Continua il confronto sull'unità della sinistra... Intervengono Rossanda, Revelli e Barbarossa.

Rossanda si rivolge alla grande "S" cioè alla Sinistra fatta dai 4 partiti

Sei un ponte sconnesso, ma sei il solo ponte...

Rossana Rossanda


Caro Sansonetti, se la grande S si è impantanata su una legge elettorale darebbe ragione a chi ci ha creduto poco. Non è la prima volta che il tema "elezioni" manda in tilt qualsiasi progetto sui tempi medi. Ne ha fatto esperienza il manifesto nel 1972, poi nel 1976. E' per questo che Rifondazione ha mandato a picco la Camera di consultazione di Asor Rosa. E su questo adesso l'inciampo viene dal Pdci.

Nel caso di piccoli partiti non è misera voglia di poltrone: è il timore di diventare invisibili, cessare di esistere come i grandi partiti non nascondono di sperare. La stessa base militante esige una lista, dimostrando quanto sia ancora contraddittorio il bisogno, teorizzato al meglio da Tronti, di "andare oltre la democrazia", che è poi quella "rappresentativa". E sarà così, penso, finché non sarà chiaro come "andare oltre" senza riprodurre i "socialismi reali"; perché, oggi come oggi, altro non conosciamo. Intanto nessuno dei quattro partiti in campo si fida che l'altro ne garantisca le ragioni di esistenza. Soltanto Rc è ragionevolmente certa di passare lo sbarramento di una proporzionale; toccherebbe ad essa dunque di garantire le altre, facendo qualcosa di comprensibile dell'attuale slogan "unità plurale". Non è semplice e non è soltanto - come mi sembra tu scriva - una questione di metodo

Certo è anche di metodo, se gli Stati Generali sono stati organizzati in modo da autorappresentare pubblicamente solo i quattro - Mussi, Giordano, Diliberto, Pecoraro Scanio.

Neppure il lavoro dei workshop è stato portato all'assemblea generale. Le donne si sono sentite ancora una volta escluse. La verità è che gli attuali gruppi politici non conoscono che questo modo di esprimersi, specie se non sono già ferreamente uniti, pochi che parlano a molti o una specie di happening. Neanche le donne sanno come stare assieme quando la pensano diversamente. Tutti riflettiamo ancora quello che Gramsci chiama "spirito di scissione" con il quale nascono le posizioni innovative, e stentiamo a far esprimere e fare esprimere il bisogno che porta altri attorno a noi e noi a tentare di rompere i nostri confini. E anche a tollerarci: il Pdci si vuole fedele ad alcuni "socialismi reali" e all'ultimo (o penultimo) Pci. Io non lo credo utile. Ma non prenderei per pura fisima identitaria il suo timore che, sgomberati "i comunisti" e le relative falci e martelli, esca di scena la stessa idea di rivoluzione - anche non in armi, anche non violenta, anche la più soave - ma che non sia una resa all'assetto sociale esistente. Finora è andata così.

A proposito, la S quale trasformazione reale persegue? Diciamocelo. Non basta che tu scriva: oggi non è sufficiente il lavoro, ci sono altri bisogni, il movimento delle donne, l'ecologia, la pace, eccetera. Che intendete per "il lavoro"? I "lavoratori", i salariati più visibili e raggruppabili, gli operai insomma, forse qualche categoria impiegatizia o tecnica, da qualche tempo gli inafferrati "precari", gli autonomi - come se oggi gli uni non precipitassero sugli altri, andata e ritorno, figure sociologiche ogni tanto affogate e ripescate. Diciamoci la verità, c'è stato un decennio di cancellazione del salariato, salariati, identificati con la fabbrica e quando questa è fisicamente diradata o scomparsa, via anche loro. Non c'è più la fabbrica di "Tempi moderni", non si vedono più uscire assieme gli operai, non ci sarà più la contraddizione fra capitale e lavoro. Non è casuale che i ragazzi del 1968 di Torino non si siano visti ai funerali dei morti della Thyssen a Torino. Non è stata innocente neanche la variante "i lavori" al posto del "lavoro". Voi stessi, Rc, in uno degli ultimi congressi lo avevate rimosso, il famoso lavoro, come residuale fra altre e più sentite "soggettività". Più di una femminista mi ha detto "il lavoro non mi interessa". Più di un professore: "non interessa ai giovani". Più d'un compagno scuote la testa: "Gli operai non ci sono più". Sparita la primazia della fabbrica, è scomparso dalle menti il lavoro salariato, o dipendente, o eterodiretto. Rinaldini ghepardo, specie in estinzione. E invece il salariato non è mai stato così esteso, dal manovale alla famosa "mano d'opera" (o cervello d'opera) del capitale cognitivo. Com'è questa faccenda?

