"Prodi come Cardarelli, un poeta morente" parola di Bertinotti. Tu cosa ne pensi?

Colloquio a Montecitorio con il presidente della Camera
Bertinotti: per Prodi l'ultimo appello sarà sui salari

"Il progetto del governo è fallito noi siamo già oltre l'Unione"

"Palazzo Chigi ha finito con l'aumentare la distanza dal popolo della sinistra"
"Il Cavaliere è un animale politico, è attendibile la sua disponibilità a fare le riforme"
di MASSIMO GIANNINi da repubblica.it

"Dobbiamo prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito. La grande ambizione con la quale avevamo costruito l'Unione non si è realizzata...". Alle cinque del pomeriggio, nel suo ufficio a Montecitorio, Fausto Bertinotti sorseggia un caffè d'orzo, e traccia un bilancio amaro di questo primo anno e mezzo di governo. È presidente della Camera, ci tiene a mantenere il suo profilo istituzionale, non vuole entrare in campo da giocatore. Ma le sue parole, quelle del vero leader della sinistra radicale, alla vigilia del meeting della Cosa Rossa di sabato prossimo, lasciano un solco profondo nel cammino della legislatura e nel destino delle riforme.

Bertinotti non fa previsioni, sulla durata del governo. "Non posso, non voglio", dice. Ma fa un ragionamento politico per molti versi "definitivo", sullo stato della maggioranza. "Voglio premetterlo: non ci deve essere nervosismo, da parte di Prodi. Usciamo da questa prigione mentale: io non so quanto andrà avanti, può anche darsi che duri fino alla fine della legislatura, e non ho nulla in contrario che questo accada. Ma per favore, prendiamo atto di una realtà: in questi ultimi due mesi tutto è cambiato". È nato il Pd, e la Cosa Rossa viaggia verso lidi inesplorati. Nel frattempo, Prodi ha accontentato i "moderati", sia sulla Finanziaria, sia sul Welfare.

Per il capo di Rifondazione ce n'è abbastanza per dire che "una stagione si è chiusa". Ora niente sarà più come prima: "Un governo nuovo, riformatore, capace di rappresentare una drastica alternativa a Berlusconi, e di stabilire un rapporto profondo con la società e con i movimenti, a partire dai grandi temi della disuguaglianza, del lavoro, dei diritti delle persone: ecco, questo progetto non si è realizzato. Già questo ha creato un forte disagio a sinistra. Poi si sono verificati fatti che lo hanno acuito. Ne potrei citare centomila...". Risultato: "Abbiamo un governo che sopravvive, fa anche cose difendibili, ma che lentamente ha alimentato le tensioni e accresciuto le distanze dal popolo e dalle forze della sinistra".

Questa, per Fausto il Rosso, è "la condizione reale". E forse irreversibile. Bertinotti cita Lenin, e la differenza tra strategia e tattica. "Il grande tema, per la sinistra radicale, è uno solo: l'autonomia. Torna una grande questione, che nacque nel '56, con i fatti di Ungheria, con la rottura nel Pci, con lo scontro Nenni-Togliatti. Lì nasce una grande cultura politica, una storia enorme, Riccardo Lombardi. È l'autonomia di un progetto, che da allora la sinistra ha cancellato, rimosso. Oggi, per la sinistra radicale, il tema si ripropone. Devi vivere nello spazio grande e nel tempo lungo, per creare una grande forza europea per il 21° secolo. Se questa è l'ambizione, allora tutto va ripensato. Essere o meno alleati del Pd, stare o meno dentro questo governo: tutto va riposizionato in chiave strategica".

Questo riposizionamento strategico, secondo Bertinotti, è appena iniziato. "Alla fine del percorso - chiarisce il leader - io voglio riconoscere al Pd il diritto a trovarsi gli alleati che vuole, ma voglio garantire a noi il diritto di tornare all'opposizione". Dunque la stagione dell'Unione è al capolinea? "Intellettualmente io sono già proiettato oltre. Ma politicamente ancora no". E qui torna Lenin. Fissata la strategia del tempo lungo, c'è da occuparsi di tattica "hic et nunc", come dice il presidente della Camera. La tattica impone di combattere, ancora, dentro il quadro delle alleanze consolidate, e dentro il perimetro del governo in carica. Ma ad alcune condizioni irrinunciabili: "So bene, e ho persino orrore a pronunciare il termine: "verifica". Ma è chiaro che a gennaio serve un confronto vero, che prende atto del fallimento del progetto iniziale ma che, magari in uno spettro meno largo di obiettivi, rifissa l'agenda su alcune emergenze oggettive. E viene incontro alle domande della società italiana, con scelte che devono avere una chiara leggibilità "di sinistra". So altrettanto bene che queste scelte devono essere assunte dall'intera coalizione. Ma stavolta, davvero hic Rhodus hic salta. Sul Welfare, come si è visto, la sinistra radicale non ha aperto nessuna crisi. Ciò non toglie che il governo ha ormai molto meno credito a sinistra di quanto non lo avesse qualche mese fa...".

