Il Kenya e il razzismo culturale dell'occidente. di Sabina Morandi, da "Liberazione"

Sabina Morandi ci aiuta a capire come le analisi occidentali della situazione africana

sono superficiali e incapaci di cogliere cause e complessità dei conflitti. Dietro c'é una cultura razzista che ha difficoltà a fare i conti con le proprie responsabilità storiche vicine e lontane.

La furia dell'Africa e il nostro razzismo incurabile

Possibile che un continente non meriti un'analisi un po' meno superficiale?

E' davvero triste constatare quanto ancora il razzismo sia radicato in Occidente, perfino fra la cosiddetta sinistra che - complice il solito provincialismo italiota - non ha ritenuto opportuno spendersi troppo per capire cosa sta succedendo in uno dei pochi paesi frequentati dai nostri connazionali. Non sono serviti i vari forum sociali - fra cui l'ultimo, quello mondiale, che si è svolto proprio un anno fa e proprio in Kenya - né l'intensa attività di una vice-ministro alla cooperazione con specifico mandato africano - per dissipare i soliti stereotipi o almeno accendere un minimo di curiosità nello sguardo dei nostri raffinati commentatori. Niente da fare: i negri si ammazzano per problemi tribali - antichi odi etnici o, quando va bene, religiosi - e l'unica cosa che resta alla comunità internazionale è dare mandato a una delle fazioni in lotta, o agli spuntati fucili dei caschi blu, di contenere le brutali pulsioni che continuano a correre sotto traccia malgrado l'apertura dei mercati, gli investimenti stranieri, gli aiuti eccetera eccetera…

Qualche anno fa, quando la catastrofe sociale causata dalla cleptocrazia del presidente Moi stava prendendo la forma della ribellione delle città costiere a prevalenza musulmana, si era almeno concesso ai kenyoti l'onore di una "deriva fondamentalista". A Mombasa i perfidi islamismi erano tornati a imporre il velo invece di lasciare le povere ragazze libere di mostrare il volto agli acquirenti bianchi. Che la deriva fondamentalista abbia qualche connessione con il turismo sessuale che impazza nel paese? L'attuale esplosione di violenza non costringe nemmeno a porsi queste scomode domande: riguarda una zona lontana dalle magnifiche spiagge dove i nostri compatrioti hanno praticamente fondato, a Malindi, una sorta di colonia. Siamo nella Rift Valley, gli altopiani dove ebbe origine la nostra specie e dove da sempre si contrappongono i nomadi masai e gli stanziali kykuyu, "i miei kikuyu", come li chiamava Meryl Streep in "La mia africa", che i britannici utilizzarono in chiave anti-masai ma che, alla fine, ebbero un ruolo centrale nell'indipendenza.

I masai - come tutti i nomadi del pianeta - soffrirono drammaticamente l'avvento di una modernità fatta di recinzioni, strade, confini e ferrovie. Le etnie stanziali - ovunque vincenti - dimenticarono l'importanza del ruolo dei nomadi come guardiani dell'ecosistema. Il perché dell'attuale recrudescenza dell'antico conflitto è presto detto: i due candidati, Kibaki e Odinga, hanno lo stesso programma economico e più o meno gli stessi metodi, come prescrive il devastante modello di democrazia "tutto compreso" che conosciamo molto bene. Sia il presidente che il suo rivale hanno quindi fondato la propria campagna elettorale su di un approccio che potremmo definire "mastelliano" - buon vecchio clientelismo su base localistica e familista - utilizzando la leva della disperazione economica in chiave rivendicativa. Insomma, ognuno dei candidati ha pescato nel torbido - ma forse è più esatto dire che sono stati costretti a farlo visto che, in Africa come da noi, non si fa carriera politica con proposte che si discostano anche di un millimetro dalla ricetta economica del Fondo Monetario. Per dirla semplicemente: un candidato non può promettere di reintrodurre il welfare per alleviare la sofferenza di chi è sotto la soglia di povertà (metà della popolazione del Kenya) ma può promettere lavoro - o medicine o case - ai suoi, in caso venisse eletto. Dopo anni di saccheggio indiscriminato che hanno trasformato questo ricchissimo paese in una polveriera, perdere delle elezioni, più o meno truccate, è qualcosa che si possono permettere in pochi.

L'anno scorso, durante il Wolrd Social Forum di Nairobi tutti questi problemi furono messi sul tappeto dalle migliori componenti della società civile keniota (ma i giornalisti di sinistra escono mai dagli alberghi?). Fu un Forum sofferto, pieno delle contraddizioni di una città come Nairobi, letteralmente circondata di baraccopoli infernali e di ragazzi totalmente privi di qualunque prospettiva. Poi viaggiammo verso l'interno, attraversando anche i luoghi degli scontri attuali. Visitammo il famoso lago dei fenicotteri rosa, vicino Nakuru, dove gli effetti del riscaldamento globale combinati con quelli della deforestazione stanno rosicchiando rapidamente il bacino mettendo in pericolo l'industria del turismo e dei safari che, oltre a dare lavoro a un bel po' di gente, fornisce qualche motivo concreto per tenere da conto l'ecosistema. Dalle parti di Naivasha, altro luogo di massacri, è stata imboccata la strada suggerita in modo poco disinteressato dagli investitori e dagli organismi internazionali: produrre fiori per conto delle imprese del nord che li esportano ogni giorno verso l'Europa. Più che il clima, il vantaggio comparativo del Kenya è costituito da una manodopera che si può pagare poco e avvelenare molto. L'immagine delle enormi serre e della folla di operai e operaie che, dopo avere trascorso la giornata in mezzo a pesticidi ed erbicidi vietati da noi (naturalmente privi di qualunque protezione) vengono caricati sulle corriere, faceva una certa impressione. La visione delle "città delle serre" - fatte di baracche di lamiera e accatastate in fretta e furia negli incroci stradali, già complete di bambini che sniffano colla e di prostitute bambine - faceva semplicemente orrore. Davvero stiamo parlando di scontri etnici? Possibile che l'Africa non sia nemmeno degna di un'analisi un po' meno superficiale?


Liberazione, 30/01/2008