Dopo l'omicidio di Gabbo. La (ir)responsabilità di Stato e quel gruppo di potere inamovibile che guida la polizia da dieci anni

di Anubi D'Avossa Lussurgiu
Per conoscere il ruolo avuto dai vertici del Viminale nelle decisioni assunte domenica dopo l'omicidio di Gabriele Sandri, abbiamo dovuto leggere la Repubblica di ieri. Ne dava conto in particolare Carlo Bonini riportando virgolettati del capo della Polizia, Antonio Manganelli nominato di recente successore di Gianni De Gennaro - come questi fortemente voleva. Quei virgolettati ieri non sono stati smentiti dall'interessato. Né noi abbiamo ragionare di dubitare della precisione di Bonini. Il quale ha spiegato che è stato Manganelli in persona a intervenire sui massimi responsabili sportivi perché non sospendessero l'intera giornata di campionato. Con la duplice argomentazione che in tal caso si sarebbero esposti gli agenti al bersagliamento degli ultras «violenti» lasciati liberi dalle curve; e che andava assolutamente evitata l'equazione "Raciti-Sandri". Lo stesso Manganelli avrebbe detto in ultima battuta a Giancarlo Abete, presidente della Figc: «Qui ne va dei nostri rapporti. Bisogna giocare».
D'altronde che il capo della Polizia, già a fine mattinata di domenica, sull'uccisione di "Gabbo" Sandri sarebbe stato - qui i virgolettati sono d'una «qualificata fonte di governo», si avverte - «netto nel riconoscere il drammatico, grave errore commesso dall'agente della polizia».
Una domanda sorge spontanea: perché mai il dottor Manganelli ha aspettato le 21 e 30 di domenica, a incidenti di Milano e Bergamo già avvenuti e ad iradiddio a Roma in pieno corso, per pronunciare una parola pubblica? Che, poi, è stata questa: «Mi sento di assicurare che la Polizia saprà assumersi le proprie responsabilità e senza reticenze fornirà massima collaborazione alla magistratura». Ci mancherebbe altro, viene da dire. Ma a quell'ora, oltre a tutte le conseguenze in vista dentro e intorno agli stadi, si annoverava anche un altro fatto: il silenzio della Polizia sull'omicidio, appunto, seguito solo da una reticentissima conferenza stampa del questore di Arezzo, con il divieto ai giornalisti di porre domande.
Ieri, invece, Manganelli e tutta la gerarchia della PS sono stati più che prodighi di esternazioni. Per lo più dedicate alla perorazione di una ulteriore emergenza nazionale, quella individuata nella "minaccia" delle "curve violente". E poi, alla giustificazione della qualità «eversiva» assegnata ai gravi disordini della sera precedente nella capitale. Ancora Manganelli ha sentito il bisogno di avvertire che tra gli ultras ci sono «infiltrazioni politiche», precisandole in quelle di «estremisti di destra» e «anarcoinsurrezionalisti». Ma ha riparlato anche dell'ucciso: per rassicurare la famiglia sulla «ricerca della verità», aggiungendo subito che quell'omicidio «è stato evidentemente un errore».
Intanto il ministro degli Interni, Giuliano Amato, solennemente annunciava d'aver «condiviso» le «scelte di ordine pubblico» della domenica.
Nelle stesse ore in Lituania, landa di pur difficile democrazia, il ministro degli Interni e il capo della Polizia si dimettevano a fronte dell'uccisione di tre bambini da parte d'un agente che non aveva sparato loro ma li aveva investiti, ubriaco. Occorre ritornare sulle motivazioni addotte dal Antonio Manganelli per indurre il mantenimento della giornata di campionato di calcio di domenica, come riportate da la Repubblica . Nessuno, infatti, può dire cosa sarebbe accaduto se fosse stata sospesa. Ma è altrettanto vero che chiunque ha visto cos'è accaduto non sospendendola. E per inciso si è anche registrato che in almeno un caso, quello di Bergamo, gli incidenti sono terminati proprio a partita sospesa.
