"comunista" è una parola indicibile?
a proposito delle parole indicibili...di Rina Gagliardi
da www.liberazione.it del 5.10.'08
Mi si consenta una premessa quasi del tutto irrituale: questo non è un
articolo sul comunismo, o sull'identità comunista. Non è possibile
condensare un tema di questa portata (storica, teorica, e così via) in
sette o ottomila battute. Questo articolo, piuttosto, è un inizio di
riflessione sul rapporto tra identità e politica, tra ideologia e
pratica della trasformazione, a partire dalla frase di Fausto
Bertinotti - che tanto scalpore ha suscitato - sulla "indicibilità"
oggi del comunismo.
Ovviamente, si tratta di una riflessione
personale, anche se ho avuto modo di parlarne direttamente con
l'ex-segretario del Prc, proprio mentre dettava alle agenzie la sua
(seconda) stimolante provocazione: "io sono comunista". Con essa,
Bertinotti non intendeva, nient'affatto, smentire lo scoop di Bruno
Vespa, come di solito fanno i politici, ma rovesciarne radicalmente il
senso. Qual era l'obiettivo, in effetti, della notizia lanciata giovedì
pomeriggio come promotion del Viaggio in Italia appena uscito in
libreria? Quello di gettare una bomba ideologica: l'abiura "definitiva"
di Bertinotti, sul quale già da tempo pendono tanti sospetti.
L'ex-segretario del Prc, a vent'anni dalla Bolognina, che reitera la
liquidazione occhettiana, fatte salve tutte le differenze (soprattutto
quantitative) tra Pci e Rifondazione comunista. L'ex-presidente della
Camera, oramai "imborghesito", che si pente e arriva a dichiarare
pentimento. Una tale rappresentazione, o meglio una tale narrazione
falsificante, rischia di "passare" anche nelle file del Prc - una delle
grandi debolezze del nostro partito non è forse la prassi diffusa di
leggere la realtà, e soprattutto la politica, attraverso gli occhiali
del sistema mediatico? Dunque, anche ai fini di una discussione magari
aspra ma forse anche utile, è essenziale sgomberare il campo sia da
ogni strumentalità, sia dalla subalternità ai "sensazionalismi" di
agenzia.
***
Qual è allora il tema reale che Bertinotti
pone al dibattito? Non l'archiviazione dell'identità comunista, ma la
sua capacità, come tale, di riuscire, nella crisi attuale, a tradursi
in organizzazione di massa e quindi in iniziativa efficace di
trasformazione: insomma, è il rapporto con la politica, non la rinuncia
all'ideologia o all'ambizione strategica. Un tema, a ben vedere,
classico, che tante volte si è presentato nella storia del movimento
operaio: che cosa debbono proporsi e fare i comunisti, come
concretamente devono investire la loro weltanschung , le loro idee, le
loro proposte - qui ed ora, in questa durissima fase della storia
d'Italia, d'Europa, dell'Occidente. Detto in breve: i comunisti non
possono mai limitarsi ad essere, come in una sorta di acquietamento
"ontologico": sono ed esistono in quanto, come diceva Marx, a
differenza dei filosofi non basta loro interpretare il mondo. Sono
quelle e quelli che intendono cambiarlo.
Ora, non solo queste
premesse, ma la sostanza del problema posto da Bertinotti, a me paiono
difficilmente contestabili. Fino agli anni 60 e 70, dichiararsi
socialisti o comunisti - nonché militanti di una forza socialista o
comunista - non solo non comprometteva, di per sé il rapporto "con le
larghe masse", ma comunicava qualcosa che per tutti era chiaro,
definito, comprensibile. Anche con l'interlocutore più lontano o
resistente, cioè, era comunque possibile stabilire un rapporto
politico. Oggi non è più così: parole come "comunismo" e "socialismo"
sono diventate opache - incomprensibili e mute per i più, meri residui
del secolo scorso per i più (pochi) informati. Oggi, del resto, nella
società sbriciolata, individualizzata, impaurita, tutte le culture
politiche maggiori del 900 - tutti gli ismi - hanno perduto ogni forza
evocativa e ogni capacità comunicativa: e questa afasia è certo parte
integrante della drammatica regressione in corso, indotta dal
capitalismo neoliberista e cresciuta nel "disorientamento" della
globalizzazione.
Se questo è, all'incirca e all'ingrosso, lo stato
delle cose, se ne potrebbe concludere, sempre all'incirca, che "tutto è
perduto" - e che la politica (la politica, non solo le elezioni!) è una
sfera oramai riservata alle soggettività di destra o centriste, alle
tendenze neoautoritarie e a-democratiche, ad un populismo antipolitico
che galoppa un po' dovunque. Ma non è questa la conclusione a cui
arriva Bertinotti: l'unica strada che vale la pena di percorrere - che
i comunisti possono tentar di percorrere - è quella della costruzione
di un nuovo, grande, unitario soggetto di sinistra. Un progetto che
mette in discussione, senza reti di protezione o autotutele,
l'esistente, giacché è in gioco (e forse siamo già fuori tempo massimo)
l'esistenza stessa della sinistra - tutta e in quanto tale. Un
ricominciare, in politica, a partire dalla dimensione più aggregante
possibile e non aprioristicamente escludente. Un riposizionarsi là dove
la forza del capitalismo, ivi compresa la violenza delle sue crisi, e
delle destre sono più agevolmente combattibili.
