CIAO LUCIO

 


Fondò il manifesto e fu il primo e l'ultimo direttore della nostra «Rivista». Attraversò la stagione del Pdup, poi il rientro nel Pci, fino alla nascita di Rifondazione. Lucio Magri ha deciso di andarsene con il suicidio assistito in Svizzera. La sinistra italiana e i compagni di una vita lo ricordano


Quella notte insieme prima dell'XI Congresso

Pietro Ingrao

Scrivo sgomento, pensando al modo in cui Lucio ha voluto lasciare la vita. Penso a quella ferita così dolorosa, che anch'io ho subito otto anni fa, della perdita della propria compagna. Penso al senso tragico di sconfitta che ha dominato i suoi ultimi anni. Sono pensieri, non spiegazioni: un gesto come il suo rimarrà sempre insondabile, chiede rispetto e silenzio.
Pietro Ingrao Sarebbe però profondamente ingiusto dare addio a Lucio Magri solo con il silenzio. Bisogna dire, ricordare, trasmettere il ricordo ai più giovani e continuare ad ascoltare la sua voce e i suoi pensieri, che ancora hanno tanto da dirci.
Con lui ho condiviso un percorso lungo, appassionante, intenso: non avrebbe senso, tentare di ripercorrerlo in poche righe. Mi limiterò solo a brevi immagini.
Erano gli anni '60, Lucio era stato licenziato da Botteghe Oscure, era momentaneamente senza lavoro. Veniva a pranzo a casa nostra, quasi tutti i giorni. Mia moglie si interrogava, molto prosaicamente: forse non ha i soldi per mangiare. Era solo una battuta: in quei pranzi e in quelle ore passate insieme, si consolidava fra me e Lucio una comune visione del mondo, una tensione al cambiamento che vedeva nel partito il suo soggetto centrale, ma che delle regole del partito sentiva ormai troppo rigidi i vincoli e le liturgie.
Ricordo nitidamente la nottata passata con Lucio nella mia casa di via Balzani a preparare l'intervento che avrei pronunciato all'XI Congresso del Pci, pesando con cura ogni parola: era la prima volta che nel partito veniva rivendicato il diritto al dissenso. Terminammo di lavorare alle due di notte, ed io ero convinto che all'angolo di strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta "vigilanza" del partito, a controllare chi a quell'ora veniva da me. Non era vero, naturalmente; ma a questo ci portava, sentire addosso la condanna ossessiva del cosiddetto "frazionismo", che nel Pci demonizzava ogni sodalizio, ogni condivisione di pensiero, ogni vero dibattito interno.
Fu quella condanna a portare alla drammatica espulsione dal partito di lui e degli altri compagni del Manifesto: è per me ancora una ferita, ricordare che allora non ebbi il coraggio di oppormi. Prevalse in me un'errata concezione dell'unità del partito. Un errore che ancora mi brucia dentro, anche se poi, nei lunghi anni seguiti a quella rottura, fra me e Lucio, e con tutti i compagni del Manifesto si ricostruì nuovamente uno scambio intenso e fattivo, che prese ancora più slancio dopo la svolta dell'89 e la fine del Pci.
Oggi Lucio ci ha lasciati, in giorni bui dominati da gelide dispute sulla Borsa e i bilanci. Un altro ricordo: era il maggio del 1962, in un convegno dell'Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo. Si discusse animatamente, la nostra critica alla relazione di Amendola fu uno dei primi segni visibili della nostra ricerca di un nuovo sguardo sul mondo. In quell'occasione, Lucio parlò del bisogno di una critica a quella che lui chiamò "la società opulenta": la pervasività del mito dell'opulenza in ogni luogo della vita, a colpire l'autonomia dei bisogni umani. In questo presente così aspro e difficile, in cui la politica sembra aver ceduto le armi di fronte ai luoghi della finanza, ho risentito l'eco di quelle parole: non più solo nei miei ricordi, ma negli slogan di chi si accampa davanti a Wall Street.
Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove, perfino di fronte al tempio del capitalismo mondiale.

