Chi li difende? L'Europa tace, o balbetta. Gli Stati Uniti bloccano ogni tentativo delle Nazioni Unite di prendere provvedimenti verso uno Stato che oggi appare il vero Stato canaglia sulla faccia della terra. E qui c'è chi, senza temere il ridicolo, mette sullo stesso piano una bandiera bruciata e i raid aerei o l'offensiva di terra! Certo che bruciare una bandiera è un gesto odioso, oltre che un gesto cretino, ma non si può mettere, neppure lontanamente, sullo stesso piano. Devo dire che non mi ha neanche sorpreso leggere sul Times la notizia secondo cui l'esercito israeliano avrebbe usato anche bombe al fosforo bianco. Notizie del resto confermate successivamente da varie fonti indipendenti. Israele è davvero uno Stato canaglia. Altro che l'Iran! Altro che l'Iraq di Saddam Hussein! Quelli le armi non le hanno, mentre lo Stato israeliano è un deposito di armi; lecite e illecite; e di tali armi fa un uso costante. Può continuare così? Forse sì. Ma quousque tandem? E, tornando a questa guerra infame, la guerra ai bambini condotta da Olmert, Barak, e l'ambiziosa, cinica signora Livni, oggi noi abbiamo abbastanza elementi di fatto, di dati precisi, per capire che questa offensiva non è stata improvvisata, ma preparata da mesi.

Passare poi dall'azione aerea all'offensiva di terra è stato veramente un colpo atroce, perché in una zona che è tra le più densamente popolate della terra era ovvio che ci sarebbe stata una strage di civili, e di bambini, considerando l'età media della popolazione di Gaza, e non si può rispondere a questo dicendo che le stragi avvengono dappertutto. E vero, le cosiddette «nuove guerre» sono essenzialmente guerre contro i civili ... E con ciò? Dobbiamo semplicemente accettarle? Dobbiamo accettare che Israele faccia questa guerra anche a fini elettorali? E quale sarà il risultato a lungo termine? lo ritengo - lo voglio ribadire - che Israele stia preparando la sua autodistruzione, ed è per questo che non capisco la miopia dei governanti israeliani. Certo, parlando di classe dirigente, dobbiamo riconoscere che anche il mondo arabo ha una leadership politica penosa: storicamente sono veramente degli analfabeti politici, su questo non c'è dubbio. Però non possono essere gli innocenti - davvero gli innocenti - a pagare. E in ogni caso, guardando al consenso di cui la guerra gode fra i cittadini di Israele, non posso neppure accettare di equiparare la loro innocenza a quella degli abitanti/reclusi a Gaza. Gli uni - gli invasori storici - sono oggi i carnefici; gli altri - gli occupati, gli scacciati, gli emarginati - sono oggi le vittime. Oggi più che mai. Questa guerra è una sorta di sintesi cruenta della Nakba. La catastrofe del popolo di Palestina. 

 

 

 

Colombo: Perché non ci interroghiamo anche sul silenzio di tutti i paesi arabi circostanti di fronte a una situazione così clamorosamente drammnatica? lo credo che esso sia dovuto al fatto che l'area è attraversata da due paure: la prima è che Israele possa espandere questa guerra (il che sarebbe tragico per Israele stessa). La seconda paura è quella di un risveglio della guerra islamica nell'area, che non conta le sue vittime a 500, a 1.000. Fa 50 morti con ogni autobomba, e noi non sapremo mai quanti civili, quanti bambini, sono morti in Iraq per mano dei combattenti della Jihad. Si sta facendo il processo a Israele, ma l'intero mondo politico mondiale non ha fatto nulla negli anni scorsi per promuovere seriamente la soluzione di una simile crisi. Da molto tempo ormai Israele è abbandonata a se stessa: possiamo dire che Israele è andata a destra e non si poteva certamente seguirla su quella strada, come tu dici adesso. Oppure - come sostengo io - che è stata così duramente e improvvisamente abbandonata dalla sinistra, che i partiti di sinistra e il movimento pacifista, che erano molto vivi in quel paese, si sono politicamente spenti. Il risultato però è lo stesso. E di questa terribile storia siamo tutti corresponsabili. 

