Appunti per una definizione di "Autonomia". di Franco Berardi "Bifo"

Autonomia, attualità d'una parola estraneità e rifiuto del lavoro

Anticipiamo la prefazione al secondo volume "Autonomi" da oggi in libreria per DeriveApprodi. Ancora oggi, dopo tanti anni, il significato del termine resta per molti vago. Uno dei protagonisti di quella storia ci spiega che cosa vuol dire davvero.

Il termine "autonomia" circola nel linguaggio politico-giornalistico a partire dalla metà degli anni Settanta, per designare una nebulosa di formazioni politiche e di esperienze sociali abbastanza eterogenee che si andavano diffondendo in quegli anni, e per indicare la crescente indipendenza dei movimenti di base degli operai e degli studenti dalle centrali sindacali e politiche ufficiali. Ma il senso della parola rimane vago: ancor oggi con quella parola si designa una certa predisposizione a violare le regole della legalità, ma questo è insufficiente a spiegare la fortuna che il concetto di autonomia ha avuto nella situazione italiana degli anni Settanta, e poi nei decenni successivi in larga parte del mondo occidentale. Cerchiamo dunque di definire il significato di quella parola partendo da una prima definizione, quella dell'estraneità.

Estraneità
Negli anni Sessanta e Settanta, in Italia e più generalmente nell'Europa occidentale la classe operaia industriale aveva raggiunto una dimensione sociale maggioritaria, e aveva maturato condizioni di omogeneità e di potenza produttiva sufficienti per contrastare l'iniziativa capitalistica sul terreno del processo lavorativo e della distribuzione del reddito. Due decenni di sviluppo economico ininterrotto avevano portato a condizioni di quasi pieno impiego, avevano ridotto al minimo l'esercito industriale di riserva e quindi accresciuto la forza di contrattazione degli operai industriali a livelli mai conosciuti prima. Contemporaneamente la diffusione delle tecniche di produzione seriale, la catena di montaggio, e l'irregimentazione che ne derivava portavano a livelli molto alti la conflittualità degli operai, soprattutto quelli giovani, soprattutto quelli di recente immigrazione, scarsamente abituati alla prospettiva di una vita di lavoro industriale e alle condizioni di vita metropolitana. Lo sviluppo postbellico si era fondato su un costante aumento della produttività, e sul contenimento dei salari. L'insieme di queste condizioni portò a una fase di instabilità e di tensione quando una serie di elementi politici e culturali in larga parte esterni alla fabbrica, finì per rafforzare le componenti operaie più radicali, e per dare credibilità, forza, urgenza a richieste di riduzione dello sfruttamento e di aumento della quota di reddito destinata ai lavoratori.
"Più soldi e meno lavoro" è una parola d'ordine che circola dalla metà degli anni Sessanta in gran parte dei circuiti sociali operai dell'intero mondo occidentale (e a ben guardare non soltanto del mondo occidentale). Ma quella parola d'ordine andrebbe completata con la formula: "per il resto sbrigatevela voi".
"Più soldi meno lavoro, per il resto sbrigatevela voi" è una formula che rende in maniera appropriata il significato della parola autonomia, in quella fase.    L'affermazione di un interesse particolare, settario, settariamente classista non significava affatto grettezza e ristrettezza di prospettive. Al contrario, significava comprensione del carattere universale e universalmente umano della rivendicazione di libertà dal lavoro di cui era portatore l'operaio massa che si era formato alle linee di montaggio dell'industria.   La rivendicazione di aumenti salariali e di riduzione dell'orario di lavoro appariva in quell'insorgenza come una rivendicazione senza contropartite politiche, senza coinvolgimenti nella gestione sociale complessiva. Mentre gli operai comunisti che negli anni Venti o negli anni Cinquanta avevano diretto ondate di lotte contro il capitalismo collegavano le loro richieste di aumenti salariali o di miglioramento delle condizioni di lavoro alla prospettiva di assunzione di responsabilità politiche di governo della società, e in questa prospettiva avevano rinunciato alla radicalità e all'immediatezza dell'interesse operaio - i giovani immigrati che in quegli anni affluivano nelle fabbriche del ciclo dell'auto, pur conoscendo la tradizione politica del comunismo, pur condividendo i valori culturali che esso aveva loro trasmesso, non si ponevano in un'ottica di gestione condivisa della società, ma affermavano il loro interesse sociale senza disponibilità alla mediazione politica in nome della indipendenza operaia dall'interesse generale della società capitalista.