Eppure, ieri sera, il ministro Amato ha dichiarato a proposito di quest'orientamento del capo della Polizia: «Le sue scelte sulla gestione dell'ordine pubblico, che io ho condiviso, hanno evitato che a quella tragedia seguissero esiti ancor più drammatici». Di cosa? Dell'uccisione insensata di Gabriele Sandri, del tutto al di fuori del contesto degli stadi, da parte di un agente di pubblica sicurezza? Chi avrebbe potuto sparare e togliere la vita a chi altri?
Ma la domanda di fondo è tutt'altra. Riguarda il tanto spesso invocato "senso dello Stato". Che in democrazia non dovrebbe corrispondere alla sua intangibilità, bensì alla sua consapevole responsabilità. E allora ci chiediamo perché si è dovuto attendere che dichiarasse il presidente della Camera dei deputati Fausto Bertinotti, per ascoltare parole di buon senso a proposito della morte di Sandri. Come queste: «Le armi da fuoco non devono essere usate se non in circostanze estreme». O, a proposito delle partite di campionato: «Ci si ferma per un atto di rispetto per una tragedia». E ancora a proposito dell'omicidio: «Ci può essere tutta la condivisione dell'errore umano. Ma questo non può confondersi con l'oscuramento della responsabilità». Tanto più che «in una società violenta le forze dell'ordine devono essere un elemento di garanzia assoluta». Mentre, di nuovo sugli stadi e non solo, «disastroso e fuorviante è che si passi a pensare a una società deviata in maniera generalizzata: questo porta alla guerra civile».
Sono parole di parte? Non condivisibili da altre istituzioni dello Stato e soprattutto da chi detiene il potere della decisione politica e ne porta dunque la responsabilità, ben più esposta? E perché nessun altro ne ha potuto pronunciare almeno di simili, per esempio come hanno fatto Andreotti e, stavolta, Veltroni? Lo stesso presidente della Repubblica, ieri, ha trovato soltanto parole di «preoccupazione», come il presidente del Consiglio dei ministri domenica, sulla perdita della vita di Gabriele Sandri. Ben più diffuse le parole accorate sulla «violenza» scatenatasi nelle ore seguenti.
E intanto: nelle ore trascorse, proprio mentre si affermava la verità già evidente sull'uccisione di Sandri, il cumulo degli errori è cresciuto stesso. E' stato il prefetto di Roma ad annunciare che quanti erano stati «presi» tra i presunti «responsabili» dei fatti senza precedenti di domenica sera intorno allo Stadio Olimpico «subiranno le conseguenze di questa loro cattiva visione dello sport e della democrazia». Subito dopo, si è appreso della scelta da parte della magistratura inquirente romana di contestare loro l'aggravante della «finalità di terrorismo» apposta al reato - così spesso abusato... - di «devastazione» , oltre che di «lesioni». E poi, di seguito, la decisione del Viminale di vietare le trasferte organizzate dei tifosi. Infine altri, nuovi poteri "speciali" ai prefetti.
I fatti di Roma sono stati pesanti: ma ancor più pesante è questo clima, persino irrespirabile, che in seguito ad essi si torna ad alimentare. Le scelte compiute, stavolta non quelle della domenica ma del lunedì, sono esattamente le stesse della cui perniciosità avevano avvertito già i più avvertiti editoriali di ieri, non sulla stampa della "sinistra estrema" ma su grandi giornali "democratici". Appena contraddettasi l'«accelerazione» delle politiche d'emergenza e d'imperio dell'«ordine pubblico» adottate dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani, una volta suscitati gli spiriti mai sopiti d'un diffuso razzismo stavolta nutrito dalla stigmatizzazione del "rumeno" e del "rom", ne viviamo una ulteriore. Intorno a luoghi, come gli stadi, già resi «speciali» da anni di politica d'ordine pubblico, della quale non si fa mai un bilancio vero ma i cui "risultati" sono palesi.
Non c'è comparazione possibile e credibile tra questo contesto e quello abbattutosi sulle libertà democratiche nel luglio 2001 a Genova, uccisione di Carlo Giuliani compresa. Ma non si può nascondere un elemento di oggettiva preoccupazione sulla coincidenza di questa nuova ondata emergenzialista con il conflitto politico sull'individuazione delle responsabilità di quei fatti di sei anni fa. Questo elemento è la continuità di uno "stile", che precisamente ha pochissimo a che fare con l'esercizio di responsabilità da parte dei vertici degli apparati dello Stato.
