L'intervento del SubComandante Marcos all'incontro dei popoli indigeni

 

 

Autorità tradizionali della Tribù Yaqui di Vicam; leader, rappresentanti, delegati, autorità dei popoli originari d’America presenti in questo primo Incontro dei Popoli Indios d’America; uomini e donne, bambini ed anziani della Tribù Yaqui; osservatori ed osservatrici del Messico e del Mondo; lavoratrici e lavoratori dei mezzi di comunicazione.
Sorelle e fratelli:
Grandi sono le parole ascoltate in questo incontro. Grandi sono i cuori che hanno partorito queste parole. Il dolore dei nostri popoli è stato raccontato da chi lo subisce da 515 anni: la sottrazione e il furto di terre e risorse naturali, ma ora con i nuovi abiti della «modernità», del «progresso, della «civiltà», della «globalizzazione». Lo sfruttamento di centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini e anziani, che riproducono i tempi e i metodi delle encomiendas e delle grandi haciendas dell’epoca in cui le corone d’Europa si imponevano a ferro e fuoco. La repressione con la quale eserciti, poliziotti e paramilitari rispondono alle rivendicazioni di giustizia della nostra gente, come quella che le truppe dei conquistadores usavano per annichilire intere popolazioni. Il disprezzo che riceviamo per il nostro colore, la nostra lingua, il nostro modo di vestire, i nostri canti e balli, le nostre credenze, la nostra cultura, la nostra storia, nello stesso modo di 500 anni fa, quando si discuteva se eravamo animali da addomesticare o bestie feroci da annichilire, e ci si riferiva a noi come inferiori. Le quattro ruote della carrozza del denaro, per usare le parole dello Yaqui, ripercorrono la strada fatta del sangue e del dolore dei popoli indios del continente. Come prima, come 515 anni fa, come 200 anni fa, come 100 anni fa.
Tuttavia, qualcosa è cambiato.
Mai la distruzione era stata tanto grande ed irrimediabile. Mai era stata tanto grande e incontrollabile la brutalità contro terre e persone, e mai era stata tanto grande la stupidità dei malgoverni che subiscono i nostri paesi. Perché quello che stanno uccidendo è la terra, la natura, il mondo. Senza logica di tempo e luogo, terremoti catastrofici, siccità, uragani, inondazioni si presentano su tutto il pianeta. E si dice che sono «catastrofi naturali», quando in realtà sono state provocate, con accurata stupidità, dalle grandi corporazioni multinazionali e dai governi al loro servizio nei nostri paesi.
Il fragile equilibrio della natura che ha permesso al mondo di andare avanti per milioni di anni sta per rompersi di nuovo, ma ora definitivamente.
E in alto non si fa niente, se non dichiarazioni ai mezzi di comunicazione e formare inutili commissioni.
I falsi capi, i malgoverni, sono idioti che adorano gli anelli della catena che li soggioga. Ogni volta che un governo riceve un prestito dal capitale finanziario internazionale, lo mostra come un trionfo, il pubblicizza su giornali, riviste, radio e televisione. I nostri attuali governi sono gli unici, in tutta la storia, che festeggiano la loro schiavitú, la ringraziano e la benedicono. E si dice che è democrazia il fatto che il Comando della distruzione sia a disposizione di partiti politici e caudillos.
«Democrazia elettorale» è come i prepotenti chiamano la lotta per entrare nell’affare di vendere la dignità e portare avanti la catastrofe mondiale. Là in alto, nei governi, non c’è speranza alcuna. Né per i nostri popoli indios, né per i lavoratori della campagna e della città, né per la natura. E per accompagnare questa guerra contro l’umanità, si è costruita una gigantesca bugia.
Ci si dice, ci ripetono, ci insegnano, ci impongono, che il mondo ha percorso la sua storia per arrivare a dove comandasse il denaro, quelli in alto vincessero e noi, il colore che siamo della terra, perdessimo. La monarchia del denaro si presenta, così, come il culmine dei tempi, il fine della storia, la realizzazione dell’umanità. Nelle scuole, sui mezzi di comunicazione, istituti di ricerca, libri, la grande bugia riaggiusta la storia e ciò che tiene in mano: il luogo e il tempo, cioè, la geografia e il calendario. In queste terre, che chiamarono «nuovo mondo», loro ci imposero la loro geografia. Da allora ci fu «nord», «sud», «oriente» e «occidente», accompagnati da segni di potere e barbarie.