Direte: ma quella ha in testa sempre il sistema, il modo di produzione, il capitale, Marx. E' vero. E voi che cosa avete invece, quando parlate di globalizzazione? e ne parlate tutti?

Non si i tratta di allungare l'elenco dei bisogni, ma di capirne i nessi. Quasi nessun fenomeno oggi è del tutto dipendente ma nessuno del tutto indipendente dal modo di produzione. Salvo la questione dei sessi. Millenaria, ha attraversato civiltà precapitaliste, capitaliste e postcapitaliste. E non come differenza fra i sessi ma come gerarchia, di un sesso sull'altro, rassegnando al maschio il potere pubblico e fingendo di attribuire alla donna il governo del privato. L'ultimo femminismo ha messo in luce la frode. Come contate di metter il problema in agenda? Agli Stati Generali c'è stato un incidente. Che rispondi a Melandri, la quale ti scrive «non ci vedete e non ci rappresentate perché il vostro, dei politici, è un modo di conoscere razionale e maschile, che sottovaluta, nasconde a se stesso, il terreno e il linguaggio delle emozioni, del corpo, che è nostro?». Io, da parte mia, dubito che le due forme di conoscenza siano sessuate e divisibili, mi pare un'approssimazione costruita dalla storia, e perdipiù europea. Dubito che si farà un passo avanti finché noi, le donne, diremo ai maschi: Riconoscete che il potere, asse della politica, comincia da quello del maschio sulla femmina (Marx ed Engels lo avevano detto della proprietà, che nel caso è lo stesso). E finché voi, uomini, risponderete: a) ma io non c'entro, b) questa è un'altra storia. E' sicuramente un'altra storia, ma non una fra le altre, e non ne siete esenti.

Concludo. La famosa "unita plurale" si fa entrando nel merito. Il "metodo" è solo andare subito al massimo di unità d'azione, non rompere finché non ci si è arrivati (cosa per la quale non basta una maggioranza) e nel contempo avanzare subito una o più analisi, e quindi obbiettivi a medio e lungo termine, verificando se tengono e ci tengono assieme. Questo non siamo capaci di fare da quaranta anni in qua. Se lo ammettessimo e vi ci mettessimo subito - domani mattina? - avremmo più attenzione, anche più pietà, l'uno per l'altro, l'una per l'altra.

E anche meno pretese. Alla grande S direi: avanzate una trama, esponetevi, avendo chiaro in testa che c'è stata l'alluvione, che siete un ponte, e anche un po' sconnesso, ma il solo in vista.

Non siete "la" soluzione. Prendetevi sul serio come passaggio, finitela di chiuderlo a ogni momento. Neanche assieme fate una maggioranza, ma isolati non siete niente.

O no?

Liberazione, 12/12/07

 

 

 

 

 

Rossanda ha ragione, ma...

La sinistra e le persone diventate cose   

Marco Revelli

 

Sono del tutto d'accordo con Rossana Rossanda quando, nelle ultime righe del suo editoriale su questo stesso giornale, chiama i partiti della "grande S" a una prova di rapidità e di responsabilità. Ad "andare subito al massimo di unità d'azione", senza mollare finché non abbiano chiaro cosa (per poco che sia) li tiene - e ci tiene - assieme. E soprattutto a prendersi sul serio come passaggio, finendola di "chiuderlo ad ogni momento".

Dice proprio così: "come passaggio". E non potrebbe dirlo meglio. Perché questo significa, per come lo leggo io, che nessuno è, oggi, con la propria identità e struttura, la soluzione. E nessuna soluzione organizzativa che venga posta in essere nella transizione attuale, può essere considerata definitiva. Un passaggio non è un contenitore. Men che meno la strutturazione di un'identità già definita. E' un punto di scorrimento e di superamento. Una breccia aperta in un muro. Un "ponte", appunto, su cui transitare dal territorio politico terremotato che abbiamo di fronte (l'alluvione di cui parla Rossanda) a una forma della politica inevitabilmente altra rispetto a quella di cui subiamo e soffriamo oggi la crisi.