In particolare la pubblica sicurezza ne è stata avvolta troppe volte: e il culmine è stato appunto quel G8, quell'omicidio di Stato, quelle «mattanze» e torture e il loro seguito di falsificazioni. Al vertice c'era allora Gianni De Gennaro divenuto capo della Polizia sotto il governo Amato (dopo essere stato vicario sotto quello Prodi, quando ministro degli Interni era Giorgio Napolitano) e ora capo di gabinetto dell'attuale ministro al Viminale: Giuliano Amato. Dal suo successore Antonio Manganelli si attendeva una "marcia" diversa: non pare nell'aria. Forse sarebbe il caso di pretenderle, ormai, le responsabilità.


13/11/2007

Ritratto di Anonimo

di Alessandro Dal Lago Proviamo a separare i fatti di domenica dalle amenità fumogene dei soliti noti: la «guerra civile» di Calderoli, l'inevitabile solidarietà del pistolero Cossiga e la difesa a prescindere della polizia da parte di Casini. Che cosa resta? Banalmente, che un agente della stradale, scambiando una presunta rissa tra tifosi per una rapina, spara ad altezza d'uomo su un'automobile e uccide uno che non c'entra. Quello che è successo poi negli stadi era prevedibilissimo e il modo pasticciato con cui l'ineffabile Sgalla, già illustratosi al tempo della Diaz, il questore di Arezzo e autorità varie hanno cercato di gestire le conseguenze dimostra solo l'incapacità di comprendere il fenomeno ultrà e in generale la violenza giovanile. Per cominciare, «errori» come quello di domenica dimostrano la scarsa attenzione dei corpi di polizia per la vita dei cittadini. Gli incidenti ai posti di blocco, i colpi in aria che uccidono i passanti e così via sono innumerevoli in Italia e la sciagurata legge Reale non ha fatto che legittimarli. Inoltre, tutti sanno che in questi casi o scatta l'impunità o comincia il depistaggio. Qui non si tratta solo di mancanza di professionalità, ma di uno stile connaturato allo stato italiano, il quale non fa giudicare e punire mai i suoi uomini quando la fanno grossa. Tutti i dirigenti al tempo del G8 hanno fatto carriera, tranne quello che forse c'entrava di meno, cioè il questore di Genova, nonostante le violenze gratuite, la caccia grossa ai manifestanti pacifici, prove false, reticenze, testimonianze fasulle e così via siano state ampiamente dimostrate dalle indagini. Che la commissione d'inchiesta sui fatti di Genova non fosse voluta anche da gran parte dell'attuale maggioranza di governo, lo si sapeva. La polizia in Italia è intoccabile e vogliamo vedere se davvero questa volta si andrà fino in fondo, come non è successo con Carlo Giuliani, la morte di Raciti e innumerevoli casi minori. Ma questo è solo un aspetto della questione. Si direbbe che da anni si sostituisca la comprensione dei fatti con gli slogan a effetto e le definizioni giudiziarie a sensazione. Ipotizzare il terrorismo per i fatti di Roma significa non avere più il senso delle proporzioni. Proprio come dare quattro anni di prigione al marocchino di Torino per un grammo di hashish. Esattamente come scatenare l'odio di massa per i rumeni, salvo poi rimangiarsi in parte un decreto che qualsiasi ente di diritto internazionale giudicherebbe lesivo dei diritti umani. Qui non vediamo alcuna differenza con la gestione della cosiddetta sicurezza da parte del governo Berlusconi. Voce grossa, deportazioni, decreti sull'onda dell'emozione e nessuna capacità di capire. E quindi le emergenze continueranno. Se le autorità italiane praticassero un po' di quella «sociologia» che l'intelligentissimo ministro Amato tanto disprezza, saprebbero che il mondo delle curve ha visto emergere negli ultimi dieci anni una significativa novità: l'egemonia dei gruppuscoli di destra e la loro capacità di negoziare con le società di calcio i propri interessi e privilegi in termini di biglietti, visibilità e controllo degli stadi. Questo è il nodo, e non la generica disponibilità delle curve a menare le mani (che più o meno c'è sempre stata). Colpendo il tifo in generale, proibendo le trasferte, trattando le sassaiole, gli scontri o le risse per atti di terrorismo, non si farà altro che rafforzare le avanguardie nere o comunque violente che forse non aspettano altro. Se il ceto politico, compresa gran parte di quello ora al governo, crederà davvero ai propri slogan a effetto, invece di valutare esattamente le responsabilità, introdurre un po' di rispetto per la vita tra le forze dell'ordine e comprendere che i fenomeni sociali non si gestiscono per decreto, saranno guai. da WWW.ILMANIFESTO.IT