I sette punti cardinali dei nostri antenati [sopra, sotto, davanti, dietro, un lato, un altro lato e il centro] furono dimenticati e al loro posto arrivò la geografia dell’alto con le sue divisioni, frontiere, passaporti, green cards, minuteman, la migra, i muri sui confini. Imposero anche il loro calendario: in alto i giorni di riposo e benessere, in basso i giorni di disperazione e morte. E celebrano ogni 12 ottobre come «il giorno della scoperta dell’America», quando in realtà è la data dell’inizio della guerra più lunga della storia dell’umanità, una guerra che dura ormai da 515 anni e che ha come obiettivo la conquista dei nostri territori e lo sterminio del nostro sangue.
Insieme a questo profondo e diffuso dolore, è stata citata anche la ribellione del nostro sangue, l’orgoglio della nostra cultura, l’esperienza nella resistenza, la saggezza di nostri vecchi.
In questo Incontro si è guardato indietro e lontano. La memoria è stata il filo invisibile che unisce i nostri popoli, così come le montagne che corrono lungo tutto il continente e ricamano queste terre.
Quello che qualcuno chiama «sogno», «utopia», «impossibile», «bei desideri», «delirio», «pazzia», qui, nella terra dello Yaqui, si è sentito con un altro tono, con un altro destino. E c’è un nome per questo di cui parliamo ed ascoltiamo in tante lingue, tempi e modi. C’è una parola che viene dall’origine stessa dell’umanità, e che segna e definisce le lotte degli uomini e delle donne di tutti gli angoli del pianeta. Questa parola è LIBERTÀ.
È quello che vogliamo come popoli, nazioni e tribù originarie: LIBERTÀ. E la libertà non è completa senza la giustizia e senza la democrazia. E non può esserci niente di tutto questo con il furto, il saccheggio e la distruzione dei nostri territori, della nostra cultura, della nostra gente. Un mondo senza prepotenti, questo è quello che sembra impossibile immaginare per le persone di oggi. Come se la terra avesse avuto da sempre chi imponesse il suo potere su di lei e su chi la lavora; come se il mondo non potesse essere mai giusto. Sono i popoli originari che guardano al loro passato, che conservano e preservano la loro memoria, quelli che sanno che è possibile un mondo senza Dominatore né dominati, un mondo senza capitale, un mondo migliore. Perché quando innalziamo a bandiera il nostro passato, la nostra storia, la nostra memoria, non vogliamo ritornare al passato, ma costruire un futuro degno, umano.
Incontrarci è la conquista principale di questa riunione.
C’è ancora molto da fare, discutere, concordare, lottare. Ma questo primo passo sarà un vento fresco per il dolore del colore che siamo del colore della terra. Nel calendario che cominciamo a percorrere, nella geografia che concordiamo, continua una gigantesca sovversione. Per i suoi modi e mezzi non ci sono manuali, ricettari, dirigenti di scrivania e accademia. Invece, c’è l’esperienza dei popoli originari, ma ora con l’appoggio e la decisione dei lavoratori della città e della campagna, dei giovani, delle persone adulte, degli altri amori, dei bambini e delle bambine; di tutte e tutti quelli che sanno che per il mondo non ci sarà un’altra opportunità se questa guerra la vinceranno quelli che stanno in alto.
La ribellione che scuoterà il continente non ripercorrerà le strade e le tappe delle precedenti che cambiarono la storia: sarà un’altra. Quindi, quando cesserà il vento che saremo, il mondo non avrà terminato il suo lungo cammino e ci sarà l’opportunità di fare con tutte, con tutti, un domani dove ci siano tutti i colori. A quel tempo del calendario che faremo, in quel luogo della nuova geografia che realizzeremo, la luna cambierà lo sguardo con cui nasce e sarà di nuovo il sorriso che annuncia l’incontro della luce e dell’ombra.

 


Da Vicam, Sonora, Messico.
Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, 14 ottobre 2007