Nessuna, delle attuali formazioni partitiche della cosiddetta "sinistra radicale" è - io temo - da sola in grado di traghettare alcunché: rischiano di essere, ognuna presa a sé, quale più quale meno, liane sottili che pendono da rami ormai quasi secchi. E forse neppure la loro somma aritmetica (quella algebrica rischierebbe di sfiorare lo zero), la giustapposizione delle rispettive strutture organizzative, il coordinamento dei loro gruppi dirigenti, basterebbe a costituire un ponte ampio a sufficienza per sostenere l'esodo dal nostro pessimo presente. Ma il segnale offerto, l'apertura, appunto, di un varco, la dichiarazione di una volontà non ammalata di miopia e di autoreferenzialità, quello sì forse potrebbe rimettere in moto la moltitudine di soggettività che ora affondano nella palude del fallimento della sinistra politica d'inizio secolo. Riattivare un processo di elaborazione collettiva che ci restituisca la possibilità di pensare un diverso esistente possibile.

Per questo mi lasciano freddo, e dopo un po' mi infastidiscono, i capelli spaccati in quattro sulle questioni delle rispettive identità (tutte, d'altra parte, vistosamente danneggiate). E dei rispettivi confini (tutti, da tempo, diventati più porosi di quelli degli Stati nazionali). Così come mi spaventano i balli sul ponte del Titanic, a misurare le rispettive vocazioni governative o le complesse compatibilità genetiche, confondendo la legge elettorale con la legge darwiniana della selezione della specie, e guardando ognuno ai dati effimeri dei sondaggi mentre l'acqua nelle stive continua a salire. Avrei voluto che sei mesi fa, e poi subito dopo il 20 ottobre, e magari prima della discussione della finanziaria, i quattro partiti della "cosa rossa" si fossero messi d'accordo non su tutto, nemmeno sulla maggior parte delle questioni ma, che dire?, su tre, quattro punti qualificanti - magari in tema di pace e di guerra, di migranti e razzismo, di sicurezza sul lavoro e di laicità dello stato -, su cui non tornare più indietro. E su cui ricominciare il dialogo con la "loro gente", quali che fossero le reazioni di Dini o Mastella.

Questo per quanto riguarda il metodo. Per quanto riguarda invece il merito, l'editoriale di Rossanda mi lascia più dubbioso. In particolare là dove richiama un tema che da tempo viene ripetendo con tenacia: la questione della centralità del rapporto tra capitale e lavoro. L'oscuramento del ruolo e della crucialità del lavoro salariato. Intendiamoci, la questione è decisiva - l'abbiamo misurato, con dolore e disperazione, nel caso della Tyssen-Krupp -, e la sua scomparsa dall'agenda politica e finanche dal lessico del discorso pubblico è a sua volta il segno di una crisi mortale del "politico". Di una sua separazione drammatica dal "mondo della vita", come ha di recentemente affermato Fausto Bertinotti.

E tuttavia, temo che non basti riaffermare che "invece il salariato non è mai stato così esteso" nel mondo e anche nelle nostre società avanzate, per superare l'impasse. Né sarebbe sufficiente che gli intellettuali, chierici traditori, ritornassero a richiamare l'analisi scientifica di Marx riparando almeno in parte al loro tradimento. L'oscuramento, temo, continuerebbe. Forse ci sentiremmo meno soli nella comunità dei dotti, ma là in basso, dove si continua a lavorare e misurare con i propri corpi la materialità del lavoro, temo che la solitudine non si attenuerebbe. Né la consapevolezza crescerebbe.

Il fatto è che, pur nella permanenza quantitativa dell'esercito del lavoro salariato, esso non produce più "soggettività" antagonistica e organizzata. Protagonismo storico. Il capitale variabile, per usare le categorie di Marx, non si fa più soggetto sociale. Rimane nella sua forma "economica" di lavoro vivo dominato dal lavoro morto. Anzi: trapassa silenziosamente, ma massicciamente, nella dimensione "oggettivata" del "capitale fisso", man mano che la vita stessa dei lavoratori, l'insieme delle loro funzioni relazionali e mentali, la totalità della loro dimensione vivente viene trasformata in mezzo di produzione. Nell'epoca in cui il capitale entra nella vita del lavoratore e se la incorpora nella sua totalità, trasformando ognuno di noi in un pezzo di capitale, e non in quello, appunto, "variabile" - la parte destinata alla riproduzione della forza-lavoro, alla remunerazione delle risorse necessarie a vivere -, ma in quello "fisso", composto un tempo dalle macchine, dai prodotti del sapere accumulato negli oggetti meccanici, e costituito, oggi, anche da sezioni delle nostre menti. Dai saperi incorporati nei nostri cervelli, e diventati parte dell'apparato cognitivo e produttivo. Dalle nostre funzioni linguistiche, con cui elaboriamo il tessuto comunicativo che fa funzionare il sistema flessibile della produzione postfordista. Delle nostre relazioni informali, diventate funzioni essenziali dell'organizzazione a rete delle imprese. Così come i nostri Tfr, i nostri salari differiti e le nostre vite future si fanno, a loro volta "capitale finanziario". E i nostri salari impegnati nel credito al consumo entrano nel circuito del capitale circolante, che ci comanda più di quanto non facesse ieri il "capo" imponendo di lavorare sempre di più per pagare le rate dei debiti, o il mutuo della casa, e comunque ciò che già abbiamo consumato...

