Per "uscire dalla politica" 4 - Intervista a Marco Revelli

 

 

“La sinistra ha una sola chance: andare oltre il secolo scorso” 

Un paese più povero di come ci si immaginava. Più povero e forse ancora più incapace di prima a reagire. Alle ragioni che hanno prodotto quella povertà. E' un ragionamento lungo quello che fa Marco Revelli, una delle figure di intellettuale più rilevanti nella storia della sinistra, oggi professore a Torino di Scienza della politica e presidente della commissione incaricata da Prodi di studiare l'esclusione sociale. Si parte dai dati. Con un'ultimissima premessa: «I numeri della commissione che presiedo ancora non sono stati resi pubblici. Quindi se parliamo di cifre dobbiamo riferirci a quelle pubblicate dalla Caritas».

Cominciamo dalla Caritas, allora. Che paese raccontano quei numeri?
Che il fenomeno della povertà è gigantesco. E si parla dei dati della Caritas - che comunque si muovono sulla falsariga di quelli indicati dall'Istat - che utilizzano sempre un "indicatore" ufficiale. Diciamo quello "legalmente" adottato nel nostro paese. Che misura ciò che chiamiamo la povertà relativa.

Cos'è?
Direi che è intuitivo. Il parametro misura il livello di disuguaglianza sociale. Perché se uno guadagna 500 euro in alcuni paesi del mondo potrebbe sopravvivere, in Italia no. Qui da noi si considera una famiglia povera quella dove due persone guadagnano il 40% in meno della media del potere di acquisto dei singoli individui. Media che è di novecento settanta euro per il 2006. Quindi si considerano famiglie povere quelle dove due persone guadagnano circa 500 euro a testa.

Ti sembra un criterio realistico per definire la povertà?
Innanzitutto diciamo che in questa categoria rientrano 7 milioni e mezzo di persone. Sempre nel duemila e sei. Ma c'è di più, c'è molto altro. C'è una fascia consistente di persone che possiamo definire "quasi povera". Che è al limite, che magari oggi ce la fa, ma è decisamente a rischio. E stiamo parlando di un esercito che sta nella fascia fra la linea di povertà e il venti per cento in più.

Quindi?
Quindi poveri e quasi poveri nel calcolo della Caritas fanno 15 milioni.

Prima parlavi dei «parametri ufficiali» adottati dall'Italia. C'è qualcosa che non ti convince in queste misurazioni?
Non si tratta di questo. Però è vero che in Europa si utilizza un altro metodo. Te la faccia breve: l'indicatore europeo ha una soglia leggermente più alta e considera a rischio di povertà il 20 per cento della popolazione. Anziché il 13 per cento, come risulta dai dati ufficiali. E non basta. Alla povertà conclamata occorre aggiungere la povertà che chiamiamo occulta. Per esempio: una famiglia con due salari che arriva a guadagnare mille e seicento euro, secondo i nostri criteri non può essere considerata povera. Però quel salario di famiglia magari andrebbe depurato dei soldi per il mutuo, per le le rate, per il credito al consumo, per le carte di credito del mese prima, ecc. Andrebbe insomma depurato dei soldi che solo nominalmente sono in busta paga. Ma che in realtà sono già impegnati. Tutto questo ci dice che la società italiana è davvero «scassata»: d'altra parte le statistiche europee che permettono una comparazione, ci relegano agli ultimi posti della graduatoria continentale. Dietro di noi ci sono solo Grecia, Lituania e Polonia.

Ed è cambiata la composizione di quest'esercito di poveri nel corso degli anni?
Anche questo è un dato drammatico. Perché da molti anni la povertà non si è ristretta, anzi al contrario si è consolidata. E' stabile, dall'inizio del decennio. E' diventata uno zoccolo duro, insomma. E non è finita...

Che altro c'è?
Mi chiedevi come fosse cambiata la composizione dell'esercito dei poveri. Bene, ormai anche in Italia ci sono i working poor. Una figura che non esisteva fino a qualche anno fa. Invece, i dati ci dicono che dentro o attorno alla soglia ormai c'è anche chi ha un posto. E una famiglia operaia su dieci non ce la fa.

A questo punto la domanda forse più interessante: ma se questa è la fotografia del paese come ti spieghi che da anni in Italia manca una vera opposizione sociale? Perché il paese, questo "pezzo" di paese non esplode?
La risposta è davvero complessa...