Bertinotti rinuncia a fare l'elenco delle "centomila cose" su cui il centrosinistra ha rinunciato a imporre la sua visione ("dalla laicità dello Stato alla politica estera"). "Ma se si vuole tentare una nuova fase della vita del governo, vedo due terreni irrinunciabili: i salari e la precarietà". È soprattutto sui primi, che il "padre nobile" del Prc fonda il suo ultimo avviso a Prodi: "Dai sindacalisti a Draghi, tutti dicono che la questione salariale è intollerabile. Ebbene, io mi chiedo: questa denuncia induce il governo a prendere qualche iniziativa, oppure no? Il 65% dei lavoratori italiani è senza contratto: posso sapere se questo per il governo è un problema, oppure no? In Francia Sarkozy ha aperto un confronto molto aspro, lanciando l'abolizione delle 35 ore e dicendo che se lavori di più guadagni di più: posso sapere se in Italia, dai metalmeccanici ai giornalisti, il governo ritiene ancora difendibili i contratti nazionali di categoria, oppure no? Non c'è più la scala mobile, ma intanto i prezzi stanno aumentando in modo esponenziale: tu, governo, non solo non vuoi indicizzazioni, ma con la fissazione dell'inflazione programmata hai contribuito pesantemente a tenere bassi i salari. Dunque c'entri, eccome se c'entri. E allora, in attesa di sapere cosa farai sui prezzi, posso sapere cosa pensi del problema dei salari? E attenzione: qui non basta più ripetere banalmente che "bisogna rinnovare i contratti". Io voglio sapere se il governo ritiene giuste o meno le rivendicazioni. Voglio sapere se ritiene opportuno restituire il fiscal drag, o se invece si vuole assumere la responsabilità di continuare a non farlo. Insomma, io voglio una bussola. Voglio decisioni che rimettano il centrosinistra in sintonia con la parte più sofferente del Paese. Che altro devo dire? Ridateci Donat Cattin...".

Dunque, appuntamento a gennaio. Se Prodi non raccoglie, questo invito potrebbe essere davvero l'ultimo. Questione di tattica, che per la Cosa Rossa, prima o poi, dovrà necessariamente coincidere con la strategia. Ma allo stesso modo, per Bertinotti, la tattica offre un'altra formidabile opportunità, stavolta a tutto il sistema politico: il dialogo sulle riforme. Stavolta l'accordo è "una possibilità reale". Nei due poli "si è affermata una larga condivisione su due punti essenziali. Primo: l'attuale sistema istituzionale ed elettorale è un fattore di riproduzione della crisi politica. Dalla Finanziaria al Welfare, tutto dimostra che il bicameralismo perfetto non funziona più. Secondo: la lunga transizione dalla Prima Repubblica è fallita. La barca si è messa in moto nel '93, ma non ha raggiunto l'altra riva, è in mezzo al fiume e va alla deriva con un duplice difetto: le maggioranze coatte (buone per vincere ma non per governare) e il trasformismo endemico. Insomma, questo sistema bipolare è fallito, e tutte le forze politiche hanno capito che se non va in porto una riforma, la crisi istituzionale diventa inevitabile, e travolge tutto. Si apre un panorama da Quarta Repubblica francese".

Di qui la convergenza possibile su un nuovo sistema elettorale. "Il sistema proporzionale, con clausola di sbarramento e senza premio di maggioranza, è una soluzione ragionevole", sostiene Bertinotti. "Soprattutto, è coerente con l'evoluzione del quadro politico: il Pd, il Partito del popolo del Cavaliere, la Cosa Rossa, lo spazio al centro. Siamo in una fase costituente di nuove soggettività politiche. La legge elettorale che scegli non è più levatrice del cambiamento, ma è una sua conseguenza. Con il proporzionale torni alla ricostituzione di alcuni fondamenti di democrazia attiva, che sentiamo ormai vacillare. Torni alla radice della Costituzione di 40 anni fa, torni a individuare nei partiti il cardine del sistema. Sei dentro la nervatura della democrazia, che non può non fondarsi sulla rappresentanza".

