LA RIFORMA DEL "LAVORO"

La “Riforma” Monti: il lavoro è una merce. Approfondimento per attrezzarsi e lottare...
 


100415lavoro di Roberta Fantozzi

La “riforma” del lavoro del governo Monti rappresenta un altro gravissimo tassello della destrutturazione dei diritti e della controriforma in atto del modello sociale. Il suo segno è complessivamente regressivo: per la manomissione e lo svuotamento dell’articolo 18, per gli interventi che vengono fatti sugli ammortizzatori sociali, per quelli relativi alle tipologie contrattuali.
Il disegno che ne emerge è un disegno organico di ulteriore precarizzazione del mondo del lavoro che coinvolgerà in particolare le fasce dei lavoratori adulti/anziani, in un mix micidiale con la controriforma delle pensioni. Un disegno non evidenziato a sufficienza da un dibattito pubblico inquinato dai molti elementi di propaganda e di vera e propria falsificazione.

1. LA MANOMISSIONE DELL’ARTICOLO 18.
L’articolo 18 viene svuotato perché è manomesso in radice il suo principio fondante. Quel principio sanciva con una logica elementare, che se un licenziamento viene giudicato illegittimo, il lavoratore ha il diritto ad essere reintegrato nel proprio posto di lavoro. Una volta che il licenziamento era giudicato illegittimo cioè non contava più la motivazione che l’impresa aveva addotto per giustificarlo, ma il giudizio di illegittimità. Come logica vorrebbe.
Con la “riforma” Monti, è la logica invece a non contare più. Anche se il licenziamento viene giudicato illegittimo infatti, le motivazioni addotte dall’impresa per giustificarlo continuano a valere e servono per differenziare le tutele del lavoratore.
I casi in cui scatta la reintegra diventano quantitativamente residuali ed alle imprese viene data la possibilità di scegliere la motivazione che rende più agevole la possibilità di licenziare. La reintegra da regola che era, diventa dunque eccezione, caso “estremo e improbabile” per citare lo stesso Monti.
In dettaglio:
1. Solo nel caso di licenziamento discriminatorio si mantengono le tutele preesistenti secondo la più generale normativa antidiscriminatoria che prevede la nullità del licenziamento e la reintegra del lavoratore. Va ricordato che i casi in cui il giudice può dimostrare il licenziamento discriminatorio (per motivi di sesso, “razza”, credo religioso, politico, sindacale ecc.) sono rarissimi, come è dimostrato statisticamente. L’onere della prova è infatti in capo alla lavoratrice o al lavoratore, che può dimostrare la discriminazione sostanzialmente solo nei casi in cui un datore di lavoro sia così poco accorto da dichiararla, con una sorta di autodenuncia. Un recente studio della Cgil Toscana ha quantificato i licenziamenti discriminatori nell’1,2% del totale dei licenziamenti riconosciuti come illegittimi nel 2011.
2. Nel caso di licenziamento cosiddetto “disciplinare” che viene cioè motivato con il comportamento della lavoratrice o del lavoratore, il ddl Monti prevede la reintegra in soli tre casi: quando sia accertato che il fatto imputato al lavoratore non sussiste o che il lavoratore non l’ha compiuto o laddove il contratto prevede esplicitamente che quel fatto deve essere punito con una sanzione minore. Per il resto “il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro... e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria..” Dunque anche se il giudice valuta che il licenziamento è ingiustificato, non può ordinare la reintegra ma è obbligato a disporre l’indennizzo. Una norma di questa natura è una sorta di incentivo a che le imprese “ci provino”. E’ utile sottolineare che anche in questo caso siamo di fronte alla limitazione fortissima anche da un punto di vista quantitativo della possibilità della reintegra (Nanni Alleva stimava i casi riconducibili alle tre tipologie “pure” per cui è prevista la reintegra in un decimo del totale).
3. Il terzo caso è quello del licenziamento per motivi “oggettivi” cioè economici o organizzativi. La reintegra in questi casi sarà possibile solo a fronte della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”. Come è stato sottolineato questa plateale insussistenza è sostanzialmente impossibile da provare. E in pratica si traduce nella necessità di dimostrare che il licenziamento è discriminatorio, con un onere della prova di fatto scaricato sul lavoratore. Anche nel caso si riuscisse a capire in cosa si concretizza la “manifesta insussistenza” e a dimostrarla, la reintegra è solo possibile, a discrezione del giudice, e non obbligatoria. Il giudice “può” ordinarla ma anche disporre l’indennizzo. Mentre in tutti gli altri casi, anche se è accertato che per il licenziamento “non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo” il giudice può solo disporre l’indennizzo. Il licenziamento a cui il datore di lavoro apporrà l’etichetta del motivo “oggettivo” si configura insomma come la corsia preferenziale per disfarsi dei lavoratori indesiderati.
4. E’ stato sottolineato giustamente come la “riforma” Monti non intervenga solo sui licenziamenti individuali, ma anche sui licenziamenti collettivi, cioè superiori a 5 persone. Il rispetto delle procedure definite dalla legge 223/91 è in questo caso uno degli elementi di garanzia più importanti per le lavoratrici e i lavoratori. Ora la “riforma” dispone che un accordo sindacale possa “sanare” i vizi della comunicazione che avvia la procedura di licenziamento collettivo, e sostituisce all’obbligo di reintegra in caso di violazione delle procedure, la possibile alternativa tra reintegra e indennizzo.
Vanno fatte infine due ulteriori considerazioni.
La prima riguarda l’introduzione di un altro elemento: l’obbligo del tentativo di conciliazione unito alla previsione che il risarcimento per il lavoratore che riuscisse ad ottenere il reintegro “non potrà essere superiore a dodici mensilità della retribuzione”, scoraggia con tutta evidenza dal perseguire la strada del reintegro e spinge ad accettare la monetizzazione del licenziamento. Se viene indubbiamente prevista infatti un’accelerazione dei tempi della giustizia, il protrarsi di un processo oltre i dodici mesi è eventualità tutt’altro che impossibile, che graverà sulle spalle del lavoratore ingiustamente licenziato. Chiamato a supplire anche agli oneri dell’inefficienza dello stato!
La seconda considerazione riguarda il lavoro pubblico. La “riforma” rinvia a specifiche iniziative normative “gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione”. Ma c’è qualcuno che crede davvero che il pubblico impiego possa restare fuori? Per il governo è stato tutto sommato relativamente semplice, cioè relativamente privo di opposizione, estendere le modifiche drasticamente peggiorative delle pensioni di vecchiaia dalle lavoratrici pubbliche a quelle private, dopo che si era giurato e spergiurato che l’allungamento dell’età pensionabile sarebbe restato circoscritto al pubblico impiego. Non è difficile immaginare quanto possa essere facile l’operazione opposta, dal privato al pubblico. Non solo per la natura già privatistica del rapporto di lavoro, ma per il senso comune diffuso che anche ingiustamente, vede comunque il settore pubblico come luogo di privilegi. Livellare al ribasso non sembra davvero un’operazione difficile, una volta che la “riforma” sia passata.
La manomissione dell’articolo 18 c’è ed è pesantissima dunque. E tutto questo sta in un rapporto organico con le altri parti: quella relativa alla riforma degli ammortizzatori sociali e quella relativa alle tipologie contrattuali. Il disegno di legge, su questi punti è persino peggiorativo rispetto alle linee guide presentate precedentemente da Fornero, ma già in quel testo era più che evidente la regressione complessiva che si prospettava. La descrizione che è stata avanzata da più parti, di un intervento positivo al 90% e problematico “solo” sul punto dei licenziamenti è totalmente falsa.

2. GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
Il sistema previsto dalla riforma Monti è organizzato a regime su due pilastri: le tutele in costanza del rapporto di lavoro e quelle in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Le conseguenze della “riforma” sono riassumibili nella riduzione secca della durata delle tutele che si combina con gli effetti della controriforma delle pensioni in un mix micidiale, mentre lo sbandierato allargamento della platea dei beneficiari è sostanzialmente inesistente. Ed è davvero insostenibile parlare di universalizzazione degli strumenti di sostegno.
A. Per quel che riguarda le tutele in costanza del rapporto di lavoro sono previste la cassa integrazione ordinaria e quella straordinaria per crisi e ristrutturazione. Viene invece abolita la cassa straordinaria per cessazione di attività connessa a procedure fallimentari e viene abolita la cassa integrazione in deroga che è sostituita dall’istituzione di fondi di solidarietà bilaterali presso l’Inps. La cassa in deroga viene mantenuta nella fase transitoria, fino a tutto il 2016 con finanziamenti dalla fiscalità generale di  1 miliardo per il 2013 e 1 per il 2014, 700 milioni per il 2015,  400 milioni per il 2016.
L’abolizione della Cigs connessa a procedure fallimentari accorcia i tempi delle tutele per i lavoratori che potranno contare in luogo dei precedenti 12 o 24 mesi per la Cigs, sui 12 mesi di Aspi elevabili a 18 in caso siano ultra 55enni. La diminuzione dei tempi diventa micidiale poiché si somma agli effetti dell’eliminazione della mobilità. L’indennità di mobilità notoriamente varia a seconda dell’area geografica e dell’età del lavoratore da un minimo di 12 mesi ad un massimo di 36 nel centro-nord, da un minimo di 24 ad un massimo di 48 nel sud.
Dunque in una regione come la Toscana il mix dell’abolizione della Cigs per cessazione di attività per procedure fallimentari e della mobilità abbassa il periodo di tutela che oggi va da un minimo di 24 mesi ad un massimo di 60 mesi, ai 12 mesi dell’Aspi elevabili a 18 per gli ultracinquantacinquenni. Fino a 4 anni in meno, che diventano 5 in una regione come la Campania.
Ovviamente è previsto una fase di transizione, a tutele calanti, fino alla nuova situazione a regime.
La soppressione della cassa integrazione in deroga per i settori non coperti e la sua sostituzione con i fondi di solidarietà bilaterali costituiti presso l’Inps è l’altra modifica significativa che viene fatta.
La cassa in deroga ( finanziata dalla fiscalità generale per il  60%  e con fondi europei da parte delle Regioni per il restante 40%) aveva un problema evidente di incertezza e discrezionalità, ma il nuovo meccanismo è negativo per più di un aspetto.
In primo luogo, i fondi pur essendo privi di personalità giuridica ed essendo definiti come “gestioni dell’Inps” si pongono come evidente transizione verso il modello più generale della bilateralità, quello che ha l’obiettivo di trasferire parti crescenti del welfare dalla garanzia e gestione pubblica a quella bilaterale di imprese e sindacati, privatizzando il welfare e mutando anche per questa via il ruolo delle organizzazioni sindacali. Nel caso specifico, l’abolizione della cassa in deroga non diventa occasione per istituire strumenti generali a carico della fiscalità generale come il reddito sociale minimo, in una divisione di ruolo limpida tra tutele finanziate dai contributi di imprese e lavoratori e le garanzie pubbliche universaliste e non discrezionali. Semplicemente il contributo pubblico al sostegno al reddito non esiste, il meccanismo assicurativo è l’unico previsto con i fondi obbligati al pareggio di bilancio, e viene prefigurata una gestione degli ammortizzatori sociali affidata alla bilateralità.
In secondo luogo i fondi (istituiti entro il 2013 da accordi tra sindacati e imprese, o in assenza di accordo, dallo stato in forma residuale, fermo restando il meccanismo contributivo per il loro finanziamento) configurano tutele diverse a secondo dei settori e non garantiscono le tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle imprese con meno di 15 addetti, essendo obbligatori solo al di sopra di tale soglia.
Per quel che riguarda la cassa integrazione l’unico “ampliamento” della platea dei beneficiari è in realtà limitato al fatto che una serie di settori (attività commerciali e turistiche con più di 50 dipendenti, imprese di vigilanza con più di 15, trasporto aereo e sistema aeroportuale) per cui ogni anno veniva finanziata la deroga, entrano invece a far parte strutturalmente del sistema di ammortizzatori sociali.
B. Per quel che riguarda le tutele in caso di cessazione del rapporto di lavoro, vengono abolite l’indennità di mobilità e le diverse forme di indennità di disoccupazione (ordinaria non agricola, a requisiti ridotti, speciale edile) che confluiranno nell’ASPI e nella mini Aspi.
Come si è già detto l’eliminazione della mobilità comporta una riduzione micidiale della durata del sostegno al reddito. Fino ad oggi le lavoratrici e i lavoratori che usufruivano della mobilità erano coperti per un periodo di 12 mesi, elevato a 24 per i lavoratori da 40 a 50 anni, e a 36 per gli ultracinquantenni, nel centro nord. Per i lavoratori delle aziende ubicate a sud le coperture, sempre in relazione all’età dei lavoratori, andavano invece da 24 a 36 a 48 mesi. L’Aspi dura 12 mesi, elevabili a 18 per gli ultracinquantacinquenni.
Una riduzione della durata certo non commensurabile con il modesto incremento che si registra con il passaggio dall’indennità di disoccupazione ordinaria all’Aspi (più 4 mesi fino a 50 anni, stessa durata da 50 a 55 anni, più 6 mesi oltre i 55 anni).
Va anche evidenziato come con la diminuzione dell’indennità del 15% dopo i primi 6 mesi, tutte le retribuzioni basse ( quelle entro i 1500 euro lordi al mese) vedono diminuire l’indennità percepita nel corso dei 12 mesi, con un ulteriore abbassamento per gli ultra55enni per cui c’è un abbassamento del 30% rispetto al primo importo (mentre oggi la penalizzazione era solo del 20% dal secondo anno di mobilità).
L’estensione della platea dei beneficiari che l’introduzione dell’Aspi comporterebbe è inoltre pura propaganda. La platea è sostanzialmente la stessa, dato che le sole tipologie a cui l’Aspi viene estesa rispetto alla vecchia indennità di disoccupazione, sono gli apprendisti e gli artisti.
Resta fuori tutto il falso lavoro autonomo, i para-subordinati, e gran parte del lavoro dipendente a tempo determinato. L’Aspi è esclusa per le partite IVA, l’associazione in partecipazione, il lavoro a progetto, i voucher, il lavoro a chiamata...
Ma resta fuori anche gran parte del lavoro dipendente a tempo determinato in virtù di requisiti d’accesso che restano identici a quelli previsti per la vecchia indennità di disoccupazione. Per il lavoro precario, il doppio requisito dei due anni di iscrizione all’Inps e delle 52 settimane di contributi versati nel biennio, restano infatti in larga parte soglie irraggiungibili. Lo studio con cui la Cgil aveva accompagnato poco più di un anno fa la presentazione della propria proposta di riforma degli ammortizzatori sociali, aveva quantificato in circa la metà del totale dei lavoratori a termine, la quota di esclusi dall’indennità di disoccupazione.
Per questi ci sarà forse la mini Aspi equivalente della disoccupazione a requisiti ridotti, per chi ha almeno 13 settimane di contribuzione, con una durata pari alla metà della contribuzione dell’ultimo biennio.
Mentre per i collaboratori a progetto viene resa strutturale l’una-tantum già prevista, una sorta di “mancia” con requisiti di accesso iper-selettivi.

3. L’EFFETTO CONGIUNTO DELLE “RIFORME” DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI E DELLE PENSIONI.
La “riforma” del lavoro prevede la possibilità di accordi sindacali di incentivo al pre-pensionamento dei lavoratori più anziani, totalmente a carico delle imprese, per quei lavoratori che nei 4 anni successivi al licenziamento raggiungano i requisiti per la pensione. La possibilità per l’appunto, che assai difficilmente si tramuterà in una strada effettivamente percorribile! Pare davvero difficile convincere un padrone a farsi carico per 4 anni del pagamento della pensione dei lavoratori, contributi compresi, in maniera assolutamente volontaria!
Nel frattempo è utile citare un paio di esempi degli effetti del combinato disposto riforma delle pensioni/ riforma degli ammortizzatori sociali contenuti in un recente lavoro della CGIL Toscana.
1° esempio.
Prima del governo Monti: un lavoratore di 57 anni di età e 32 di contributi, collocato ad ottobre 2010 in cigs per un anno e successivamente in mobilità per 3 anni avrebbe avuto diritto alla pensione nel 2014 a 61 anni di età.
Con la nuova riforma pensionistica non avrebbe raggiunto alla fine della mobilità, i 42 anni e 6 mesi previsti per la pensione anticipata. Dovrà pagarsi i versamenti o attendere la pensione di vecchiaia a 67 anni. Senza stipendio per 6 anni.
Con i nuovi ammortizzatori sociali: se avesse avuto solo l’Aspi per 18 mesi, alla fine della stessa avrebbe dovuto pagarsi i contributi volontari per raggiungere i 42 anni e 1 mese di contributi, oppure attendere la pensione di vecchiaia nel 2020 a… 67 anni. Senza stipendio per 8 anni e 4 mesi.
2° esempio
Prima del governo Monti: una lavoratrice di 56 anni di età e 28 anni di contributi al 2010, collocata ad ottobre 2010 in Cigs per 1 anno e poi in mobilità per 3 anni, avrebbe avuto diritto alla pensione di vecchiaia nel 2014 a 60 anni di età e 32 di contributi.
Con la nuova riforma pensionistica: non avrebbe raggiunto alla fine della mobilità i 63 anni e 9 mesi previsti per la pensione di vecchiaia nel 2014. Andrà in pensione nel 2021 a 67 anni e 2 mesi. Senza stipendio per 7 anni.
Con i nuovi ammortizzatori sociali: se avesse avuto solo l’Aspi per 18 mesi, alla fine della stessa dovrà attendere la pensione di vecchiaia nel 2021. Senza stipendio per 8 anni e mezzo.
In conclusione
Gli esempi mettono a confronto le due situazioni a regime. Nel mezzo ci sono le misure di attenuazione degli effetti delle “riforme” previste per gestire la transizione. Ma la modifica strutturale che si produce, con tutta evidenza ridisegna la società nel profondo. L’esito è la precarizzazione della vita in ogni età e per ogni generazione. Ed alla domanda su dove si collocheranno le lavoratrici e i lavoratori espulsi dai luoghi di lavoro, senza tutele, e lontanissimi dall’accesso alla pensione, risponde la riforma delle tipologie contrattuali che poco o niente ha a che vedere con la riduzione della precarietà dei giovani e molto invece con la gestione della precarizzazione degli adulti/anziani nel generale e fortissimo abbassamento delle tutele e dei salari.

4. LE TIPOLOGIE CONTRATTUALI.
La propaganda di Fornero e Monti, ma anche del PD e perlomeno fino ad una certa data, della stessa CGIL ha descritto questa parte della “riforma” come quella “progressiva” seppure in maniera insufficiente. A questa valutazione hanno concorso oltre agli elementi propagandistici, una sorta di ipertrofia del dettaglio che ha fatto velo ad una analisi più complessiva delle dinamiche del sistema.
La prima osservazione che va fatta riguarda allora il fatto che i diversi tipi di contratti nel concreto dei processi sociali non operano come sistemi chiusi e statici, ma come sistemi comunicanti e dinamici. Detto in altri termini o l’intervento è tale da ridisegnare effettivamente il sistema nel senso della radicale riduzione della giungla contrattuale oppure, se una tipologia contrattuale viene resa più garantita ma accanto ad essa continua a sopravvivere un rapporto di lavoro meno tutelato, quella via diventerà perlomeno in una certa misura, il contratto preferito dalle imprese. La retorica della “flessibilità buona” da contrapporre a quella “cattiva” andrebbe contrastata con la realtà della moneta cattiva che scaccia quella buona.
Dunque il fatto che le 46 tipologie di contratto restino tutte è in certo modo decisivo rispetto al giudizio anche su questa parte della riforma. Da osservare comunque nei dettagli almeno per quel che riguarda le tipologie principali.

I RAPPORTI “ATIPICI” DI LAVORO AUTONOMO O PARASUBORDINATO.
L’associazione in partecipazione.
L’associazione in partecipazione con mero apporto di lavoro (cioè il fatto che il lavoro dipendente venga camuffato da partecipazione all’impresa a cui si contribuisce mettendo a disposizione il proprio nudo lavoro), era la tipologia per cui la prima versione della “riforma” prevedeva un intervento di un qualche significato. L’ipotesi presentata nelle linee-guide, se non la eliminava del tutto la circoscriveva fortemente, limitandola al coniuge e ai parenti di primo grado. Ora l’associazione in partecipazione viene nuovamente estesa a tre associati, più coloro che sono legati da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado e affinità entro il secondo. Questo consente di utilizzare questa tipologia al posto del lavoro dipendente ad esempio in esercizi commerciali anche di una certa dimensione, coprendo i turni necessari, come già avviene.
La partite IVA.
Sulle partite Iva resta il meccanismo “a scale” previsto nelle linee guida. La partita Iva, se ricorrono una serie di presupposti, si presume collaborazione coordinata e continuativa. A loro volta le collaborazioni coordinate e continuative possono trasformarsi in un rapporto di lavoro subordinato. Non è data la possibilità di trasformazione diretta. Inoltre i casi in cui da partita Iva si può passare a collaborazione, per cui nella prima versione era sufficiente ricorresse uno solo dei tre presupposti indicati nel testo, ora prevedono almeno la presenza di due requisiti, indicati in una durata superiore ai sei mesi, nel fatto che i corrispettivi costituiscano più del 75% di quanto percepito nell’anno solare, e nell’utilizzo di una postazione di lavoro presso la sede del committente. Restano fuori da questa possibilità di trasformazione le attività professionali per il cui esercizio è necessaria l’iscrizione ad un albo.
Il lavoro a progetto.
Per quel che riguarda il contratto a progetto il testo introduce requisiti più rigidi: che il progetto non possa ricalcare l’oggetto sociale del committente, che non possa comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che non possa riguardare attività svolte con modalità analoghe a quelle dei dipendenti dell’impresa committente.
Ovviamente non è stato oggetto nemmeno di discussione la possibilità per distinguere il vero dal falso lavoro autonomo, di indicare come criterio idenitificativo del lavoro dipendente la cosiddetta “doppia alienità”: dei mezzi di produzione e del risultato utile della prestazione.
Dunque queste tipologie di lavoro continueranno ad essere utilizzate per coprire la realtà di rapporti di lavoro subordinato. Inoltre il fatto che non siano state almeno agganciate ai minimi retributivi del lavoro dipendente, non solo le continuerà a configurare come le forme di lavoro da sottopagare, ma l’incremento dei contributi dal 27 al 33% nel 2018, verrà scaricato, come già avvenuto in passato sui lavoratori.

IL LAVORO DIPENDENTE.
L’apprendistato.
Si è fatto un gran parlare dell’apprendistato come del canale di accesso privilegiato dei giovani nel mondo del lavoro.
Vale intanto la considerazione fatta all’inizio: nel perdurare di tutte le altre tipologie di lavoro, la scelta dell’apprendistato è una, soltanto una, delle tipologie a cui si può ricorrere, nell’ampio menù che continua ad esistere.
Il testo della “riforma” inoltre pare contenere elementi peggiorativi rispetto alle norme preesistenti prefigurando una sorta di uso dell’apprendistato - particolarmente favorevole per gli sgravi contributivi e i vantaggi retributivi di cui gode - per sostituire le residue assunzioni con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, quello che dovrebbe essere il rapporto “normale”. Non pare essere altro il significato della norma che innalza il rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati, dall’1 a 1, previsto dal testo unico sull’apprendistato approvato poco tempo fa, al 3 a 2 che prevede la “riforma”. Non solo, mentre il testo iniziale stabiliva che l’assunzione di nuovi apprendisti fosse subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro, al termine dell’apprendistato, della metà degli apprendisti assunti nei tre anni precedenti, ora questo viene dilazionato per tre anni, durante i quali il vincolo di “stabilizzazione” è abbassato al 30%.
Vale infine la pena di notare come sul terreno contrattuale si stiano determinando accordi che svuotano totalmente i cosiddetti contenuti formativi dell’apprendistato, come l’accordo separato con Assolavoro, non firmato dalla Cgil, che prevede la somministrazione degli apprendisti su più imprese!
Il lavoro a termine e in somministrazione.
E’ dalle modifiche introdotte sul lavoro a termine e in somministrazione (ex-interinale) che però emerge con maggiore chiarezza il disegno organico del governo Monti. Alla faccia di tutte le dichiarazioni sul contrasto alla precarietà e sul lavoro a tempo indeterminato come forma “comune” di rapporto di lavoro, si introducono una serie di modifiche profondamente regressive. In parte nel testo della “riforma”, ed in parte con il decreto del governo che ha recepito la direttiva europea sul lavoro interinale, varato a marzo, fuori dai tavoli di confronto.
Nel primo caso il modesto incremento contributivo sul lavoro a termine, viene accompagnato dalla eliminazione della causale finora necessaria, per il “primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore a sei mesi, concluso tra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore, per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione.” Sparisce dunque la necessità di giustificare l’instaurazione del contratto a termine in base a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, e il tempo determinato si “giustifica” dunque solo per l’elemento ricattatorio della scadenza del contratto. Per come è scritta la norma inoltre, questo primo rapporto privo di causali pare essere reiterabile senza limiti per lo stesso lavoratore, in un’altra mansione o con un'altra impresa. Va ricordato che fino ad oggi l’insussistenza di quelle ragioni che dovevano essere comunicate in forma scritta, era motivo di nullità del termine.
Per quel che riguarda il lavoro interinale, il decreto che il governo ha fatto, al di fuori dalla trattativa, fa di peggio. Vengono eliminati sia le causali e dunque l’obbligo di fornire i motivi del ricorso al lavoro interinale, sia i tetti quantitativi previsti dai contratti, in tutti i casi in cui vengano assunti con contratto di somministrazione, una platea amplissima di soggetti: tutte le lavoratrici e i lavoratori percettori di ammortizzatori sociali da almeno 6 mesi e i lavoratori cosiddetti svantaggi e molto svantaggiati ai sensi del regolamento della comunità europea del 2008 (oltre a chi non ha un impiego da sei mesi, gli ultracinquantenni, i privi di diploma superiore, gli adulti soli con una o più persone a carico.. e i senza lavoro da 24 mesi che sono qualificati come molto semisvantaggiati.) Siamo al rilancio in grande stile del lavoro interinale, a cui è affidato il compito di ricollocare tutti i lavoratori espulsi, nella crisi, dai processi produttivi e impossibilitati ad accedere all’ormai irraggiungibile pensione.

5. LE DONNE E LA “RIFORMA”.
Analizzare la “riforma” dal punto di vista delle conseguenze di genere richiede una riflessione più consistente di quella che si può fare in questo documento. Qui intanto si deve sottolineare come non ci sia nessun ripristino di una procedura realmente efficace contro le  “dimissioni in bianco”, diversamente da quanto affermato dalla propaganda di Fornero. Per altro verso  è davvero risibile presentare i 3 giorni retribuiti di congedo parentale che il padre lavoratore deve prendere entro i 5 mesi dalla nascita come uno dei modi per redistribuire i ruoli familiari! All’opposto, in uno dei paesi europei dove è più forte l’asimmetria di genere nel lavoro produttivo e di cura, i 3 giorni sono evidentemente  assai peggiorativi rispetto ai 15 richiesti dal Parlamento Europeo. Inoltre la “riforma” ha l’evidente obiettivo di spingere le donne lavoratrici a tornare subito al lavoro, ottenendo “in cambio” per 11 mesi dei voucher per la baby-sitter.  Con il che si chiude il cerchio, promuovendo il lavoro precario di altre donne piuttosto che l’incremento dei servizi.

IN CONCLUSIONE
La “riforma” del lavoro di Monti configura dunque complessivamente un quadro di profonda regressione. Come abbiamo continuato a ripetere, l’articolo 18 è il diritto su cui si fonda la possibilità di esercitare tutti gli altri diritti, di sottrarre le lavoratrici e i lavoratori al ricatto e all’asimmetria di potere nel rapporto di lavoro. Ed è assieme all’articolo 28 uno dei due pilastri su cui si fonda l’impianto dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori.  La sua manomissione significa un salto di qualità dei processi di dominio e mercificazione del lavoro. Tanto più in un contesto segnato dai tanti gravissimi provvedimenti che sono intervenuti sul terreno del lavoro: dall’articolo 8 - i cui effetti micidiali non sono ancora visibili, ma stanno cominciando a manifestarsi, che scardina la contrattazione collettiva e l’intero corpo della legislazione a tutela del lavoro - all’espulsione della Fiom dai luoghi di lavoro, a cui si sta ponendo parziale rimedio non con provvedimenti generali, ma sul terreno giudiziario.  Né c’è nessuno “scambio” con le altre parti della riforma, come si è cercato di evidenziare. Il complesso degli interventi tra controriforma delle pensioni, intervento sugli ammortizzatori sociali e sulle tipologie contrattuali, disegna piuttosto un quadro in cui la risposta alla crisi, con  l’espulsione dai luoghi di lavoro e l’impossibile accesso alla pensione, si traduce in un’estensione micidiale della precarietà anche alle generazioni degli adulti ed anzi degli anziani. Il tutto ovviamente nel quadro delle scelte generali di politica economica assunte a livello europeo, del Fiscal Compact come della lettera della BCE. Quelle che stanno archiviando ciò che resta del modello sociale europeo: diritti del lavoro, welfare, democrazia.
Per quel che ci riguarda dunque l’impegno è quello di intensificare la mobilitazione per determinare la più ampia opposizione sociale e politica alla “riforma” del lavoro e alle politiche del governo.

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