 

 

 

D'Orsi: Su questo non c'è dubbio, però la domanda per me primaria rimane: perché Israele non accetta le risoluzioni dell'Onu? Perché non si mette al tavolo per discutere del ritiro nei confini del '67 e del problema dei profughi? Questo è il porro unum et necessarium, il punto essenziale. Tu mi dici che Israele si è spostata a destra perché la sinistra l'ha abbandonata. Ma io ti faccio un solo esempio: uno storico cosiddetto revisionista, Ilan Pappe, ebreo-israeliano, docente dell'università di Haifa, i cui genitori sono finiti ad Auschwitz, scampando per un soffio alla morte, è stato costretto a lasciare la sua università perché ha pubblicato una serie di libri, in particolare La pulizia etnica della Palestina del 2006, che rifiutavano la «storia sacra» della costruzione di Eretz Israel, dello Stato di Israele, come se Domineddio l'avesse conservato per millenni per «restituirlo» agli ebrei. Ha contestato (dati, testimonianze e documenti alla mano) l'idea che gli arabi stavano lasciando quelle terre, e che comunque se ne andavano volontariamente; ha rivelato di che lacrime e di che sangue grondi Israele ... Ebbene, gli hanno fatto terra bruciata intorno. E stato considerato un traditore, un nemico interno, un rinnegato. La pulizia etnica della Palestina è, al contrario, un libro che io suggerisco a tutti, perché è un libro mosso da una grande passione morale. L'autore si chiede: perché non ci rendiamo conto che dobbiamo fare un esame di coscienza? Possibile che nessuno dei miei compatrioti - ebrei e israeliani come me - che hanno vissuto la Shoa, o i cui familiari hanno vissuto la Shoa, guardando quelle colonne di profughi, non si ricorda di quello che abbiamo subito noi? Questo è l'invito che ci fa Ilan Pappe, un invito morale, sostanziato però di ragioni storiche. Quello è un libro secondo me su cui gli israeliani, invece di demonizzarlo, avrebbero fatto bene a riflettere. 

 

 

 

Colombo: Vedi, torniamo al fatto che ognuno di noi si sente in diritto, di fronte a fatti tremendi, di dare delle sentenze tremende. Ma quelle sentenze toccano sempre, soltanto, a Israele, mentre si continua a non sentire il bisogno di dire: ma perché noi europei non c'eravamo? Perché non abbiamo partecipato? Perché i governi hanno taciuto? Perché non eravamo presenti? Perché non siamo stati sul posto? Perché la solidarietà di cui tu parli per la Palestina è sempre stata solidarietà a combattere, mai solidarietà a fare la pace ... 

 

 

 

D'Orsi: Questo non mi pare vero, francamente ... Quanto alla possibile soluzione, io non credo che quella dei due Stati possa esserlo davvero. Però credo anche - ecco il dilemma - che ormai la soluzione di una Palestina unita, multietnica e multireligiosa, sia impraticabile. Purtroppo, perché credo che quella sarebbe stata la soluzione migliore. E, resta per me, un'utopia feconda. Utopia non è ciò che è irrealizzabile, ma ciò che rappresenta il bene, ma che (ancora) non è in atto. Ma questo non esclude possa esserlo domani. Il paradosso è che questi popoli che si stanno facendo la guerra, in realtà hanno interessi comuni, perché ci sono palestinesi che lavorano in Israele, ci sono arabi di nazionalità israeliana, e così via, per cui io credo che il meno peggio sarebbe che Israele si ritiri alle posizioni del '67, si crei un vero Stato palestinese - non questa burla di pseudo-Stato, al quale si danno le frattaglie, controllate e gestite da Israele - e poi si faccia una confederazione israelo-palestinese. E col tempo si vedrà se si possa giungere a una loro unità in forma libera, aconfessionale, multietnica, piurireligiosa. Laica, soprattutto.

 

Colombo: Cioè chiediamo loro una cosa che India e Pakistan non sono pronti a fare da 60 anni ... India e Pakistan, educati a Londra, con tutti i loro scienziati e scrittori passati attraverso le migliori scuole d'Occidente, sospettano l'uno dell'altro, restano pronti a combattere e noi non sentiamo il bisogno di parteggiare né per l'una né per l'altro. 

 

 

 

D'Orsi: E allora? Solo perché altri combattono, dobbiamo giustificare qualsiasi guerra? I massacri postulano altri massacri. La Shoa subita può giustificare future Shoa? E poi, qui, davvero, di nuovo il paragone non regge. India e Pakistan sono due potenze emergenti destinate a diventare grandi potenze; hanno un potenziale umano e militare comparabile tra loro. Mentre questo è impensabile per la Palestina e per Israele. Sarà banale, ma siamo alla riproposizione dello scontro fra Davide e Golia. La sproporzione di mezzi e di forze e di organizzazione è mostruosa. E, poi, perché rinunciare a questa speranza? 

 

Colombo: Ma no, non voglio rinunciare a questa speranza, ma non possiamo averla se non partecipiamo e se non siamo presenti sul posto ... 