A Rifondazione il ritorno al proporzionale è sempre piaciuto. Normale che il suo leader lo benedica. Meno normale, in questo clima di sospetti, è che benedica anche l'apertura del tavolo con Berlusconi: "Senta, qui bisognerà prima o poi che un certo centrosinistra decida se il Cavaliere è un protagonista della politica italiana, oppure no. Io, che al contrario di Blair considero quanto mai attuale il cleavage destra/sinistra, penso che lo sia. Penso che sia un animale politico, che muove da processi reali di una parte della società, che incorpora l'antipolitica ma dentro una soggettività politica, chiaramente di destra. E penso che Berlusconi abbia preso atto della crisi del sistema e della crisi del centrodestra. Dunque, se rileggo le sue mosse, considero attendibile che anche lui, stavolta, cerchi un accordo per rinnovare il quadro politico-istituzionale".

Via libera alle riforme, via libera alla trattativa con il Cavaliere. Anche in questo caso, Prodi non deve innervosirsi. Finalmente è passata l'idea che il dibattito sulla legge elettorale non pregiudica l'esistenza del governo. "Non ci sono due maggioranza diverse, una per il governo, una per la riforma, che si escludono l'una con l'altra". Ma certo, se vuole durare, il Professore deve imprimere una svolta fin dai primi giorni del 2008. In caso contrario, sarà davvero la fine. L'ultima battuta di Fausto dice tutto: "Come vedo Prodi, mi chiede? Con tutto il rispetto, di lui mi viene da dire quello che Flaiano disse di Cardarelli: è il più grande poeta morente...". Visse ancora alcuni anni. Ma gli ultimi furono terribili.