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Il suo peccato più grande, andarsene in quel modo

Luciana Castellina

Non è facile per me scrivere in morte di Lucio Magri: oltre ad aver condiviso più di mezzo secolo di impegno politico, siamo stati anche compagni di vita, sia pure in un tempo ormai molto remoto. E tuttavia scrivo, cedendo alla richiesta dei compagni del giornale, perché Lucio era ormai fuori dalla vita politica pubblica da moltissimi anni, e in tanti mi domandavano cosa stesse facendo, dove stava.
Luciana Castellina In un'epoca in cui tutta la politica è immagine lui aveva perso visibilità: perché aveva rinunciato ad essere rieletto parlamentare già nel '94, ormai non scriveva più sui giornali, solo raramente raccoglieva l'invito a partecipare a qualche iniziativa. I più giovani, poi, quelli nati quando il Pci stava sciogliendosi e il Pdup aveva già posto fine alla sua storia, forse non l'avevano nemmeno mai sentito nominare, se non dai padri sessantottini.
Per questo vorrei raccontare, soprattutto a chi non l'ha conosciuto, o conosciuto male. Non era disimpegnato, Lucio, neppure ora, tutt'altro. Intanto ci sono gli anni più recenti, quelli in cui fu pubblicata la seconda serie della Rivista del manifesto, fatta assieme al vecchio gruppo che aveva fatto la prima e ad alcuni compagni che allora erano restati nel Pci, fra loro Ingrao e Tortorella. Durò cinque anni, dal 1999 al 2003, e poi, per tante ragioni, cessò. Peccato, perché vi invito a rileggerla, è piena di scritti, di Lucio e di altri compagni, molto interessanti. Fino a qualche tempo fa era leggibile nell'archivio del sito del manifesto, credo ci sia ancora.
Da allora Lucio si è impegnato a scrivere il libro che è uscito due anni fa, ora in edizione economica, già tradotto in Inghilterra da Verso, in Spagna, in Argentina, attualmente in traduzione in Brasile. Un grosso lavoro, non una autobiografia, una ricerca documentata sul comunismo italiano visto nel contesto internazionale, una riflessione attenta, forse la sola che c'è stata, sul più grande partito comunista d'occidente, sulle ragioni del suo successo e su quelle che lo hanno portato a scomparire. Non manca - e questo di continuare ad interrogarsi sul proprio stesso operato era un pregio di Lucio - anche una riflessione critica su alcune semplificazioni nostre, del gruppo del Manifesto, anche se di questa esperienza non si parla direttamente. Il libro si chiama Il sarto di Ulm, titolo di una parabola di Bertold Brecht: il sarto diceva che l'uomo avrebbe volato, il vescovo principe non ci credeva, alla fine, stufo delle insistenze, gli dice «provaci, vai sul campanile e buttati». Il sarto si butta e si sfracella. Ma chi aveva ragione? Perchè è vero che allora il sarto non era riuscito a volare, ma poi l'uomo ha volato. La parabola vale per il comunismo: per ora non ce l'ha fatta, ma domani forse ce la farà.
Non è pessimista né disfattista il libro di Lucio sul comunismo italiano. C'è anzi la testarda dimostrazione che sebbene fosse necessario un rinnovamento profondo del Pci, c'erano motivi validissimi per andare avanti e, in appendice, il documento che aveva scritto nel 1988 come piattaforma per il XVIII congresso che, anche a leggerlo adesso, dopo più di vent'anni, appare documento strategico attualissimo.