 

 

 

D'Orsi: Siamo qua, intanto cominciamo a parlarne, cominciamo a discuterne, dobbiamo uscire da queste logiche della guerra ad ogni costo, del bombardamento e dell'assedio, della «necessità» di colpire i civili, magari, perché «è inevitabile» ... E poi, magari, aggiungendo, che gli arabi sono prolifici ... e resistono ai colpi. Affermazioni del genere vengono dalla bocca o dalla penna di intellettuali israeliani considerati dissidenti come lo storico Benny Morris o lo scrittore Yehoshua. Che ha pubblicato, in questi giorni, un articolo che credo rimarrà su di lui come un marchio d'infamia. Siamo poco lontani da certe esaltazioni belliciste e guerrafondaie del peggior Marinetti o Papini nel 1914-15. Leggendole ho provato pena per lui, per il signor Yehoshua, che purtroppo il mio ateneo qualche anno fa insignì di una laurea honoris causa. Oggi, dovrebbe chiedergli di restituirla, per le infamie che ha scritto. 

 

 

 

Colombo: E certamente una buona cosa che cominciamo a parlarne almeno noi. Resta tremendo e spaventoso il fatto che nella maggior parte dei casi si ascoltano ormai soltanto discorsi di odio da un lato e dall'altro, e non ci sono più ponti. Quando ero senatore, durante la legislatura Prodi, sono venuti a Roma, alla commissione Esteri, i genitori del soldato israeliano Gilad Shalit, che è tutt'ora ostaggio di hamas. Pensa se fossi riuscito a persuadere i miei colleghi senatori a dire: partiamo per la Palestina, ci presentiamo ad Hamas e la convinciamo a consegnarci l'ostaggio. A quel punto avremmo potuto dire a Israele: hai una ragione importante per fidarti di noi, di noi come Occidente. Sarebbe stato un gesto simbolico che avrebbe da solo impedito quello che invece continua ad accadere. 

 

 

 

D’Orsi: Esempio peregrino, francamente. Ancora il soldato Shalit. Salvate il soldato Shalit! E basta! Ma le centinaia di palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane? E poi: tu credi che questo avrebbe cambiato le cose? 

 

 

 

Colombo: Sì, le avrebbe cambiate ... 

 

 

 

D’Orsi: Sarebbe stato un gesto nobile che io avrei condiviso a suo tempo e, se fossi stato deputato, sarei venuto con te, però non puoi mettere oggi sul piatto questo discorso. Oggi possiamo solo testimoniare, possiamo invitare alla ragionevolezza, che significa conoscere i problemi e uscire dagli slogan. Cos'è il terrorismo? La Cia non è riuscita ancora a dare una definizione univoca di terrorismo. Terrorista è un capo sconfitto. Se Begin non avesse vinto, sarebbe stato un terrorista, come Moshe Dayan, e Arafat è stato chiamato terrorista fino alla fine dagli israeliani. Dobbiamo uscire da questi schemi.

 

Colombo: L'esempio del soldato Shalit era solo un modo per dire che noi, la comunità internazionale, l'Italia, avrebbe potuto fare dei gesti concreti. E invece la diplomazia italiana non si è mossa. E ne sono desolato. Fa parte di quelle assenze e di quel silenzio che purtroppo l'Europa dedica a situazioni drammatiche di questo genere. Ciò che accade è troppo grave per giustificare il silenzio e la vacanza natalizia di Berlusconi (o dobbiamo credere a Emilio Fede che ci dice che Berlusconi era sì in Sardegna, ma seguiva momento per momento la situazione a Gaza?). Ecco ciò che sta facendo la diplomazia italiana: nulla. Noi non esistiamo, ed è un peccato perché eravamo un paese non secondario nella possibilità di tentare una soluzione. 

 

 

 

