APPUNTI SULLA GESTIONE DEL SERVIZIO IDRICO ALCUNE VERTENZE DIPARTIMENTO BENI COMUNI FEBBRAIO 2006 A cura di Walter Mancini Responsabile Vertenze Territoriali PRC INDICE • Prologo • Presentazione di P. Sentinelli • Appunti sulla gestione di W. Mancini LE VERTENZE • Acqua e suolo di G. Nebbia • Sardegna la lotta per il bene comune di L. Uras • Viterbo: una vittoria importante di P. Rosselli • La vertenza contro la S. Benedetto in Veneto. di M. Vitturi • I canoni regionali • Acqua in bottiglia: una campagna del contratto italiano di E. Molinari • La produzione di acqua minerale in Italia • I consumi di acqua in bottiglia in Europa • Cremona: la nuova frontiera della privatizzazione, la bancabilità di M. Gaddi • Frosinone: privati dell’acqua di S. Lutrario (ATTAC) • Acqua e agricoltura. di Ivan Nardone APPENDICE Appello verso il primo forum italiano dei movimenti per l’acqua Dichiarazione di Bamako Dichiarazione di Caracas Vertenze internazionali contro la privatizzazione del settore idrico e per l’accesso all’acqua Prologo Partiamo dalla fine, dall’ultimo risultato ottenuto in ordine temporale relativo al bene comune acqua. Anche grazie al lavoro del vasto arcipelago di comitati, associazioni, singoli cittadini, partiti e organizzazioni sindacali, che alimenta vertenze in tutta Italia, si è arrivati a questa definizione nel programma dell’Unione. Non era affatto scontato, non è stato assolutamente facile! …Dall’Unione …L’acqua è un bene pubblico prezioso che va protetto in nome della qualità della vita e della salute pubblica. L’acqua per i bisogni primari è un diritto di cui va garantita al disponibilità, oggi più che mai minacciata da fenomeni di inquinamento, dal suo uso distorto e dallo spreco. Nel settore cruciale dell’acqua dovranno essere assunti criteri di massima sensibilità, di precauzione, di forte investimento programmatico. In questo caso la distinzione tra rete e servizio è più complessa. Entrambe le funzioni dovranno dunque rimanere pubbliche. Crediamo inoltre nell’assoluta necessità di effettuare robusti investimenti nel potenziamento e ammodernamento delle reti idriche, soprattutto , nel Mezzogiorno, dove i cittadini e gli utenti hanno ancora gravi e diffuse difficoltà di accesso all’acqua… Presentazione L’acqua è un bene comune, diritto dell’umanità. Il Contratto Mondiale dell’Acqua e le numerose lotte globali hanno gridato nelle piazze, proclamato informali risoluzioni, discusso in tutti i fori sociali questo principio per la difesa della vita delle persone e dell’intero pianeta. Milioni di donne e uomini in tante parti del mondo non hanno acqua potabile. In ampie zone si fanno guerre per l’acqua. E’ l’oro blu oggi che spesso provoca conflitti armati e tensioni geopolitiche. L’acqua è elemento fondamentale della vita, ciclo naturale riproducibile. Risorsa illimitata: dal cielo alla terra, ai fiumi, al mare e poi di nuovo nell’atmosfera per nutrire, saziare, scorrere nelle vene del pianeta. Ma dissennate e depredatrici politiche – in particolare quelle liberiste – hanno rotto proprio il ciclo, mettendo a rischio la continuità della vita. Il mutamento climatico accelerato enormemente dai gas-serra, provoca fenomeni tragici e impressionanti: tsunami e uragani. Ma ci sono anche tante esondazioni ripetute, dissesti idrogeologici, inquinamento di falde acquifere, desertificazione di vaste regioni nel mondo, frutto di un modello di sviluppo fondato sul profitto di pochi e sul progressivo impoverimento sociale e ambientale. Perciò la lotta per l’acqua è divenuta lotta multitudinaria globale. America Latina, India, Africa, e ora anche l’Europa, sono attraversate da conflitti sociali per sottrarre l’acqua al mercato e alla speculazione. La lotta per l’acqua è lotta simbolo per i popoli del Sud e del Nord del mondo. E’ lotta progressiva perché preserva beni per l’oggi e per il futuro. Difendere, proteggere, salvare una comunità dalla vendita dell’acqua vuol dire salvare e tutelare insieme il paesaggio, il sistema idrogeologico, i bacini fluviali, il territorio urbano e la sovranità alimentare e, dunque, l’elemento base della sua cultura. La legge d’ iniziativa popolare sui beni comuni, così come