(4 dicembre 2007)
Ritratto di Anonimo

BARBARA SPINELLI Si può capire la passione che affligge le sinistre radicali, impegnate a governare con Prodi da un anno e mezzo. Dentro di sé sentono accumularsi delusione, scoraggiamento, e un senso d’inutilità che s’espande e le umilia. Fausto Bertinotti ha dato voce a questo stato d’animo nell’intervista a Massimo Giannini su la Repubblica del 4 dicembre, e per questo suo dire è stato criticato. Curando l’interesse d’un partito invece di stare sopra le parti come s’addice a chi presiede la Camera, ha dato ragione all’ultimo rapporto del Censis: il senso dello Stato e delle istituzioni si sta disfacendo in Italia, al suo posto abbiamo poltiglia, mucillagine, e i miasmi contaminano anche i politici. Ma questa sregolatezza istituzionale, questa temeraria decisione di esporsi come leader di Rifondazione anziché obbedire alla laica neutralità della funzione hanno una sostanza che non si può ignorare. In ogni passione c’è un patire, e le sinistre radicali che da ieri sono riunite a Roma per creare il nuovo partito Sinistra-L’arcobaleno soffrono più di altri gli squarci inferti alla coalizione ogni giorno. Hanno l’impressione sempre più intensa di servire solo come numeri per fare maggioranza, e nessun individuo né gruppo può alla lunga credere in se stesso se viene adoperato come mezzo, peggio come numero. Hanno l’impressione di non contare affatto per quel che sono, che fanno. Hanno l’impressione che esista un estremismo del centro, nell’Unione, che è il vero affossatore di Prodi e che però viene lusingato. Ha cominciato il direttore di Liberazione Piero Sansonetti, l’1 novembre in un editoriale, a porre l’eretica domanda: «Perché restiamo in questo governo?». Sono tante le cose - e non solo l’equilibrio dei conti - che le sinistre radicali son chiamate ad accettare affinché il governo non perda Mastella o Di Pietro, Dini o la Binetti. Sono troppe, se si pensa che Veltroni, leader del Partito democratico, continua a tacere sulle alleanze future. Che il governo non ha neppure osato misure simboliche come i Dico o la chiusura della base a Vicenza. Che il Senato venerdì ha vacillato non a causa delle sinistre ma perché Paola Binetti s’è rifiutata di introdurre - nella legge sulla sicurezza - una normativa che penalizzi, come imposto dall’Unione europea, comportamenti razzisti e omofobi. Dicono che la signora Binetti abbia opposto il suo No perché voleva testimoniare la propria fede. Perché non ha ammesso che la «sua coscienza venisse strangolata». Sono parole forti, rumorose, e imprecise. Opporsi a una norma che vieta la discriminazione dei diversi testimonia di che, sempre che il testimoniare cristiano abbia il senso classico? Accettarla, strangola in che modo una coscienza fedele a Gesù? Ci sono gesti centristi che a forza d’esagerare son divenuti banali, e accolti come un nobile credo che nessuno tuttavia discerne: anche quando nascondono opportunistiche manovre. Che questo indigni la sinistra radicale non sorprende. Indigna chiunque sappia che cos’è una coscienza strangolata e, nel cristianesimo, un testimone-martire. C’è un passaggio nell’intervista di Bertinotti che chiarisce forse alcune cose. È quando dice che per far prosperare la sinistra radicale «devi vivere nello spazio grande e nel tempo lungo». Non ti puoi aggrappare a piccolezze, e se intuisci un incendio non puoi neppure rispettare le servitù della carica che ricopri. Lo spazio grande cui pensa Bertinotti è quello del mondo, del caos e delle giustizie che lo assediano. Ed è lo spazio dell’Europa, dove si sta rafforzando una sinistra refrattaria al declino dello Stato sociale. È probabile, se si guarda a tali spazi e tempi, che il calcolo del presidente della Camera non sia vano. La sinistra in cui crede è data per agonizzante, ma nei paesi travagliati da mondializzazione e precariato non pare avere il futuro alle spalle: pare averlo davanti a sé. Il pessimismo sociale e esistenziale che spesso la caratterizza - sulle ingiustizie inflitte agli esclusi, sull’internazionalizzazione senza regole, sul clima (l’Italia è il quinto inquinatore mondiale, prima di Russia e Usa) - ha una nuova plausibilità. Questa sinistra sta crescendo in Germania, in Francia. Il nuovo partito fondato nel giugno scorso a Berlino (Die Linke, La Sinistra, fonde gli ex comunisti dell’Est e i dissidenti socialdemocratici di Oskar Lafontaine) sta raccogliendo inaspettati successi. È forza di governo a Schwerin, Magdeburg, Berlino. Ha avuto risultati eccellenti a Brema. Con il 20 per cento nei sondaggi, oggi è al terzo posto dopo democristiani e socialdemocratici. Anche in Francia la sinistra radicale è in crescita, dopo la sconfitta di Ségolène Royal alle presidenziali. Olivier Besancenot, il giovane impiegato postale che guida la Lega comunista rivoluzionaria, progetta una fusione alla tedesca e 40 francesi su cento chiedono in un sondaggio che abbia «più influenza nella politica nazionale»: la stessa cifra di Ségolène. Quel che unisce tali forze è la Questione Sociale, che sembrava un relitto dell’Ottocento-Novecento e invece fa di nuovo apparizione. Le sfide non sono quelle di ieri, i mezzi toccherà reinventarli, ma le iniquità non sono meno dolorose: lavoro precario, spese sanitarie esorbitanti per i deboli, impoverimento degli anziani, stragi di lavoratori in fabbriche obsolete come quella avvenuta a Torino, prezzi alimentari sempre più alti da quando Cina e India