Un lungo cammino verso La Pace… Aiutateci a fermare Israele. di Daphna Golan*

L'appello dall'Università ebraica di Gerusalemme: anche durante i massacri di Gaza, abbiamo continuato a far finta di niente. Una tregua non basta più: come per il Sudafrica, è necessaria una Commissione per la verità che aiuti ebrei e arabi a vivere assieme. Ma prima il mondo dovrà smettere di venderci armi e, se non rispetteremo i diritti degli arabi, isolare i nostri cantanti, sportivi e turisti.


In lingua ebraica «va' a Gaza» è un modo di dire comune, sinonimo di «va' all'inferno».
Quasi nessun israeliano ha mai vissuto nella Striscia, mentre molti palestinesi di Gaza vivono in campi profughi e Israele lì controlla ancora la vita di 1,5 milioni di arabi anche in seguito al «disimpegno», dopo che nell'estate 2005 i coloni furono costretti a lasciare i loro insediamenti. La maggior parte degli israeliani è stata a favore della guerra contro Gaza anche se non è mai stato chiaro quali fossero gli obiettivi della guerra - nonostante i media ripetevano che c'era «una quantità d'obiettivi» - quale il suo scopo finale e perché non fossero state intraprese strade alternative ai bombardamenti. La maggior parte degli israeliani semplicemente sosteneva: «Non possiamo continuare a non fare nulla mentre Hamas tira razzi nel sud d'Israele».
Anch'io ero d'accordo che bisognasse fare qualcosa per fermare il lancio di Qassam contro Sderot e Beersheva. Ma perché, invece di dialogare con la gente di Gaza - inclusa la leadership di Hamas - abbiamo sparato e bombardato? Nelle giornate di protesta contro l'attacco più devastante a cui abbia mai assistito ho continuato a chiedermi: come è possibile? Come è possibile che la maggior parte degli israeliani appoggi questa guerra dannosa e stupida? Come possiamo vivere quest'incubo senza immaginare come fermarlo? Perché i figli dei miei amici stanno partecipando a questa guerra malvagia? Come possiamo continuare normalmente la nostra vita quotidiana in mezzo a tutto questo?
Penso che all'origine di tutto ciò ci sia una combinazione - condivisa dalla maggioranza degli israeliani - di paura, pregiudizio e mancanza di speranze e futuro. A Gerusalemme abbiamo continuato a insegnare, come sempre. Al sicuro, a poche decine di chilometri dall'area di guerra. Insegno diritti umani e i miei studenti sono sia arabi sia ebrei. Israeliani e palestinesi, religiosi e laici, erano tutti depressi, spaventati e arrabbiati. Ma abbiamo continuato a lavorare, come sempre. Ormai siamo così abituati alle guerre che non ci siamo fermati nemmeno in questo caso. Ma ora io vi prego di fermarci.
Nella prima settimana del conflitto avevo pubblicato un intervento sul quotidiano Ha'aretz proponendo uno sciopero dei campus finché la guerra non fosse finita. Ho ricevuto lettere da università della California e della Gran Bretagna che ci proponevano scioperi di solidarietà, ma qui a Gerusalemme soltanto quattro membri dell'Università hanno aderito allo sciopero di un'ora che stavamo organizzando e, alla fine, nemmeno questa protesta ha avuto luogo.
Sono un'ebrea israeliana, nata e cresciuta in Israele. Avevo dieci anni quando scoppiò la Guerra dei sei giorni, 16 quando iniziò il conflitto dello Yom Kippur. Durante la prima guerra del Libano ero una studentessa e ho conosciuto l'uomo che sarebbe diventato mio marito. Mia figlia è nata pochi mesi prima che, nel 1987, scoppiasse la prima Intifada e, nel 1991, ogni volta che l'allarme suonava ci rifugiavamo con lei e il suo fratellino in una tenda di plastica a prova di armi chimiche. I miei figli sono cresciuti a Gerusalemme negli anni degli attentati suicidi e delle esplosioni sugli autobus. Accompagnarli a scuola rappresentava ogni giorno un viaggio spaventoso. Abbiamo continuato la vita di sempre durante la seconda guerra del Libano nel 2006 - mentre decine di operazioni militari causavano enormi distruzioni - perché durante tutti questi anni ci hanno raccontato che non abbiamo scelta, che Israele vuole la pace ma non ha un partner con cui siglarla e che quindi dovevamo andare avanti, tenendo alto il morale.