E' questo nostro "farci capitale", con i nostri corpi e con le nostre menti, e con il nostro futuro già "impegnato", nell'epoca del capitalismo totale e personale, che rende così problematica la costituzione del lavoro salariato in soggetto antagonistico. O anche solo in identità distinta, e capace di stare nella storia e nella società come identità distinta. Che ne terremota l'identità pregressa, e ne rende così problematica la rappresentanza, e fin anche la rappresentazione. La costruzione di un racconto condiviso, in cui le diverse figure del lavoro possano riconoscersi.

Ed è per questo che mantenere aperto il "passaggio" è così importante. Perché le acque non si richiudano prima che la parola torni a farsi sentire nell'universo altrimenti muto delle cose (degli uomini trasformati in cose).

Liberazione, 23/12/07

 

 

 

 

 

Una rete di reti, d'uguaglianza e differenza. Altro che partito...

Imma Barbarossa


Nei giorni in cui il cosiddetto popolo di sinistra partecipava (o assisteva) all'importante evento presso la Nuova Fiera di Roma, per una crudele coincidenza a Torino si consumava un tragico evento, fortemente emblematico degli effetti più disastrosi della sconfitta della sinistra, di quella sinistra che per tutto il Novecento si era costruita essenzialmente sull'autonomia della classe operaia e sulle lotte per il lavoro. Se guardiamo alla frantumazione del lavoro, all'atomizzazione dei soggetti, alla crisi della rappresentanza del mondo del lavoro e alla sua rappresentazione come una "variabile dipendente" dal profitto e dagli interessi dell'azienda (oggi si dice sviluppo), ci rendiamo conto dell'impresa enorme, complicata a cui dovremmo accingerci, quanti, quante pensano che il capitalismo - ce l'ha insegnato Marx - non è l'ordine naturale del mondo e che un altro mondo possibile non è solo uno slogan.
Ma c'è un altro ordine, che è apparso per secoli naturale, ben più naturale del capitalismo, ed è l'ordine patriarcale. Anche Rossanda ne riconosce (o quasi) la priorità, perché è precapitalistico, perché addirittura può prescindere dal capitalismo, perché si basa su un nesso davvero originale, il nesso tra riconoscimento e conflitto. Il riconoscimento tra soggetti che possono essere accomunati dall'eros, dalla passione, dalla sessualità e il conflitto che le donne hanno imparato a dover praticare, per darsi parola autonoma e libertà; è questo il grande portato di questi ultimi trent'anni, la pratica di una lotta politica esterna e interna. Esterna nei confronti degli "orchi" violentatori (che abitano, come sappiamo, prevalentemente le mura domestiche) e "interna" nei confronti di un maschile che punta a cooptarci, ad avvolgerci di paternalistici omaggi, e in sostanza ad omologarci. Si aggiunge il Vaticano che pretende di convincerci che la complementarità (e di fatto la sudditanza e/o l'automoderazione) delle donne deriva dal diritto naturale e perciò vale erga omnes , non essendo un semplice oggetto di fede.