Ritratto di Anonimo

Se lo stadio è un luogo a sè, se il resto della città non lo conosce di Guido Caldiron La tentazione è forte, ma la realtà è ancora più drammatica. Sarebbe facile affermare che Gabriele “Gabbo” Sandri è la prima vittima del clima che ha accompagnato nelle ultime due settimane il dibattito sulla sicurezza nel nostro paese. Eppure chi ha frequentato anche solo sporadicamente uno stadio di calcio, magari nemmeno nelle curve e sugli spalti riservati ai giovani ultrà, ma in quelle tribune molto più care che si vorrebbero frequentate dalle famiglie, sa bene che non è così. Il ragazzo di ventotto anni ucciso in autostrada ad Arezzo da un agente di Pubblica sicurezza, mentre viaggiava verso Milano per seguire la trasferta della Lazio, non è il primo caduto in una gestione di “nuovo conio” dell’ordine pubblico. E’ invece tragicamente l’ennesima vittima di un’idea di sicurezza che allo stadio, nei confronti dei suoi giovani frequentatori, ha ormai fatto storia. Certo, l’inchiesta dovrà ora accertare come - e se ce ne può essere uno, perché - l’intervento degli agenti ha assunto la forma di un colpo sparato da decine di metri, da una corsia all’altra di un’autostrada a grande percorrenza. La famiglia di Gabriele, i suoi amici e i suoi affetti hanno bisogno di sapere cosa è accaduto. Un intero paese ha bisogno di pensare che ci sarà una verità, che la morte di questo ragazzo non andrà ad aggiungersi alle tante senza giustizia di cui è piena la nostra storia recente. Che l’impunità di Stato non cercherà di coprire ogni cosa. Come per Carlo Giuliani. Intanto, però, non ci si può limitare ad attendere, reclamando giustizia. Questa morte e quanto accaduto nello spazio di una giornata, in particolare a Roma, pongono interrogativi ai quali si dovrebbe perlomeno tentare di dare una risposta. Questo se si vuole cercare di capire quale sia la benzina simbolica che ha immediatamente acceso l’incendio, quel mix di rabbia, violenza e forse disperazione che ha provocato la rivolta nella zona intorno allo Stadio Olimpico. Il quesito di fondo riguarda proprio quella che sbrigativamente è stata definita come “la caccia al poliziotto” scattata dopo che in diversi stadi erano arrivate le notizie provenienti da Arezzo. Davvero qualcuno può attribuire a semplice follia o teppismo il fatto che parecchie centinaia di persone - si è detto fino a ottocento per l’invasione della sede del Coni avvenuta domenica sera a Roma - , perlopiù giovanissimi, considerino le Forze dell’ordine come il loro nemico principale al punto da mettere probabilmente a rischio la propria vita e quella degli agenti stessi durante scontri definiti da chi vi ha assistito come “molto duri”? E che dire se i numeri si proiettano sul piano nazionale, in ogni città e in ogni curva, diventando così parecchie migliaia? Per sedimentare un tale odio non basta, per quanto terribile, tragica e insensata la morte di Gabriele. E’ un odio che si costruisce nel tempo, scontro dopo scontro, manganellata dopo manganellata, razzo dopo razzo. E così via. L’ansia securitaria di questo periodo certo non aiuta, ma qui è di una vicenda molto più lunga che si sta parlando. Da una parte gli “animals” della curva, dall’altra gli agenti. Ogni domenica, ogni trasferta. Sappiamo molto se non tutto del rito della guerra che accompagna gli eventi calcistici, la tribalizzazione delle identità, il radicamento delle appartenenze, il mutuare in alcune stagioni simboli e slogan delle curve alla “violenza politica”. C’è un’imponente bibliografia in