Proviamo a renderla in pillole.
Torniamo allora indietro, alla fine degli anni '70. Quando chi dirigeva la Federal Reserve, quando chi governava davvero l'economia mondiale impose una svolta a centottanta gradi. Fino ad allora, la crescita, la crescita dei singoli stati, aveva come valore la piena occupazione. Un effetto della crisi del '29. Da allora in poi, si decide di far cadere quella priorità. Da allora in poi l'obiettivo diventerà la lotta all'inflazione.

C'entra qualcosa con l'aggravarsi della condizione opperaia?
Naturalmente. Il salario operaio diventa un'ossessione, deve diventare una variabile subalterna. Il risultato del lavoro di questi decenni è stata la fine del lavoro come universo sociale autonomo. E' stata una vera e propria guerra al lavoro...

Guerra che hanno vinto gli altri, giusto?
Sì, l'hanno vinta. Perché hanno ridotto la massa di denaro destinata ai salari, hanno polverizzato il lavoro, distrutto le loro rappresentanze. Con un problema, però...

Quale?
Che il dogma keynesiano - garantire la domanda aggregata - doveva essere aggiornato. In qualche modo doveva essere aggiornato. Fino ad allora, per capire, un minimo di redistribuzione salariale aveva garantito che fosse alimentata la domanda, quindi la crescita, quindi i profitti. Con l'attacco ai salari quel meccanismo non poteva più funzionare.

E come hanno fatto quadrare il cerchio?
Alimentando i consumi col credito. Con i prestiti. Hanno rastrellato risorse globali, con le cosiddette tossine finanziarie, assolutamente virtuali, in modo da continuare a far crescere i consumi. Sono arrivati, insomma, a quello che chiamano keynesisimo di mercato. Il tutto però è scoppiato in queste ore.

Ma resta la domanda: perché l'impoverimento non ha prodotto opposizione?
Perché il lavoro non è stato solo sconfitto, è stato liquefatto. E' stato privato di una soggettività autonoma, è stato umiliato. Cancellato. Di più: l'azzeramento sociale del lavoro, alla fine, è stato introiettato dai salariati. Gli stessi lavoratori oggi non si definiscono come classe, non si definiscono in base al ruolo dentro il processo produttivo. Si autorappresentano come consumatori.

Oggi, poi, c'è la crisi dei mercati.
La crisi non del capitale finanziario, come si ostina a dire qualcuno. Ma del capitalismo tout court perché ormai la separazione, che pure qualcuno continua a fare anche a sinistra, fra capitale finanziario e quello produttivo, davvero non ha più senso. La finanza è il motore dello stesso apparato produttivo. Crisi che arriva nel vuoto della soggettività del mondo del lavoro.

E ora?
E ora anche gli iperliberisti sperano nel ritorno in campo della politica. Visto che l'economia è in rotta riapriamo le porte al primato del pubblico. In una sorta di pendolo. Ma non funziona così, sarebbe esattamente come se uno zoppo decidesse di affidarsi ad un cieco. Non c'è speranza…
Dunque, non c'è nulla da fare?
Io vedo solo che la crisi del capitalismo rischia di trascinare tutto dietro di sè. Rischia di diventare una crisi di civiltà. E fino ad ora non c'è nessuno che progetti il modo di opporvisi.

Neanche la sinistra?
Le note dolenti vengono proprio da lì. Da una sinistra che ha il fiato corto. Sì, al pensiero unico si contrappone il pensiero corto.

Cosa dovrebbe fare la sinistra?
Avere il coraggio di ripartire esattamente da zero. Dovrebbe avere il coraggio di rinunciare ai propri dogmi. di superare la propria storia. Gloriosa ma inattuale, dovrebbe avere il coraggio di andare "oltre" il secolo scorso...

«Oltre», dici. Parola impegnativa, non trovi?
Sì, oltre. Oltre un pensiero che resta sempre dentro lo schema classico del keynesismo. Ci vorrebbe coraggio, rischio. Ma vedo che ancora non si comincia. Vedo cortei, che sono importanti, vedo bandiere, che magari sono altrettanto importanti. Ma ancora non si è capito che drammatica partita si gioca in questo passaggio. Cortei, bandiere e simboli del secolo scorso ci scaldano il cuore ma non bastano più.

Liberazione, 18/10/08

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Ritratto di Gianni Marchetto

è la prima volta che sono totalmente d'accordo con Marco Revelli. Più oltre manderò una mia riflessione. Ciao da Gianni Marchetto