Dunque, quando usiamo la parola ricostruzione della Sinistra non intendiamo rifacimento della sinistra così com'era (sotto qualsiasi forma e qualsiasi cosa ciascuno/a intende per sinistra), ma invece ri-costruzione (col trattino) di uno spazio di autosoggettivazione in cui uguaglianza differenza e libertà siano le tre virtù teologali. Ecco allora che diventano comprensibili le parole con cui le "femministe autoconvocate" hanno voluto stigmatizzare la due giorni della Nuova Fiera. E in questo percorso di soggettivazione le femministe hanno "incontrato" i soggetti glbtq, non per allungare la lista delle rivendicazioni, ma per mettere al centro i corpi sessuati e la loro tensione alla libertà. Tutto bene dunque? No certo. Intanto, perché è ancora difficile per noi farci capire e quindi dispiegare efficacia in assise così vaste, distratte da sirene di retorica tendenti a vellicare attese mediatiche e messianiche, e in secondo luogo - ma questo vale soprattutto per noi compagne del Forum delle donne - perché c'è una strada stretta, una specie di imbuto. Giacché, insieme e ciascuna per conto suo, abbiamo fatto la scelta, certo eccentrica, di stare in un partito comunista, erede - nonostante gli innegabili cambiamenti - delle forme del comunismo novecentesco (organizzazioni e pratiche), ovverossia di una forma di patriarcato teorico e politico. Anzi talvolta qualcuna di noi si è addirittura cimentata nell'intrecciare il femminismo con il marxismo attraverso, ad esempio, la critica degli assoluti di Marx, la definizione di libertà di Luxemburg e la trasformazione molecolare di Gramsci: sarà che ci piace confliggere con il pensiero forte piuttosto che con le teorie del post-moderno.
E' ovvio che in questo conflitto il primo gradino che incontriamo è la questione delle gerarchie ed è vero che se pensiamo (semplificando) alla Sinistra unitaria e plurale come a una federazione di 4 partiti, ha ragione Sansonetti, perché 3 partiti più 1 (il nostro) uniti dovrebbero essere migliori, più "democratici", meno gerarchici di un soggetto che si presenti come un partito con-fuso? Il ragionare è in astratto, ovviamente, perché 2 dei 4 partiti (Pdci e Verdi) non hanno intenzione di con-fondersi, gli uni per un più o meno comprensibile attaccamento all'identità comunista, gli altri perché non si sentono né di sinistra né "vicini ai comunisti". Ma non è questo il punto e l'interrogativo che ci pone il direttore di Liberazione . Non è solo, però, questione di gerarchia nelle forme storiche dei partiti comunisti, e nemmeno di oppressione maschile sulle donne. La forma dei partiti comunisti - lo diciamo come Forum delle donne da più di dieci anni - è totalmente inadeguata a rappresentare le soggettività sociali critiche per tanti motivi, innanzitutto perché è pensata per una politica maschile, di riconoscimento sociale e simbolico tra uomini, una sorta di fratriarcato in cui gli uomini si combattono e competono (ma si danno valore) fra loro in una sorta di recinto autoreferenziale che chiamano spazio pubblico, costruendo di fatto uno spazio in cui la differenza femminile è derubricata a rivendicazione, richiesta di spazi o di posti nelle istituzioni. Gli spazi sono occupati, si apre qualche varco per le quote, le donne vengono giudicate e misurate su capacità (politiche e di direzione) pesate su parametri maschili. Non vale la politica delle relazioni, non vale la messa in atto di modalità di direzione alternative.
E' evidente che con questi parametri le donne con percorsi e pratiche femministe o vengono escluse o si autoescludono, o perché si ritengono inadeguate alla forma partito o perché - e più probabile - ritengono la forma partito (e purtroppo la politica) inadeguata a rappresentare la differenza politica femminile e la relazione tra i generi come fondativa della polis . Ma allora perché alcune di noi non pensano che il superamento del proprio partito in una forma liquida (che sarebbe la somma dei 4) non costituirebbe il superamento dei vizi della forma partito? La risposta è semplice: in primo luogo perché il superamento salvifico non esiste, l'uno avrebbe i difetti dei 4, poi perché in Rifondazione abbiamo, con altre, agito una pratica del conflitto abbastanza singolare, non ridotta alla richiesta di posti nella polis maschile, ma volta alla decostruzione del nesso tra maschile e potere, tra maschile e violenza, tra forza e violenza, tra comunità e stato, tra comunismi e nazionalismi. Per questo penso alla Sinistra come una rete di reti, sull'esempio della Sinistra Europea italiana, da rafforzare ed estendere, ossia ad una sorta di rete di reti fondata sul nesso uguaglianza e differenza, dove l'autosoggettivazione sia la pratica ricorrente. Ecco perché penso al soggetto unico come a una forma davvero gerarchica e autoritaria nella sua apparente liquidità.

*segreteria nazionale Prc-Se

Liberazione, 28/12/2007