materia. Poco o nulla si dice però del fatto che una guerra, anche se simbolica, si combatte su due fronti. Che insomma gli agenti che prestano servizio allo stadio rappresentano una delle due parti di questa storia. Certo, stiamo parlando di chi deve garantire l’ordine pubblico e le condizioni di vivibilità dentro o intorno a uno stadio. Di chi deve difendere i cittadini e proteggerne l’incolumità. Gli agenti però, come si dice in questi casi, eseguono degli ordini. E su questo punto qualcosa deve essere detto. Se infatti quello dello stadio è spesso il teatro di una drammatica guerra simulata, a nessuno che abbia davvero a cuore la sicurezza verrebbe in mente di introdurvi elementi da guerra vera. Tutto farebbe pensare che la politica più illuminata, in un simile contesto, sia quella che persegue la riduzione del danno, l’impatto zero tra i rispettivi simboli. Detto in altre parole, una sorveglianza attenta ma non ostentata, un controllo rigoroso ma non massificato, magari la tecnologia più che i numeri. Ebbene, chi gli stadi li frequenta anche solo un po’ può dirvi che così non è, che la tipica domenica di calcio all’italiana è fatta di grupponi monocromi contrapposti, ultrà-agenti e che spesso e volentieri si ha l’impressione che l’intervento sia per così dire gestito all’ingrosso. E i vari pacchetti d’emergenza sulla sicurezza negli stadi, assolutamente bipartisan, non hanno certo migliorato le cose. E su questo aspetto della storia quanto è stato scritto e studiato. Pochissimo. Più in generale sulle Forze dell’ordine a parte un bel libro di Salvatore Palidda di una decina di anni fa si deve tornare alle opere militanti dell’editore veronese Bertani per trovare qualcosa degno di nota. Questo mentre in altri paesi si è sviluppata perfino una “sociologia dell’ordine pubblico” alimentata da ricercatori provenienti dalle stesse Forze dell’ordine. Tornando al punto, vera o sbagliata che sia l’impressione che si descriveva, poco importa. Importante e significativo è invece che sia questa la sensazione che hanno domenica dopo domenica migliaia di ragazzi che entrano in curva da adolescenti e ne escono magari da adulti. Lo stadio diventa una sorta di palestra dove cresce una forte identità di gruppo e un’altrettanto radicale incompatibilità alle Forze dell’ordine. Lo spazio sociale in cui si manifesta il massimo della violenza simbolica si percepisce come un luogo a sé: un codice di regole separate dal mondo per gli ultrà e uno stile d’azione altrettanto particolare da parte degli agenti. Un quadro che può non piacere ma che difficilmente si può smentire. Un quadro che più che rimandare alle forme di conflitto legate ai movimenti giovanili degli anni Sessanta o Settanta fa pensare alle banlieue francesi. Anche in banlieue la contrapposizione tra giovani e agenti si costruisce di scontro in scontro, si nutre reciprocamente dell’idea dell’impunità delle divise per i ragazzi delle cité e della bestialità dei giovani banlieusard per gli agenti. Anche nelle banlieue alla riduzione del danno si è sempre preferita la mano pesante, proprio perché, come per le curve, si pensa a luoghi da delimitare e controllare. Sempre spazi del pericolo, mai della possibilità. Anche nelle banlieue capitano degli errori, i francesi chiamano “bavure”, sbavature, i colpi partiti dalla pistola di un agente che feriscono e spesso uccidono qualche ragazzo. Per qualche analogia si possono ovviamente scorgere anche molte differenze, resta il punto di luoghi che interrogano ciò che ne sta fuori: il resto della città, la società tutta. Per le banlieue come per le curve. Pensare che quanto vi accade dentro riguardi solo chi le popola sarebbe l’errore più grande che si possa fare. Pensare che la verità sulla morte di Gabriele riguardi solo i suoi familiari, i tifosi della Lazio o gli ultrà di mezza Italia sarebbe come rassegnarsi all’idea che invece di tentare di cambiare almeno qualcosa di ciò che ci circonda dobbiamo limitarci a tenere bene in vista il numero di telefono dei pompieri.