 

Rifiuto del lavoro

Una seconda definizione del concetto di autonomia va legata al concetto di rifiuto del lavoro, e alla implicita violazione delle regole produttive stabilite dal capitale e dalla mediazione sindacale e politica di tipo lavorista. L'espressione "rifiuto del lavoro" non significa soltanto il fatto ovvio che gli operai non amano lo sfruttamento e cercano di sottrarsi alla prestazione salariata quando possono e come possono, ma significa anche un'altra cosa, più complessa: che la ristrutturazione tecnologica è l'effetto della quotidiana sottrazione dallo sfruttamento, del rifiuto più o meno organizzato dell'obbligo di produrre plusvalore.    L'autonomia dell'operaio massa dal suo ruolo produttivo ha provocato un terremoto sociale che ha scatenato la deregulation capitalistica. La parola deregulation fa la sua comparsa sulla scena ideologica negli anni Settanta come registrazione rovesciata dello spirito destrutturante del pensiero libertario e antiautoritario. La deregulation di impronta liberista raccoglie la spinta antistatale e antinormativa della tradizione libertaria e la trasferisce sul terreno economico. L'individualismo, che si manifestava nel movimento autonomo come rivendicazione della propria indipendenza dall'interesse generale del capitale, si ripresenta allora rovesciata come affermazione violenta e assolutistica dell'interesse immediato del capitalista.   Con l'affermarsi delle politiche neoliberiste la libertà dalla regolazione di stato si trasforma in una forma di dispotismo delle regole competitive dell'economia sul tessuto sociale, sulla vita quotidiana delle persone concrete. Il movimento di autonomia anticipò una tendenza iscritta nello sviluppo produttivo, la tendenza verso la liberazione delle energie e delle attese culturali, consumistiche, esistenziali dalla gabbia dell'interesse generale.      Deregulation non significa solo emancipazione dell'impresa privata dalla regolazione di stato e riduzione della spesa pubblica e delle protezioni sociali. Significa anche flessibilizzazione del lavoro. La flessibilità del lavoro è l'altra faccia dell'emancipazione dalla disciplina capitalista. In effetti negli anni Sessanta e Settanta si diffuse nella cultura proletaria e giovanile un rifiuto per la dipendenza salariata, per il lavoro fisso visto come una prigione a vita, e quindi anche una predilezione per i rapporti di lavoro precari, saltuari, temporanei. "Precario è bello" voleva dire libertà dal lavoro dipendente, fisso, eterno. Naturalmente bisogna tener conto del fatto che negli anni Settanta la precarizzazione si svolgeva in condizioni favorevoli ai lavoratori, mentre l'offensiva liberista degli anni successivi è riuscita a rovesciare questo rapporto di forza. E forse il segno più profondo e più malinconico della sconfitta politica e culturale dell'autonomia sta proprio nel fatto che trent'anni più tardi la richiesta che proviene pressante dai movimenti giovanili è quella di una garanzia del posto di lavoro dipendente, la richiesta di un equo rapporto di sfruttamento e di subordinazione.    E' in queste condizioni che oggi dobbiamo cercare le tracce del percorso di autonomia nella sua attualità e nelle sue nuove, imprevedibili possibilità.

Antistoricismo
Una terza definizione del concetto di autonomia riguarda la concezione del processo storico nel contesto della crisi dello storicismo.   
Il movimento rivoluzionario del ‘900 ha costruito le sue strategie nel quadro della prospettiva (dialettica) della sostituzione di un modo di produzione di tipo socialista al modo di produzione capitalista, come la successione di una totalità a dominante ad un'altra. Ma l'esperienza storica ha dimostrato che le formazioni sociali non si succedono come totalità, ma si stratificano, accumulandosi e sovrapponendosi. Il concetto di rivoluzione, che ha avuto un ruolo decisivo nell'epoca moderna, ha finito per rivelare una funzione puramente ideologica: nessuna rivoluzione si è mai effettivamente verificata nel corso della storia umana, se con rivoluzione si intende la cancellazione di un modo di produzione per effetto di un'azione politica volontaria, e la sua integrale sostituzione con un modo di produzione rinnovato. Le forze sociali che si mettono in movimento non si battono per abolire una totalità, né per istaurare una totalità alternativa. Si battono piuttosto per creare spazi di vita indipendente, di definizione autodeterminata dei modi di produzione, delle forme di vita, degli apparati tecnologici. Si battono cioè per convivere con le altre configurazioni sociali e culturali, per accoglierle senza esserne invase.

Liberazione, 23/10/07

 


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