D’Orsi: A differenza di quello che pensa Colombo, a me sembra del tutto palmare una triste quanto iniqua verità: che in Italia si tenda molto a giustificare, sempre e comunque, Israele. Anzi, si subisce da ogni parte (compresa la sinistra estrema) il ricatto dell'Olocausto. Si prenda, a mo'di esempio, il Tg1 con l'inviato Claudio Pagliara che sembra il portavoce del comando militare israeliano. Ma in generale mi pare che ci sia una condivisione dell'idea che l'attacco di Israele sia giustificato dal lancio dei razzi kassam.Tale idea nasce o da ignoranza, o da malafede. Da questo punto di vista non vedo nessuna differenza tra la cosiddetta opposizione e il governo. Anzi, Frattini nella sua pochezza, mi pare sia stato persino più comprensivo delle ragioni degli altri di quanto non lo sia stato Fassino, tanto per citare qualcuno. Io apprezzo il fatto che Colombo esprima la mia stessa passionalità in questa cosa, lo sento fortemente impegnato, moralmente e politicamente. Ma le differenze di analisi e di valutazione restano e non possono essere cancellate. lo credo che esistere, come diceva Antonio Gramsci, sia anche essere partigiani. Non ci si può ritirare dal mondo, non si può semplicemente dire questi sono gli uni e questi sono gli altri, e ognuno ha le sue responsabilità. Lo storico non può limitarsi a fare un regesto delle cause o delle responsabilità, lo storico deve creare delle gerarchie nelle cause e quindi nelle responsabilità, e non si può mettere sullo stesso piano quello che ha fatto Hamas e quello che sta facendo Israele. Guardiamo anche le cifre: noi abbiamo da una parte oltre mille morti e dall'altra parte ce ne sono una decina, se non vado errato. Tra i morti palestinesi assai più di un terzo sono civili; quasi tutti bambini e donne. E ci sono centinaia di feriti gravi; feriti che probabilmente rischiano la morte, perché mancano medici, medicine, strutture, strumentazioni, a causa dell'embargo israeliano prima, del blocco ora. Questa aggressione è solo l'ultimo atto di una guerra che è cominciata assai prima, con la riduzione di Gaza a un enorme, immenso campo di concentramento. E dei suoi sfortunati abitanti a internati che vengono sorvegliati dall'esterno, ai quali si concede, di tanto in tanto, qualche obolo in fatto di cibo, di carburante, di acqua, di farmaci. Ma che nome si può dare a tutto ciò? Non siamo davanti a una politica genocidaria? Siamo davanti alla Endlősung della «questione palestinese»?

E quando la stessa affermazione su Gaza campo di concentramento ha osato farla un eminente cardinale della curia romana, è stato subissato di attacchi da parte israeliana e di ebrei «laici» italiani: perché il presupposto è che essi sono vittime per antonomasia. E solo a loro spetterebbe tale «qualifica». Ebbene io le voglio dire e ribadire queste affermazioni, anche se non servirà a nulla, anche se anzi, servirà solo ad attirarmi anatemi, io voglio testimoniare queste verità; perché tali sono. Voglio dirle a tutti coloro che sono disposti ad ascoltare. Voglio gridare, attraverso queste verità, la mia rabbia, il mio sdegno. Non a caso ho scritto un appello in cui invito il mondo intellettuale a schierarsi, a prendere parte. lo credo nell’intellettuale, come diceva Sartre, come qualcuno che abbraccia interamente la sua epoca. C'è un tempo per tutte le cose, c'è un tempo per studiare, c'è un tempo per agire, c'è un tempo per comprendere, c'è un tempo per schierarsi, per prendere parte. Questo è il momento di farlo. «Se non ora, quando?» - dirò con Primo Levi. 

 

 

 

Colombo: In comune abbiamo l'angoscia. In comune non abbiamo l'analisi della situazione, che ha radici complicate e quando si tratta di lsraele viene sempre estratta un'unica colpa, mentre invece c'è un groviglio di responsabilità da parte del mondo intero. Pensiamo, per esempio, che nelle Nazioni Unite Israele non fa parte di nessuna commissione, di nessun gruppo, quando, per esempio, il Sudan, nonostante il genocidio di un milione di donne e bambini nel Darfur, ha fatto parte fino a non molto tempo fa della commissione per Diritti umani. La solitudine e l'abbandono da parte del resto del mondo sono cattivi consiglieri, e questa sensazione disperata - o faccio da solo o non mi salva nessuno - è una delle cause del momento terribile che stiamo vivendo. 

 

ANGELO D'ORSI - Professore di Storia del pensiero politico alla facoltà di Scienze politiche dell'Università di Torino. Ha fondato Historia Magistra che presiede e FestivalStoria di cui è direttore. Dirige i Quaderni di Storia dell'Università di Torino. Collabora al quotidiano La Stampa e ad altre testate giornalistiche. Tra le sue ultime pubblicazioni Il diritto e il rovescio. Un'apologia della Storia (Aragno, 2006), Da Adua a Roma. La marcia del nazionalfascismo (1896-1922) (Aragno, 2007), Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna (Donzelli, 2007).

FURIO COLOMBO - Giornalista e scrittore, deputato eletto nelle liste del Partito democratico. Già direttore di l'Unità. E stato direttore dell'Istituto italiano di cultura a New York, ha insegnato alla Columbia University. Tra le sue ultime pubblicazioni L’America di Kennedy (Baldini&Castoldi, 2004), America e libertà. Da Alexis de Tocqueville a George Bush (Baldini&Castoldi, 2005), con Romano Prodi Ci sarà un'Italia. Dialogo sulle elezioni più importanti perla democrazia italiana (Feltrinelli, 2006), La fine di Israele (il Saggiatore, 2007), con Marco Alloni La civiltà al potere (ADV, 2008).