Ma ora dico che dobbiamo essere fermati, che non possiamo andare più avanti così. Nessun'arma deve più essere data a Israele per iniziare altre guerre. E se i cantanti israeliani vogliono gareggiare in Eurovisione, gli sportivi giocare nelle leghe europee e i turisti spostarsi da un paese all'altro dell'Unione europea senza bisogno di visto, devono rispettare i diritti di tutti, porre fine all'occupazione militare nei confronti dei palestinesi che va avanti da 42 anni, smettere di fare la guerra e trovare nuovi modi di negoziare il nostro futuro assieme ai palestinesi. Perché nei colloqui di pace - tutti falliti finora - si è sempre discusso di dove tracciare i confini, come separare i popoli, mai di come ebrei e arabi vivranno assieme.
La Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana dovrebbe essere assunta come modello per permettere a ebrei e arabi, a palestinesi e israeliani di smettere di sparare e onorare la memoria dei propri cari morti nel conflitto. Piangere i caduti, curare le ferite, ammettere le sofferenze inflitte a un popolo innocente, discutere del passato e sognare assieme un futuro condiviso. Le guerre contro Gaza non saranno fermate finché non sarà riconosciuto che la Striscia di Gaza è stata creata da Israele. Durante il conflitto del 1948, che i palestinesi chiamano Nakba (catastrofe) e gli israeliani Guerra d'indipendenza, centinaia di migliaia di palestinesi furono deportati o scapparono dalle loro case e non fu più permesso loro di farvi rientro. Le loro terre furono confiscate e la maggior parte dei loro villaggi distrutti e ripopolati da ebrei nel momento della nascita dello Stato d'Israele. Molti dei rifugiati scapparono proprio a Gaza e alcuni di loro hanno abitato in campi profughi negli ultimi 60 anni. Per i primi 19 hanno vissuto sotto occupazione egiziana e, da quel momento in poi, per oltre 40 anni, sotto occupazione militare israeliana. I profughi palestinesi, che rappresentano la maggioranza della popolazione di Gaza, sognano di tornare ai loro villaggi e alle loro terre in Israele, ma Israele non vuole nemmeno ascoltare i loro desideri, perché Israele rifiuta qualsiasi discussione sul passato. Un cessate il fuoco è necessario, ma lo è, allo stesso modo, un percorso di discussione sul nostro passato e sul nostro futuro. E questa trattativa dovrebbe aver luogo tra il maggior numero di parti possibile tra quelle che hanno dato vita a questo conflitto.
Dovremmo discutere della fine dell'occupazione militare a Gaza e in Cisgiordania, del futuro dei profughi e della condivisione di Gerusalemme. Dovremmo discutere di come vivere assieme secondo giustizia, ebrei e arabi, in Medio Oriente. Spero che non sia ormai troppo tardi. Forse ci vorranno molti anni prima che le ferite si rimarginino ma, col vostro aiuto, col vostro rifiuto di appoggiare la guerra, possiamo trovare la via della riconciliazione. Spero di poter continuare a insegnare a studenti ebrei e arabi che quella dei diritti umani non è una lingua straniera, estranea alla nostra realtà e che il loro sarà un futuro di pace e non più di guerre. Per favore, aiutateci a fermare la guerra e costruire la strada per un futuro di giustizia.

*Daphna Golan insegna diritti umani all'Università ebraica di Gerusalemme ed è autrice di «Next year in Jerusalem-Everyday life in a divided city» (New press)