Perché Lucio aveva una grande capacità anticipatrice: con Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, negli ultimi tempi, aveva cominciato a raccogliere tanti scritti e documenti della nostra storia, quella di prima del '68, l'epoca della cosidetta corrente ingraiana, poi del Manifesto e del Pdup, moltissimi redatti da lui stesso. Sono di grande interesse perché molte tematiche che sembrano scoperte da poco sono già esplicitate: dalla questione ecologica, alla crisi della democrazia, al declino della supremazia americana e le sue conseguenze. Le "nuove contraddizioni della nostra epoca" non sono invocate come è rituale, ma finalmente analizzate e spunto per una nuova strategia. Credo che dovremmo raccoglierli e farli circolare questi scritti, magari cogliendo così l'occasione di ricordarlo che ora ci manca perché ci ha lasciato detto che non voleva cerimonie funerarie.
Andando in giro per l'Italia trovo tanti, davvero tante compagne e compagni, che mi dicono che la stagione politica vissuta assieme è stata decisiva nella loro formazione. Anche la storia del Pdup, nato come proseguimento di quello che si era chiamato "Movimento Organizzato del Manifesto" quando ci unificammo con il gruppo ex psiuppino di Vittorio Foa, penso dovrebbe esser rivisitata e fatta conoscere.
Questo partito l' avevamo sempre pensato transitorio, perché ci premeva ricomporre le fila del comunismo italiano e non cristallizzare un partitino, una scelta difficile e che molti gruppi della nuova sinistra non capirono e ne fecero anzi motivo di irrisione. Nell'84 avviammo la discussione per decidere se rientrare o meno nel Pci: si era in pieno regime craxiano e un nuovo anticomunismo conquistava terreno, restare divisi non aveva senso, anche perché c'era stata quella che fu chiamata la "seconda svolta di Salerno", quando Berlinguer aveva posto fine all'unità nazionale, denunciato la deriva della politica, e rotto definitivamente con l'Unione sovietica. Fu proprio Berlinguer che, senza preavviso, venne ad ascoltare la relazione di Lucio al nostro congresso del 1984, e poi ci chiese di rientrare, visto che i dissensi che ci avevano diviso erano ormai largamente superati. Forse avvertiva che c'era bisogno, nel Pci, dell'energia dei nostri quadri, per combatterne le derive normalizzatrici . Ma pochi mesi dopo morì e ci ritrovammo in un Pci che era oramai altra cosa, peggiore di quello che ci aveva cacciati. E così fu Lucio a trovarsi in realtà alla testa della contestazione - non conservatrice ma rinnovatrice - allo scioglimento del partito. Il rapporto che tenne ad Arco, dove si tenne l'ultima assemblea della mozione del no alla svolta per il XXI congresso del Pci, quello del gennaio '91, è - anche questo - un lucido e moderno programma per la sinistra. Anch'esso andrebbe riletto.
Lucio non aveva un carattere facile. Il suo più grande amico, Michelangelo Notarianni, diceva di lui che aveva grandissime qualità, ma gli mancavano i sentimenti intermedi. Era assolutamente vero: intellettualmente generosissimo - una quantità di testi non firmati sono in realtà suoi, ma non gliene importava niente che gli venissero attribuiti, gli interessava che quelle idee circolassero - sembrava sgarbato a arrogante; pronto a riflettere sui suoi errori, non perdonava quelli degli altri, perché era oltremodo, fastidiosamente integralista.
Ma il suo peccato maggiore è stato di andarsene così come se ne è andato. Riteneva di non poter più dare niente per una rinascita della sinistra di cui diceva «ci sarà, ma ci vorranno decenni e io comunque non sono più in grado di dare alcun conributo». Sbagliava, naturalmente, perché avrebbe potuto ancora aiutarci. Ma la depressione che lo aveva colto dopo aver seguito giorno per giorno, per tre anni, la terribile agonia di Mara, la compagna con cui ha trascorso gli ultimi 25 anni e che amava moltissimo, l'ha spezzato. Non aveva più motivi che lo trattenessero e noi amici e compagni non siamo riusciti a dargliene di sufficienti.