E' ovvio che
questo soggetto (non necessariamente un partito) si declina come
anticapitalistico, femminista, ambientalista, democratico, libertario,
antirazzista, capace cioè di inverare politicamente i contenuti
concreti - possibili - di una identità alternativa. E' quasi
altrettanto ovvio che si tratti, come ha scritto Marcello Cini, di una
"sinistra senza aggettivi": perché non c'è sinistra, oggi, che non
abbia come propria ragion d'essere l'opposizione radicale al
capitalismo - non solo al crac selvaggio dei mercati finanziari, non
solo alla logica dell'impresa e del mercato come principio unico e
sovraordinatore della società, ma alla mercificazione della scienza,
della conoscenza, della cultura, nonché al modello di sviluppo che
porta dritti alle catastrofi ambientali preconizzate da Attali.
Tutto
questo potrebbe - dovrebbe - essere l'impegno prioritario dei comunisti
e delle comuniste. I quali - ecco un'altra frase di Bertinotti che a
suo tempo destò scandalo - sono già nei fatti, volenti o nolenti, una
"corrente culturale", anche se credono di essere strutturati in
quattro, o diciamo pure due, forze politiche. Il confine tra piccole
formazioni che non incidono nei processi reali (sociali e politici) e,
talora, neppure si propongono di agire dentro di essi in termini
efficaci e credibili, e aggregazioni di natura sostanzialmente
culturale, eo propagandistica, è in fondo molto sottile. E la soglia da
ri-conquistare non è solo quella (elettorale) di sbarramento: è
l'egemonia. E' la capacità, oggi perduta, di (ri)entrare
nell'immaginario collettivo di larghe masse e di avere un senso nella e
per la loro vita. Un obiettivo improbo, già, ma che forse non è
impossibile proporsi - e che è alla portata di una grande rinnovata
sinistra.
***
Ma dunque il problema tornerebbe ad essere
quello del Nome, proprio come accadde tra l'89 e il '91? Naturalmente
no. Se è vero che "nomina sunt essentia rerum", secondo l'antico motto
(medioevale, mi pare), è vero altresì che i comunisti non dismettono il
loro chiamarsi comunisti, all'interno di una più vasta (e certo più
indefinita) aggregazione politica di sinistra: semplicemente, non
possono imporre ad essa la loro identità - il loro nome. Era questo che
intendeva Bertinotti quando parlava del comunismo come "corrente
culturale" (altra frase considerata scandalosa), ipotizzando che esso
continui a vivere autonomamente in altre sedi, in altri luoghi, in
altre forme. Ma anche qui, fuori dagli scandalismi facili e dalle pur
comprensibili emotività, chi ha detto che i comunisti e le comuniste
danno vita, sempre e comunque, ad un Partito comunista? L'unica forza
alternativa consistente, che oggi esiste in Europa, è in Germania: si
chiama, tout court, "Die Linke", "La Sinistra" e tra i suoi soggetti
promotori c'è la Pds, "Partito del socialismo democratico". L'unico
sub-continente che va a sinistra, l'America latina, non ha alla sua
guida forze che, nel loro nome, si richiamano al comunismo - e, al di
là delle diverse dosi di entusiasmo, non c'è tra di noi chi dubiti del
valore del processo in corso in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Lo stesso
Prc non sentì il bisogno di chiamarsi, appunto, Rifondazione, ad
indicare visibilmente la necessità di riaprire un percorso e una
ricerca, oltre il richiamo ad un passato e ad una storia da preservare?
Viceversa, denominarsi "Partito Comunista" non è mai stato, e non è
oggi, garanzia in sé e per sé di spirito rivoluzionario,
anticapitalista o innovativo - come ci testimonia in questa fase il più
grande Pc del mondo, quello della Cina, o come ci hanno concretamente
dimostrato i Partiti comunisti che hanno avuto il potere statuale.
Perfino Pol-Pot, sterminatore di milioni di boat people, si diceva
comunista. Si può certo replicare che no - che invece e all'opposto
proprio questa sia la discriminante decisiva, l'assunzione di un nome.
Curiosa manifestazione di ontologismo nominalistico.
Ma anche questo
nome, mi pare, avrebbe bisogno di esser definito - reso trasparente ai
nostri stessi occhi. Chi, come me e qualcuno più importante di me,
continua a dirsi comunista, non si riferisce certo alla tradizione che,
nel suo insieme, è andata sotto il nome di Terza Internazionale. Quando
mi dichiaro comunista - e lo farò finché avrò lucidità e razionalità -
penso a Rosa Luxemburg, ad Antonio Gramsci, a quel filone del
"comunismo italiano", del movimento sindacale, del socialismo di
sinistra, che ha avuto alla sua testa dirigenti come Pietro Ingrao,
Lelio Basso, Bruno Trentin, Raniero Panzieri - ed altri che non cito.
Penso al Sessantotto e a quella grande stagione che dall'autunno caldo
produsse i consigli operai e un embrione diffuso di contropotere. Penso
a Walter Benjamin e alle sue fondamentali Tesi sulla filosofia della
storia . E penso anche al Mahatma Gandhi, dal quale ho imparato molte
cose e in compagnia (simbolica) del quale mi trovo molto meglio che con
Stalin, Breznev o Ceasescu. Rispetto, fino in fondo, coloro che, quando
dicono "comunismo", continuano a pensare, invece, alla
"nazionalizzazione dei beni di produzione", al Partito Unico, al
sindacato di Stato (come quello che organizza oggi in Cina circa
duecento milioni di lavoratori e lavoratrici, ma sconsiglia e scoraggia
lo sciopero perché turberebbe l'"armonia sociale") - e che ritengono,
sotto sotto, che l'unico problema sia quello della conquista - ieri,
oggi e domani - del potere centrale. Rispetto, ma mi colloco a mille
miglia di distanza da una cultura politica che è stata battuta e che
anzi ha clamorosamente fallito. Eppure, mi sento e mi dico comunista.
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