consumano di più, il clima distrugge sul nascere i raccolti, e l’energia si fa rara e costosa. Sono questioni sociali anche queste, sempre che si voglia guardare, dietro poltiglie e mucillagini, le persone come vivono e sperano. Le sinistre radicali vedono tutto questo, ma senza lucidità su se stesse, sulla necessaria reinvenzione dei mezzi, perfino sui pericoli. Senza intuire che i nuovi dilemmi resteranno anche in Italia irrisolti, se non muteranno dottrine, metodi, e la memoria di quel che la sinistra estrema ha fatto nell’ultimo decennio. Essa ha di fronte a sé una conflittualità ravvivata, è vero, ma l’astrattezza con cui si ripromette di affrontarla ha qualcosa di profondamente autodistruttivo, di ancestralmente miserabilista. È astratto in primo luogo lo sguardo sulle alternative a Prodi: è per evitare l’errore compiuto nel ‘98 che Rifondazione ha deciso di andare al governo nel 2006, e quel che rischia è di ripetere la colpa e di offrire di nuovo l’Italia a Berlusconi. La Questione Sociale magari s’inasprirà: ma ne approfitteranno gli apparati della Cosa Rossa, almeno nell’immediato, non i cittadini. È astratto in secondo luogo perché molte delle cose chieste da questa sinistra sono solo in apparenza giuste: se i soldi vanno tutti a poche categorie molto garantite, nulla resterà per i veri poveri e emarginati. Lafontaine mente, quando proclama che la restaurazione tale e quale dello Stato sociale «è solo questione di buona volontà», e in Italia questo ormai lo si sa. Indagando sui conflitti francesi mi è stato detto che «la sinistra non ha futuro quando lo Stato non ha soldi», e una risposta a questa sfida ancora non esiste. È infine astratto lo sguardo sulla propria pratica di governo: non è vero che le sinistre radicali non abbiano ottenuto nulla. Il poco ottenuto, esse hanno tendenza a non valutarlo, a non esserne mai fiere. Non rendono giustizia a se stesse, pensando che il non ottenuto pesi infinitamente di più. Il fatto è che non volevano solo il ritiro dall’Iraq, ma anche il rientro dall’Afghanistan e la chiusura della base di Vicenza. Non volevano solo l’inizio di ridistribuzione e le prime misure per i precari, che Prodi ha assicurato. Volevano tutto e subito, come d’altronde vogliono tutto e subito anche certi riformisti. Il popolo di sinistra non avrebbe strappato queste misure se al governo non avesse avuto propri rappresentanti. Ma poco importa: chi nell’azione è pessimista vede solo l’impopolarità, lo scacco. Non a caso Bertinotti tace i progressi, non dice che senza le sue truppe avremmo più razzismo e meno senso della misura con gli immigrati. Non dice che se mai vi sarà un'indagine parlamentare sulla «macelleria messicana» del G-8 di Genova, lo si dovrà alla presenza nel governo di Rifondazione e dei comunisti. Ma soprattutto, Bertinotti e Sansonetti non dicono che il successo dei radicali di sinistra, in Germania e Francia, è dovuto al fatto che non governano, al loro essere tribuni che trascinano ma non possono fare vere promesse, perché promettere vuol dire agire, e agire si può solo assumendosi l’onere del governare. La sinistra alternativa in Italia non è l’ultima e la più sfortunata in Europa, ma la più coraggiosa e l’unica in grado di offrire risultati, sia pur parziali. In Germania la Linke sa che un giorno dovrà governare con la socialdemocrazia, pena la caduta nell'irrilevanza: è significativo che ne siano convinti soprattutto gli ex comunisti di Lothar Bisky, più che il socialdemocratico Lafontaine. L’esperienza italiana oltre a esser unica è all’avanguardia in Europa. Per la prima volta una sinistra antagonista e marxista abbandona il pulpito del tribuno disinteressato ma irresponsabile. Non smette di dire che la lotta continua, e infatti continua. Guadagna un poco, non il tutto annunciato e promesso: solo un partito unico può il Tutto, malamente. Se apprezza la democrazia, essa dovrà puntare a coalizioni, a compromessi, a conversioni mentali e linguistiche non solo formali. Non potrà fare a meno di interiorizzare quel che Prodi ha detto il 6 dicembre: «Gli aggiustamenti e il risanamento sì, ma i miracoli non li so fare». Sansonetti si pone la domanda fondamentale, per ogni individuo o politico: «Vale la pena sforzarsi, per fallire tante volte?». O più precisamente: «Cos’è che obbliga la sinistra a restare dentro un’alleanza che in nessun modo la rispetta, che cammina su una linea completamente diversa da quella tracciata nel programma di governo del 2006, che subisce i ricatti e i diktat delle sue componenti moderate - spesso più d’accordo con la Casa delle Libertà che con gli alleati di governo -, che la considera pura riserva di voti, ne offende spesso i principi fondamentali, ritiene di poterla tenere prigioniera sulla base di una equazione che viene ripetuta all’ossessione: se si scioglie questa maggioranza torna Berlusconi?». Vale la pena? Sì, vale la pena, perché l’Italia senza il ministro per la Solidarietà sociale Ferrero o il ministro dei Trasporti Bianchi sarebbe diversa e peggiore. Vale la pena proprio se ci si muove «in uno spazio grande, con lo sguardo lungo», senza dipendere completamente dalla popolarità. È tremendo esser solo numeri, sfruttati e sprecati da centristi che si dicono riformatori e sono anch’essi attratti dal tutto o nulla. Ma provare conviene pur sempre, e non badare solo a salvare un apparato. Fernando Pessoa lo dice: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola».