La rivolta pacifica dei monaci nella ex-Birmania. ANCORA ALTRI MORTI!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DOMANI TUTTI E TUTTE VESTITE DI ROSSO IN SOLIDARIETA' CON LA PROTESTA DEMOCRATICA E PACIFICA IN BIRMANIA!

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da www.corriere.it 27 settembre 2007

Birmania: spari su folla, caccia ai reporter

Ucciso un giornalista giapponese e uno tedesco

 

RANGOON (MYANMAR) - Dopo le minacce e le intimidazioni, gli spari: i militari birmani, dopo i blitz notturni nei monasteri e l'arresto di decine di monaci, stamattina hanno aperto il fuoco contro la folla scesa in piazza a Rangoon per il decimo giorno consecutivo, uccidendo diverse persone (nove riferiscono i media del regime). Tra le vittime un fotografo giapponese (Kenji Nagai, 50 anni, dell'agenzia di stampa France Press) e un giornalista tedesco (la morte di quest'ultimo però non è stata confermata dalle autorità). I due reporter sono stati colpiti dagli spari dei militari vicino alla pagoda di Sule, dove manifestavano oltre diecimila persone. Nella città è infatti in corso una vera e propria caccia ai giornalisti stranieri che stanno portando in tutto il mondo le notizie della protesta. Soldati birmani sono entrati nel Traders Hotel, albergo nel centro di Rangoon vicino la pagoda di Sule, e hanno cominciato a perquisirlo stanza per stanza alla ricerca di reporter stranieri entrati nel Paese con visto turistico.

SPARI CONTRO LA FOLLA - All’indomani dei primi scontri tra forze dell’ordine e manifestanti che hanno causato diverse vittime (almeno una e diversi feriti dicono le autorità, almeno 8 invece secondo i dissidenti presenti all’estero), in 70mila hanno aderito oggi alla protesta contro la giunta militare. I manifestanti si sono diretti verso la pagoda Sule, cantando l’inno nazionale e inneggiando al generale Aung San, eroe dell’indipendenza e padre della leader della Lega nazionale per la democrazia, Aung San Suu Kyi, da anni agli arresti domiciliari. «Dateci la libertà, dateci la libertà» hanno urlato alcuni dimostranti, arrabbiati per i raid condotti la scorsa notte nei monasteri, in cui i religiosi sono stati picchiati e arrestati in modo di poter iniziare la repressione le strade svuotate dai monaci (ascolta l'inviato). I militari hanno prima intimato ai manifestanti di disperdersi, quindi hanno usato gas lacrimogeni e colpi di avvertimento, infine hanno aperto il fuoco contro la folla.

RAID NOTTURNI - La scorsa notte, le forze di sicurezza birmane hanno assaltato due monasteri di Rangoon, picchiando e arrestando oltre 100 monaci. Nei giorni scorsi, i religiosi avevano di fatto assunto la guida delle proteste in corso nel paese dalla metà di agosto, per il rincaro del prezzo del carburante. Secondo le testimonianze citate dalla Kyodo, almeno 70 monaci sono stati «arrestati con violenza», vale a dire picchiati e malmenati nei soli monasteri di Moe Kaung e di Ngwe Kyar Yan, nella parte nord occidentale di Yangon. Sempre nella notte di ieri, la polizia ha arrestato il portavoce della leader della Lega nazionale per la democrazia, Aung San Suu Kyi, e un membro dello stesso partito: Myint Thein e Hla Pe. Fermato anche un ex parlamentare, esponente della minoranza Chin, Pu Yin Shin.
il fotografo giapponese colpito e ucciso in Birmania

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Soldati birmani contro i monaci: 5 morti
Militari e poliziotti in assetto antisommossa hanno caricato i manifestanti nei pressi della pagoda di Shwegadon

di Anna Maria Bruni da www.rifondazione.it



Almeno cinque persone, tra cui un monaco, sono rimaste uccise nelle cariche della polizia verificatesi oggi contro i manifestanti a Yangon, in Birmania. Gli incidenti più gravi sono avvenuti nei pressi della pagoda di Sule, uno dei centri nevralgici delle proteste di questi giorni, il luogo di culto da cui era partita anche la "rivolta degli studenti" nel 1988. 150 sono invece i feriti fra i manifestanti.
Secondo la radio “Voce democratica di Birmania”, con sede a Oslo, tre persone sono state uccise dai militari di fronte alla pagoda di Shwedagon, la più importante della capitale, diventata il fulcro della proteste, mentre altre due sono morte dinanzi a quella di Sule.

Eppure solo ieri un analista birmano esiliato in Thailandia, Aung Thu, Nyein aveva dichiarato alla France Press che “il regime si è mostrato estremamente prudente negli ultimi giorni e sta tentando di evitare tensioni con i manifestanti”.
Ma evidentemente la protesta deve essere arginata, e le reazioni ancora tiepide dell’Occidente hanno permesso la svolta repressiva che oggi sembra prendere piede.

Ma ricostruiamo i fatti.
La protesta aveva già preso vita a metà agosto con piccole manifestazioni in varie città della Birmania dopo la decisione di aumentare i prezzi della benzina del 70% , del diesel del 100% e del gas compresso da cucina e per gli autobus del 500%. Decisione che ha prodotto una serie di altri aumenti a catena delle materie prime, tra cui il riso, e l'impennata del costo dei biglietti degli autobus e dei trasporti. Inoltre, in un paese dove nell’era del capitalismo globalizzato regna una dittatura militare, e quindi la democrazia è un mito, il lavoro sfiora la schiavizzazione e lo ‘sviluppo’ procede con le tappe del lavoro forzato. E’ così che la protesta arriva nei monasteri e coinvolge i monaci, che tornano protagonisti accanto alla popolazione per denunciare un sistema di vita insostenibile. E scelgono, in piena coerenza con una vita dedicata al messaggio di pace del Buddha, la strada della non violenza. Già nel 1988 i monaci avevano dato vita ad una grande protesta violentemente repressa dalla giunta, ma che è stata finora l'unica sfida seria al regime.

I piccoli focolai che si sviluppano nel corso dell’ultimo mese sfidano già la reazione violenta dei lacrimogeni e dei manganelli delle forze di polizia birmane, e finalmente il 18 settembre esplodono in una protesta che dilaga in tutto il paese. La lista delle manifestazioni è lunghissima: Rangoon, Sittwe, Aarakan, Pegu, Mandalay, Pakkoku.

La giunta intanto se la prende coi civili. Nella capitale viene arrestata una attivista in clandestinità: Naw Ohn Hla, già membro della Lega nazionale per la democrazia, e una delle protagoniste delle prime manifestazioni scoppiate in agosto contro il carovita.

Nel frattempo la protesta continua ad allargarsi. A Sittwe 2000 monaci chiedono la liberazione dei quattro colleghi arrestati pochi giorni prima.

Il terzo giorno della protesta non violenta almeno un migliaio di monaci marcia sotto la pioggia per le strade di Rangoon, accompagnato da una folla di altre proteste a Pegu, Mandalay, Sagaing, Magwe, nelle città degli stati Mon, nell'Arakan, nel Tenasserim, mentre la giunta militare passa alla prima minaccia: il ministro per gli affari religiosi, il generale Thura Myint Maung, intima «se i monaci non rispetteranno le regole, adotteremo alcuni provvedimenti in base alla legge in vigore».

La rivolta intanto vede anche l'adesione del Dalai Lama.

A questo punto, il pachiderma occidentale comincia a dare segni di vita, ma sono solo sbadigli.
La situazione in Birmania diventa sì il centro del dibattito che si apre il 24 al parlamento Ue, ma sia il capo della diplomazia europea Javier Solana che la Casa Bianca si limitano a parole di rito. Seguono «con attenzione» e «incoraggiano» il regime militare al dialogo. Gli Usa – per bocca del portavoce della Casa Bianca, Gordon Johndroe - portano avanti contatti con «alleati e amici nella regione» per contenere le reazioni della giunta. Il segretario generale dell'Onu Ban-Ki moon, «elogia» il carattere pacifico delle manifestazioni a Rangoon, «fa appello» alle autorità birmane perché continuino a usare moderazione e «esprime l'auspicio» che il governo apra il dialogo con tutte le parti per avviare un processo di riconciliazione nazionale, nel pieno rispetto dei diritti umani, che riapra le porte alla democrazia. Persino la Svizzera esprime preoccupazione. Berna ha invitato le autorità birmane a permettere al Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) di riprendere le sue attività nei luoghi di detenzione su tutto il territorio. Posizioni di facciata, ma nulla di concreto per scongiurare il pericolo di una svolta sanguinaria.

La situazione quindi resta tesa, e aperta anche alla peggiore delle ipotesi.

Sul fronte orientale anche la Cina (ma anche l'India, altra grande alleata regionale, e i paesi dell'Asean, l'organizzazione del Sudest asiatico di cui fa parte anche la Birmania) potrebbe fare la differenza se prendesse posizione. Ma anche un intervento cinese, potrebbe non pesare abbastanza nei giochi interni di uomini che, con la fine della dittatura, vedrebbero compromesso, oltre che il potere, il proprio impero economico.
In questo quadro probabilmente solo se l’Occidente prenderà non solo una sera posizione di condanna, ma anche ad esercitare sanzioni, si può sperare che la repressione innescata dai militari possa rientrare, per fare spazio alle richieste dei monaci e della popolazione.

Roma, 26 settembre 2007

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riflessione di Francesco Martone*

 

 

Le notizie che ci giungono da Rangoon e da altri centri urbani della Birmania lasciano il mondo con il fiato sospeso. Dopo giorni di manifestazioni pacifiche e nonviolente, organizzate dai monaci buddisti , la macchina terribile della repressione armata ha già fatto le sue vittime. Incurante delle sollecitazioni di mezzo mondo e delle minacce di sanzioni commerciali, la SDRC (State Development and Restoration Council - la giunta militare per intenderci) sembra non ascoltare ragioni. Fino ad oggi i militari sono riusciti a giovarsi di un complicato intreccio di relazioni politiche ed economiche e di un rinnovato interesse geostrategico verso le risorse naturali.

La Cina e l'India oggi si contendono una posizione privilegiata verso la Birmania: Pechino stringendo accordi multimiliardari per lo sfruttamento del gas naturale e New Delhi facendo altrettanto, però cercando di agevolare l'esportazione soprattutto di armi. Stretto quindi da giochi d'interesse geopolitico e geostrategico e dalla retorica dell'esportazione della democrazia, che non ci appartiene, il popolo birmano continua a soffrire. Soffre della repressione spietata scatenata dopo le recenti proteste causate dall'aumento indiscriminato dei prezzi del carburante, che ha portato all'aumento notevole anche del cibo e dei trasporti pubblici. Oltre 2,5 milioni di birmani ogni giorno si muovono con i trasporti pubblici e oggi devono spendere il 90 per cento del loro salario soltanto per comprarsi il cibo. Già nel 2005 la giunta birmana decise di aumentare i prezzi del carburante di ben l'800 per cento.
Il Paese oggi ha un'inflazione che viaggia sul 20 per cento e aumenterà del 30 per cento nel 2008. Il reddito pro capite è di 225 dollari l'anno e ben il 90 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà.

Una situazione paradossale visto che la Birmania era considerata uno dei Paesi più ricchi dell'Asia, soprattutto per la produzione agricola ma anche, ora, per l'enorme disponibilità di risorse naturali: tek, pietre preziose, gas naturale. Un Paese che soffre la fame, la repressione, il lavoro schiavo e la violenza sessuale, quest'ultima usata come arma di dissuasione militare e politica. Una nazione che patisce nella persona del suo leader spirituale Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, che ha trascorso undici degli ultimi diciassette anni agli arresti domiciliari; nel vedere i leader dei movimenti che hanno coordinato le ultime proteste, il cosiddetto Movimento 88, arrestati, alcuni torturati (uno morto sotto le torture); e nel constatare che, nonostante le pressioni internazionali, la giunta aveva già preparato le condizioni per assicurarsi la permanenza al potere.

Contemporaneamente alle prime proteste per l'aumento del carburante, la giunta militare aveva chiuso un processo illegittimo, non trasparente, non democratico, che porterà, se non vi sarà una volontà seria da parte della comunità internazionale per disconoscerlo, ad adottare una Costituzione che rafforzerà il potere dei militari, escluderà i partiti democratici e quindi perpetuerà il potere dei militari stessi. Vanificando così ogni sforzo della comunità internazionale ed il sacrificio dei morti di ieri e di oggi, caduti sotto i colpi dell'esercito, di quei monaci buddisti sottoposti a violenze ed artefici di una rivolta nonviolenta senza precedenti nella storia.

E' per loro, per quel popolo e per tutti coloro che hanno creduto e credono nella forza della nonviolenza, del dialogo, della costruzione paziente della democrazia, che oggi l'Italia tutta si deve mobilitare. Il governo sostenga subito la possibilità di una risoluzione d'urgenza del Consiglio di Sicurezza, la Cina faccia finalmente la sua parte, e l'Europa adotti sanzioni commerciali ed economiche rapidamente, prima che a Rangoon si ripeta una nuova Tien An Men.

*Senatore Prc, Comm. Affari Esteri di Palazzo Madama

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di Martino Mazzonis
All'inizio degli anni 90 il dente del Buddha custodito come reliquia nel tempio di Pechino fece il giro di Myanmar per quarantacinque giorni. Erano passati pochi mesi dal secondo anniversario dell'8 agosto '88, quando i militari avevano represso nel sangue la rivolta cominciata dagli studenti e, per commemorarlo, i monaci di Mandalay si erano radunati ed erano stati attaccati dai soldati. Da quel giorno e per due mesi i giovani religiosi che partecipavano alle proteste smisero di officiare funzioni e di girare chiedendo l'elemosina - come fanno per vivere essendosi distaccati dalle cose terrene. La reliquia del Buddha venuta da Pechino era un tentativo della spietata giunta militare di Myanmar di mostrare al suo popolo che nonostante le botte ai monaci il potere era attento a sostenere la religione e la Sangha - parola in sanscrito che si riferisce alla comunità o all'insieme dei monaci e delle monache. Negli anni Than Shwe e gli altri generali al potere hanno fatto di tutto per incensare i vertici religiosi del loro Paese, spendendo in restauri e costruendo nuovi templi.
Sono passati quasi venti anni da entrambi gli episodi di rivolta e da allora il Paese ha cambiato nome - da Birmania è diventato Myanmar - e, lo scorso anno, capitale, ma i militari sono ancora in sella e i monaci sono tornati a guidare la protesta. Tra Yangoon - altro nome cambiato dai generali - Mandalay e Pakokku, le grandi città del Paese, erano almeno trecentomila ad aver risposto all'appello dei religiosi. Nella ex capitale il corteo è partito dalla Pagoda d'Oro di Shwedagon, il principale tempio del Paese asiatico e meta di quel turismo che è una delle fonti di sopravvivenza del regime, per poi dirigersi verso il centro della città. I monaci in testa e la gente dietro e ai lati, un lungo serpente passato anche davanti alla sede in rovina della Lega Nazionale per la Democrazia, la forza guidata da Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari in maniera quasi ininterrotta dal 2003. Esponenti della Lnd hanno dapprima assistito in silenzio alla manifestazione, limitandosi ad applaudire e a inchinarsi in segno di rispetto mentre i monaci passavano davanti al loro quartier generale, poi hanno seguito la folla. La marcia è passata anche per l'ex cittadella universitaria teatro della rivolta studentesca dell'88 e affogata nel sangue di tremila persone dalle teste di cuoio del regime militare.
Manifestazioni così non si vedevano da venti anni, dicono gli osservatori, un fatto che restituisce grande speranza a molti birmani, un'idea che ne spaventa altrettanti preoccupati delle possibili conseguenze. Se dall'inizio delle dimostrazioni, prima piccole poi sempre più grandi, le autorità hanno mantenuto il profilo basso, ieri sono arrivate le prime minacce. La giunta ha tenuto una riunione d'emergenza nella nuova capitale Nay Pyi Taw a 400 chlometri da Yangoon e la televisione di Stato ha riferito di un incontro tra il ministro per gli Affari religiosi, il generale Thura Myint Maung, e alcuni leader religiosi per avvertirli che «se i monaci vanno contro le regole e e le norme dell'insegnamento buddista prenderemo provvedimenti secondo le leggi esistenti». Alcuni capi religiosi avrebbero ordinato di smetterla con le manifestazioni ma in Birmania i monaci sono 400mila e un pezzo determinante di una società che li rispetta, la maggior parte sono giovani ed evidentemente pronti a sfidare gli ordini dei loro superiori. Il settimanale di opposizione Irawaddy , che ha sede in Thailandia, scrive infatti che la rivolta non è solo la risposta all'aumento del prezzo della benzina deciso dalla giunta in concomitanza della Convenzione nazionale chiamata a riscrivere la costituzione. C'è dissenso crescente e diffuso. Il settimanale avanza anche l'idea che l'aumento della benzina fosse in qualche modo un tentativo di soffiare sul fuoco in vista di un rimescolamento delle carte all'interno della giunta - non sarebbe una cosa nuova: nel 2004 il primo ministro Khin Nyunt fu sostituito e messo agli arresti domiciliari.
La paura di tutti è che l'intervento di qualche leader religioso contento delle donazioni dei militari ai monasteri possa in qualche modo giustificare quell'uso della mano dura. L'ambasciatore di Londra ha detto alla Bbc : «la repressione sarebbe un disastro, ma temo che questa possibilità alta». Spinto da questa preoccupazione, il segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon, ha chiesto ai militari di mantenere la calme e ha incoraggiato il dialogo. Ai monaci è arrivato il sostegno del Dalai lama che si è detto ammirato Sottolineando la sua «ammirazione» e ha espresso il «pieno sostegno al loro appello per la libertà e la democrazia».
Ai confini con Myanmar, i Paesi dell'Asean - l'associazione dei Paesi del Sud est asiatico - per ora tutto tace. Qualche pressione da Bangkok o da altrove sarà anche venuta, visto che in passato qualche tensione sul tema della libertà c'era stata - tensione minima, all'asiatica: i birmani avevano rinunciaot alla presidena di turno per evitare danni d'immagine. Chi mantiene un non profilo è Pechino, partner commerciale e protettore silenzioso dei militari. Sui principali siti di notizie cinesi non si fa riferimento alla rivolta buddhista e non ci sono prese di posizione ufficiali: la Cina non vuole bagni di sangue ma nemmeno rivolte che cambino lo status quo portando non si sa cosa. Specie se quelle rivolte le guidano gli stessi monaci che sono il principale problema di immagine in vista delle Olimpiadi del 2008.

da www.liberazione.it

25/09/2007

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reportage sulla ex-Birmania da wwwpeacereporter.net

Myanmar - 13.9.2007
Viaggio al termine della Dittatura
viaggio da turista di una reporter in un Paese interdetto ai giornalisti, tra una popolazione terrorizzata dalla dittatura
Nello stato di Myanmar la repressione poliziesca sta raggiungendo i livelli della rivolta dell'88, quando i generali della Giunta socialista affogarono nel sangue i moti più intensi nei 50 anni di vita indipendente del Paese. La giornalista Elisabetta Norzi è appena tornata dalla Birmania, dove è potuta entrare solo con un visto da turista. La situazione intanto precipitava sotto i suoi occhi: dal 14 agosto le manifestazioni spontanee seguite al raddoppio del prezzo del carburante si sussuegono ogni giorno tra l'ex capitale Yangon e Mandalay. Gli arresti aumentano in numero e brutalità e a protestare sono scesi in piazza addirittura giovedì scorso a Pakokku dei monaci buddisti. Alcuni di loro sono finiti in ospedale dopo le cariche della polizia; il giorno dopo una delegazione di poliziotti andata a presentare le scuse in convento è stata trattenuta sotto sequestro dai monaci che hanno incendiato le loro auto. La repressione militare non ha tardato ad arrivare: al momento di inserire nel sistema editoriale questa pagina web, la Giunta ha imposto un coprifuoco sulle attività dei monaci, costringendoli a uscire non più di un'ora per la loro questua quotidiana.Misure speciali sono state prese verso i conventi di Gandayona, Alodawpi e Sittwe
scritto per peace reporter da
Elisabetta Norzi
“Nothing please, nothing please”. Ripetevano tutti la stessa frase i negozianti del mercato Bogyoke di Yangon mentre il 19 agosto, primo giorno di proteste, chiudevano velocemente le serrande e scappavano via. Il modo più gentile – carattere che contraddistingue ogni donna e uomo birmano - per chiedere ai turisti stranieri di non fare domande in quel momento: erano 20 anni che nel paese non c’erano manifestazioni contro il regime come quelle scoppiate quest’estate in diverse città della Birmania (o Myanmar, come i militari hanno ribattezzato il paese). E il ricordo della repressione del 1988, quando i generali salirono al potere, è ancora vivissimo.

 

Tremila uccisi in sei settimane “Per noi birmani – racconta Myo, un ragazzo poco più che ventenne che lavora per resort di lusso sulle isole tailandesi – l’agosto 1988, quando vennero ammazzate oltre 3mila persone in piazza nell’arco di sei settimane, non può essere dimenticato. Siamo rimasti terrorizzati, ed è molto difficile superare la paura”. Myo ha lasciato la Birmania, un piccolo villaggio a sud di Yangon, sette anni fa, in cerca di un lavoro. Ma ora ha deciso di tornare nel suo paese, dove vivono la mamma e la sorella. “Perché adesso forse qualcosa cambia”, dice, e perché vivere in Tailandia non gli piace, gli manca perfino il longy, il tessuto a quadretti che gli uomini birmani (esclusi i militari e qualche giovanissimo che preferisce i jeans) portano annodato alla vita al posto dei pantaloni. Myo sa tutto del suo paese: lavori forzati, povertà, violenze, corruzione. Dalla Tailandia, infatti, riesce a navigare su internet e si documenta più che può. Pensa anche che il regime sia in difficoltà: da qualche mese, infatti, la capitale, e tutti i poteri, sono stati spostati da Yangon a Pynmana, un agglomerato di nuovissimi edifici costruiti in mezzo alla foresta, a metà strada tra l’ex capitale e Mandalay. Un segno che il regime sta vacillando: ogni volta che perde saldezza stringe la morsa e si isola di più. Come Myo, tanti birmani scappati per trovare un lavoro, verso la Cina o la Tailandia, guardano da fuori il loro paese, con l’idea (e qualche dollaro in più) di tornare e fare qualcosa. In Tailandia sono molte le associazioni di birmani emigrati impegnate a fare pressioni sul regime e anche sul governo tailandese: “tante idee e buona volontà – spiega Myo – ma purtroppo non si riesce a fare molto di concreto”.

Un Paese agli arresti Sui quotidiani governativi – unici organi di informazione autorizzati - la giunta birmana accusa i “gruppi esterni” e “i dissidenti all’estero” di fomentare le dimostrazioni contro il regime e il rincaro del prezzo della benzina, in corso ormai da diverse settimane (nell’88 la scintilla era stata l’aumento del prezzo del riso). Cortei che nascono quasi improvvisati, di qualche decina di persone, ma che attirano applausi e l’appoggio immediato della gente. “Il governo – hanno scritto i quotidiani ufficiali il 7 settembre - possiede informazioni secondo le quali gruppi anti-governativi dall’estero stanno fornendo direttive e ogni sorta di assistenza ai gruppi anti-governativi interni per alimentare le dimostrazioni e l’instabilità. La popolazione non lo accetterà”. La popolazione, invece, non ha mai smesso di tenere vive le idee di democrazia, in oltre 40 anni di dittatura e isolamento (prima con la “via birmana al socialismo”, poi con il regime militare). Non solo seguendo a centinaia, da dietro il cancello della sua casa di Yangon i discorsi della Lady. I birmani chiamano così, pronunciando sotto voce il suo nome, Aung San Suu Kyi, leader della National League for Democracy (Ndl), premio Nobel per la pace nel 1991 e agli arresti domiciliari dal 2003 (l’ennesima volta da quando, vinte le elezioni del 1990, non le venne riconosciuta la leadership del paese). Già prima che cominciassero le proteste di queste settimane, era stata inasprita la sorveglianza ad Aung San Suu Kyi: divieto di incontrare i suoi simpatizzanti di fronte al cancello o alle finestre di casa, come succedeva da molti anni ogni domenica, e la minaccia di dichiarare illegale la sua formazione.

Isolati dal mondo “Durante questa lunga dittatura - racconta U Tint, professore di inglese in una scuola di Mandalay che ogni giorno, al tramonto, sale a piedi in cima alla collina della città per mantenersi in forma ed esercitare il suo inglese con gli stranieri – la speranza e l’impegno per la democrazia non si sono mai interrotti. Come? Continuando a parlare, a discutere, a fare girare le idee, i pensieri. Non ci siamo mai fermati”. Anche se sono puniti gli assembramenti in pubblico con più di cinque persone e, nelle città più grandi, c’è una sorta di amministratore in ogni quartiere che controlla tutti gli abitanti. Ogni persona è costretta, se non vuole finire nei guai, a denunciare gli ospiti – parenti o amici – che dormono a casa propria; nomi che vengono rigorosamente annotati su di un registro. “Non è facile qui scendere in piazza, come accade in Italia e in Europa – prosegue U Tint -, ma qualcosa si muove. In questo momento più che mai chiediamo all’Occidente di non lasciarci isolati. L’embargo di Usa e Unione europea nei nostri confronti non serve a nulla: con la Birmania, infatti, commerciano liberamente Cina, Giappone, Tailandia, Australia. Questo è un paese dove non manca niente: petrolio, legname pregiato, pietre preziose, risorse naturali, ma ad arricchirsi sono solo i generali, alle spalle di tutti noi cittadini. Raccontate come si vive qui, qual è la situazione e venite, anche solo come turisti, il più possibile”. La ragione di vita di U Tint è quella di tenere vivo il pensiero e il senso critico nei suoi studenti. Per combattere l’isolamento, prima di tutto, il peggiore male di un paese che ha uno degli eserciti più numerosi di tutto il mondo (400mila soldati per 56milioni di abitanti), in cui la maggior parte della popolazione vive nelle campagne con meno di un euro al giorno, e la mortalità infantile tocca il 7 percento. Un isolamento imposto dalla giunta, che limita più possibile gli spostamenti delle persone lasciando strade dissestate e ferrovie vecchissime, che vieta l’intervento di Ong occidentali per programmi di sviluppo, che censura gli organi di informazione.

Grazie al web Qualcosa si sta muovendo anche in Birmania. Accedere alla rete rimane molto difficile, non solo per la lentezza delle connessioni, ma anche perché molti siti (tra i quali g-mail, yahoo, hotmail) non si visualizzano nemmeno. Aggirare le censure sulla rete, però, non è difficile come nel mondo reale: tutti i ragazzi che gestiscono gli internet point conoscono indirizzi “pirata” per entrare in ogni sito oscurato dai server. Ed è proprio dal mondo virtuale che qualche notizia sulle manifestazioni di questi giorni (estese dal Sud del paese fino a Mandalay), qualche fotografia e qualche video sono usciti dalle frontiere blindate del Myanmar, scappate dal controllo del regime: oltre 150 arresti, tra cui numerosi leader del movimento pro-democrazia, gruppi di picchiatori mescolati ai passanti che reprimono con violenza le proteste, rivolte dei monaci buddisti sedate dai militari con armi da fuoco, come riporta il sito internet Democratic voice of Burma (Dvb), che ha sede in Norvegia ed è animato da un gruppo di dissidenti in esilio. Una forza nuova, secondo molti birmani, che “speriamo, questa volta, ci metta al riparo da un altro 1988”, dice Myo.