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Se la vita non è più vita

L'ultima scelta di Magri

Il fardello della libertà

Alfonso M. Iacono

È difficile spiegare cosa sia stato Lucio Magri per molti di noi, intendo quelli della generazione del '68 che andarono a fare il Manifesto un po' dappertutto in Italia, con qualche stupore degli stessi protagonisti di quella storia. Ci accorgemmo piano piano che era lui la mente strategica, capace di coniugare, più di altri, senso politico con visione ideale. Non starò a ricordare le alterne vicende del quotidiano e del movimento politico, né i vincoli molto complessi che hanno legato Lucio con Castellina, Rossanda, Pintor, Parlato, voglio però rimarcare quanto sia stato importante un uomo che nascondeva con pudore un senso laico ed etico della vita dietro il primato della politica. In fondo ciò rappresentava l'invisibile del gruppo del Manifesto, ma Lucio sicuramente ne fu l'espressione più ironica. Allora forse non ce ne rendevamo molto conto, anche perché oscillavamo facilmente e giovanilmente tra moralismo e politicismo, ma oggi è diverso. Oggi non oscilliamo più, subiamo e basta la fine di una morale che resta nelle trame dell'agire politico, mentre ci ostiniamo a riempire carta e file di codici, leggi, indirizzi, auspici che tradiscono un vuoto, quello della politica come pensare e agire critico. Lucio non aveva bisogno di teorizzare un'etica, l'avrebbe forse ritenuto retorico o addirittura ipocrita; la considerava intrinseca a una politica che sa guardare lontano, verso un futuro diverso che comincia con il mutamento del presente.
«Per il comunismo» era il titolo delle tesi del Manifesto. Non starò qui e ora a discutere sull'attualità o meno di ciò che vi era scritto. Lo si vedrà nel tempo. Desidero qui sottolineare un altro aspetto apparentemente laterale, ma solo apparentemente. Dietro quella visione c'era qualcosa che oggi abbiamo perso: un intreccio tra il conoscere e il fare, o almeno un desiderio di concepire un tale rapporto come riempimento della vita che non poteva essere tale se non collettiva, solidale, egualitaria. Nel suo libro Il sarto di Ulm, dedicato a Mara, egli scrive: «Per una persona ormai anziana l'isolamento è dignitoso, ma per un comunista è il peccato più grave, di cui rendere conto. L' ultimo dei mohicani può essere un mito, il comunista solo, e arrabbiato, rischia il ridicolo se non si tira da parte». Un rabbia accompagnata dell'orgoglio e dalla dignità è ciò che vedo nella scelta finale di Lucio. Una scelta di autonomia fino in fondo. Nella Cabala di Isacco Lurjia vi è un dio che si ritrae per lasciare spazio al mondo degli uomini. Il ritrarsi è un atto di amore che tuttavia ha come corrispettivo il grande fardello che sarà portato dagli uomini: la responsabilità e l'autonomia dell'agire. La libertà ha in questo fardello un peso esistenziale che oggi è offuscato dalle polveri dell'autoinganno e del delirio di onnipotenza. Lucio ha voluto portare fino in fondo questo fardello, fino alla libertà di chiudere la vita deliberatamente. Ne sono addolorato, ma ammiro il suo orgoglio rabbioso e la sua dignità. E se guardo lo spettacolo che abbiamo oggi davanti agli occhi di questa sedicente democrazia mercificata e violenta, mi domando se la vera sconfitta non fu nelle idee, ma nel nostro modo di essere. Privato Privato Una decisione meditata e sofferta che lo ha portato ad attraversare un confine fisico e psicologico. Il contrario della passiva rassegnazione

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Bisogna cadere per poter volare

 Aldo Tortorella

La scomparsa di Lucio è un dolore grandissimo e più acuto perché moltiplicato dal senso di impotenza e di sconforto per non aver saputo come trattenerlo. Ma se è vero che ha ostinantamnte voluto andarsene, e che le esortazioni più affettuose alla fine non hanno potuto più nulla, non è vero che lascia un messaggio di disperazione. A chi, fallito ogni altro argomento, gli diceva che almeno per il rischio di questo malinteso lui, vero combattente, doveva tornare indietro dalla sua decisione, rispondeva che ciò che aveva da dire l'aveva scritto. E infatti l'apologo de Il sarto di Ulm è la ripetizione del mito di Icaro: si sfracella al suolo, ma alla fine l'uomo imparerà a volare. Questo voleva dire e questo ha detto con tutta la sua vita.
Se per quelli della generazione della Resistenza l'incontro con i comunisti, come accadde anche a me, fu quasi naturale perché erano i più numerosi e i meglio organizzati, per chi, come Lucio, aveva qualche anno di meno e cresceva nel clima dell'anticomunismo più esasperato, dei processi ai partigiani, delle scomuniche - e dello stalinismo - avvicinarsi al Pci fu una conquista intellettuale complicata e difficile. E, ancor più, lo sforzo per modificarlo. Con uno statuto come quello che il Pci aveva allora ogni esplicito raggruppamento appariva una violazione della regola. La nascita del Manifesto fu il segnale che la regola era sbagliata, ma non avemmo la capacità di modificarla se non quando fu troppo tardi. Ci ritrovammo quando toccò a me, per incarico di Berlinguer, organizzare con lui la fusione del Pdup con il Pci. Era stato con me vice segretario del comitato regionale lombardo del partito quando io lo dirigevo. E fummo insieme per l'ultima battaglia del Pci.Lucio non mi ha dato mai molto ascolto, né prima né dopo. Non mi ha dato ascolto neanche questa volta. Ma questa volta mi ha fatto soffrire.

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La passione del confronto

 Loris Campetti

Mi ha molto addolorato ma non sorpreso la morte di Lucio. Il giorno della morte della sua dolce Mara mi telefonò per assicurarsi della mia presenza al funerale. «Vieni - mi disse - sarà anche il mio di funerale». Disperatamente ha deciso, in assoluta libertà, della sua vita e la sua morte. Lucidamente, anche, del resto non lo chiamavamo «il lucido»? La sua fine è una metafora della sorte toccata a tanta sinistra, o forse scelta. Non è il nemico il male che ti uccide ma il peso di un fallimento, il fallimento d'un sogno concretissimo e straordinario. Al contrario è stato per altri, per grandi storie collettive e piccole miserie, non il fallimento del sogno uccide ma l'abiura, la negazione di sé e di ciò in cui si è creduto.
Lucio non ha sopportato di vivere in solitudine due lutti: uno politico che avremmo dovuto elaborare insieme e l'altro privatissimo, non socializzabile. Per il primo siamo tutti colpevoli, anche di non aver avuto la sua ostinazione. Ancora pochi mesi fa Lucio cercava il confronto su un punto che ci aveva divisi: il rapimento di Aldo Moro e la spaccatura tra chi sosteneva la trattativa con i suoi rapitori - il manifesto - e chi invece rivendicava la fermezza dello stato - il Pdup. Ricordo di quei giorni un'assemblea dentro lo stabilimento di Mirafiori, reparto selleria, centinaia di donne in sala e sul palco gli oratori, uno del Pci, uno del Psi, io e un compagno del Pdup. Io avevo sostenuto la necessità di trattare, il compagno del Pdup la tesi opposta. A un certo punto un'anziana operaia in prima fila smise di fare la maglia, si abbassò gli occhialetti sul naso e ci fulminò: «Scusate, ma voi due non siete dello stesso partito?». Ne riparlai con Lucio, ci scherzai sopra e invece lui, determinato come trentatre anni prima, mi ripetè con impeto tutte le sue ragioni.
È uscito di scena, Lucio, nella forma che ha scelto e che evidentemente gli era più congeniale. Altri, come Federico Caffè, ci hanno lasciato senza tracce e senza messaggi, semplicemente scomparendo. Risparmiamo a Lucio Magri ipocrisie e moraline non richieste e inutili, teniamoci il nostro dolore e una solitudine accresciuta dalla sua uscita di scena.

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Un'avventura intellettuale
 
Alfonso Gianni

Lucio Magri se ne è andato. Una delle intelligenze più vivaci e creative che io abbia mai incontrato non è più con noi. Lucio ha lasciato scritto che non vuole commemorazioni, specie se ufficiali. Ne conosco la ragione. Tempo addietro, ma non molto, a conclusione della cerimonia funebre per la scomparsa di un famoso e autorevole compagno, Lucio commentò con alcuni di noi che sentire certi discorsi è come assistere a una doppia sepoltura. Oltre quella fisica, anche quella intellettuale. Nessuno, egli diceva, ha il coraggio di raccontare la vita di chi se ne è andato, di dire veramente che cosa ha rappresentato, quali sono state le sue caratteristiche, quale il suo apporto specifico, quali i suoi punti deboli. Così di ognuno si ha una immagine sfocata, menzognera, che non rende merito né alla storia dell'individuo né a quella della comunità cui ha appartenuto. Nella melassa tutto è insapore.
La tua vita, Lucio, no. Non è stata così. Ha avuto il sapore invidiabile di una spericolata avventura intellettuale. Hai attraversato il tuo secolo con la consapevolezza di vivere la storia come presente. Ti sei sempre sforzato di guardare oltre e comprendere ciò che ti aveva preceduto. Il tuo ultimo libro, che ti ha trattenuto in vita un poco di più e ora ci parla con le diverse lingue nelle quali è stato tradotto, «Il sarto di Ulm» insomma, ce la racconta quella storia.
So quale era il tuo intento. Ce lo hai ripetuto diverse volte, un po' perché non ti fidavi che ci arrivassimo da soli, un po' per studiare le nostre reazioni. Volevi dimostrare che la storia del comunismo italiano - e non solo - non era stata quella che gli stereotipi postottantanoveschi avrebbero preferito consegnarci. Non era fatta solo di errori e orrori. Volevi preservare quel filo rosso che si annodava attorno ad un nocciolo fatto di ragione, di analisi, di critica dell'esistente, di fiducia in un'alternativa possibile oltre che necessaria. Vedevi i nuovi movimenti nascere e infrangersi contro la dura scorza di un capitalismo che sa rinnovarsi, ora frantumando le intelligenze che gli si ergono contro, ora curvandole verso di sé. Sapevi perfettamente che senza un pensiero forte, senza il recupero e l'innovazione di un progetto generale, senza la spinta e il rovello di un'idea altra e alta di vita e di società, la nuova battaglia contro il nuovo capitalismo sarebbe stata nuovamente perduta. Non sopportavi perciò che nella sinistra che pur con generosità voleva mantenersi e innovarsi come tale, la retorica facesse agio sulla persuasione. Per te così minuzioso nell'analisi, determinato nella costruzione politica, ironico e realista, quel certo conformismo dell'alternativa risultava insopportabile. E perciò non perdevi occasione, con tenacia e lucidità, con chi ti capitava a tiro, a condizione che meritasse la tua attenzione, di riaprire la discussione sul cosa e sul come fare.
Fosse stato solo per questo, non ci avresti abbandonato anzitempo. Chi attribuisce la tua scelta al senso di sconfitta, non ti ha conosciuto ed ha perso l'occasione di farlo anche in questa suprema occasione. No. La tua dipartita è un atto d'amore, non di rassegnazione. Non è sempre così. A volte il tempo rende le persone impermeabili. Nel caso tuo è successo il contrario. È come se il tempo ti avesse reso più accogliente, avesse scavato in te aumentando la capacità d'accogliere sentimenti, affetti, emozioni, amore. Credo che questa sia stata la tua vita con Mara. Per questo hai concluso non ci fosse modo di sopravviverle, malgrado gli sforzi delle compagne, dei compagni e degli amici di una vita, se non per ultimare ciò che anche a lei, soprattutto a lei, avevi promesso. Così facendo hai restituito a noi che viviamo nella e di politica, la nostra dimensione perduta di persone.
Hai voluto morire da vivo. E anche questo lo hai fatto nel modo migliore, non lasciando nulla al caso o al furore. Quindi continuerai a vivere con noi, nei nostri cuori e nelle nostre menti.


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A Bergamo, negli anni '50

 Giuseppe Chiarante

È con profonda commozione che in un momento come questo ricordo gli anni così lontani in cui conobbi Lucio, strinsi con lui un'amicizia che sarebbe durata tutta la vita, avviammo insieme una comune ricerca culturale e politica che ci portò dall'iniziale esperienza nella sinistra democristiana di orientamento dossettiano all'impegno nel Partito comunista e più in generale nella sinistra italiana.
Ho conosciuto Lucio quando ancora eravamo ragazzi, a Bergamo, dove frequentavamo il liceo classico Paolo Sarpi, sia pure in classi diverse essendo Lucio più giovane di me di tre anni. Fu dunque in una città a larghissima prevalenza cattolica come Bergamo che compimmo i primi passi del nostro comune impegno politico, entrando nei Gruppi giovanili della Dc che erano allora fortemente influenzati da personalità della sinistra cattolica come Dossetti, Lazzati, La Pira. Ma così io come Lucio avvertimmo ben presto la sollecitazione, che si manifestò con forza crescente nell'Italia degli anni Cinquanta, a mettere in discussione il prevalente indirizzo conservatore dei governi dell'epoca e a dare una più coerente attuazione alla Costituzione repubblicana attraverso il recupero di un'intesa tra i partiti che avevano dato vita alla Resistenza e all'Assemblea costituente. In questo orientamento di grande stimolo fu il rapporto che - soprattutto dopo il nostro trasferimento a Roma come dirigenti giovanili democristiani - stabilimmo con Franco Rodano e il gruppo che già prima del '45 aveva dato vita al movimento dei cosiddetti «cattolici comunisti». E d'intesa con Rodano e i suoi collaboratori e con Melloni e Bartezzaghi deputati espulsi dalla Dc per avere votato contro il riarmo e contro l'Alleanza atlantica, promuovemmo il settimanale Il dibattito politico, impegnato su una linea di aperta ripresa del dialogo e della collaborazione con i partiti della sinistra.
Inevitabile, su queste basi, fu lo scontro con la segreteria democristiana, che aveva alla testa Fanfani ed era nettamente contraria all'apertura a sinistra. Io, che nel '54 ero stato eletto al congresso di Napoli membro del consiglio nazionale della Dc pur non avendo ancora 25 anni, fui espulso dalla Democrazia cristiana; Magri lasciò a sua volta quel partito e sviluppando sempre più sul dibattito politico il tema di una linea di rinnovamento civile ed economico del paese decidemmo nel 1958 di entrare nel Partito comunista, impegnandoci sin dall'inizio nel dibattito che già era aperto sull'esperienza di centro-sinistra, collocandoci su una linea più vicina a quella di Pietro Ingrao che alla destra capeggiata da Giorgio Amendola. Cominciava così per noi una nuova esperienza politica, che ci avrebbe portato anche a posizioni diversificate, restando però sempre vivo il legame di solidarietà e di amicizia.

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Intelligenza politica e gentilezza

 Gianni Ferrara

Mi ha telefonato, lunedì, un po' dopo le 10. Mi ha detto che voleva salutarmi e mi abbracciava. Era la sua voce di sempre, solo un poco più ferma. A quel che ho provato ancora a ripetergli, ha risposto che mi abbracciava. Ho avvertito un silenzio durato alcuni secondi. Li ha interrotti un clic, agghiacciante. Ho conosciuto tardi Lucio Magri. Trenta anni fa, ai tempi di Pace e Guerra. Lucio mi chiamava Giacinto, alludendo alla mia provenienza (il Psi di Nenni, Basso, De Martino, Lombardi) e collocandomi idealmente tra i massimalisti di Serrati, passati al Pcd'I nel 1924. Si discuteva molto nella redazione di quel settimanale e molto bene. Mi impressionò l'attenzione di Lucio per ogni intervento ma anche la giustezza della scelta che suggeriva sul tema e sul tono del numero da redigere. Soprattutto le argomentazioni che usava nel motivare e il grande rispetto delle opinioni che non condivideva. Ho capito dopo che si trattava di un tratto tipico della sua personalità. L'acutezza della sua intelligenza politica, la solidità della sua cultura, mai ostentata, si accompagnavano alla gentilezza d'animo. Teneva moltissimo al giudizio degli altri, alla solidarietà che per lui non era solo un rapporto emotivo, ma intellettuale, culturale. Nel dirigere la Rivista del manifesto, la cercava ancora. È che Lucio amava i suoi simili.
Gli ho sentito tante volte deprecare che della triade della Rivoluzione borghese si era perduta la memoria del terzo ideale: la fraternità. Tante volte ha lamentato che la sconfitta della Rivoluzione proletaria rinviava chissà per quanto tempo la nascita dell'uomo nuovo, l'opposto di quello di Hobbes. Per me Lucio è il compagno che mai ha smesso di credere a quegli ideali che ci resero rivoluzionari.




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Ritratto di Anonimo

Ciao...

Vladimiro