quella della Toscana per la ripubblicizzazione dell’acqua, trovano qui il loro profondo significato. Chiamano alla lotta e alla connessione con le sue pratiche istituzionali. Infatti l’obiettivo della pubblicizzazione dell’acqua non è ancora raggiunto ovunque. Talora in alcuni Enti Locali affiora e si afferma una politica tuttaffatto opposta a quella della difesa e valorizzazione del bene comune, e si tenta la privatizzazione, vuoi nella forma estensiva della messa in gara di tutto il servizio, vuoi in quella mista pubblico-privato. Il manuale che presentiamo non è solo strumento informativo, pur necessario, ma anche terreno di costruzione di nuova consapevolezza. E’ nato dentro l’esperienza del movimento e dal movimento ne ha tratto l’ispirazione. Ai saperi tecnico-giuridici si sono aggiunti in questi anni quelli nati e cresciuti nelle lotte territoriali. Esperienza seconda, molto importante di resistenza e sperimentazione di una nuova idea di pubblico, di nuova democrazia partecipata. La proprietà e la gestione pubblica non hanno nulla a che vedere con vecchi burocratismi. Sono piuttosto modalità collettive e partecipate che perseguono scelte di preservazione, risparmio, integrazione di bacini, ripristino dei cicli naturali. Così come per ciò che riguarda il contesto internazionale, l’intervento delle gestioni pubbliche assumeranno la politica di cooperazione anziché quella della competitività mercantile che tanti guai ha prodotto nei paesi del Sud del mondo. Patrizia Sentinelli Appunti sulla gestione La Legge Galli Una legge di luci e ombre che apre la strada alla gestione industriale del “sistema acqua”. Condivisibili i principi della legge. Viene sancito che tutte le acque, superficiali e sotterranee, anche se non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa da utilizzare secondo criteri di solidarietà, viene inoltre individuato come prioritario l’uso dell’acqua per consumo umano e le modalità con le quali conseguire il risparmio idrico, prima fra tutte, la progressiva estensione delle misure di risanamento delle reti esistenti. Una delle principali innovazioni introdotte è relativa al tentativo di superare la frammentazione gestionale che caratterizza il settore dei servizi idrici in Italia. Al contrario altri punti risultano per nulla pertinenti ai principi sopra elencati. Il primo fra tutti è la separazione tra soggetto proprietario e soggetto gestore, la Galli, infatti, obbliga alla separazione tra un soggetto proprietario delle reti (i comuni) titolari della funzione pubblica e il soggetto gestore, titolare della gestione del servizio. Proprio in virtù di questa distinzione la legge 36/94 risulta essere concepita su cinque cardini principali che sono: • Individuazione di un ambito territoriale ottimale (ATO) entro il quale gestire non più l’acqua nel suo insieme, ma i servizi idrici locali, di dimensioni sufficientemente ampie per consentire la realizzazione di economie di scala tali da consentire una gestione efficiente e più razionale; • Il riconoscimento del full cost recovery dell’acqua (costo di produzione e giusto profitto per l’azienda), giungendo, poi, alla predeterminazione del margine di utile del 7%, con un azzeramento del rischio di impresa. • La razionalizzazione dei numerosi enti gestori dei servizi, che caratterizzavano la passata gestione, in un unico ente per tutto l’ambito territoriale; • L’integrazione del ciclo del servizio idrico nelle sue diverse funzioni: rete idrica, fognaria e depurazione; • La copertura del costo integrale del servizio includendo nella tariffa: i costi di gestione e le spese di funzionamento degli ATO e delle Società di Gestione, le opere di manutenzione e di adeguamento della rete idrica, delle fognature e della depurazione, i costi degli investimenti, degli ammortamenti, gli interessi passivi sui mutui ecc…. Il quadro normativo Nel nostro paese a differenza di altre materie, il quadro normativo sul regime delle acque non ha una produzione vasta di leggi. Basti pensare che è rimasto pressoché inalterato dal 1933 (Regio Decreto nr° 1775) al 1989 con l’approvazione della legge 183. Una buona legge che tratta organicamente l’acqua in tutti i suoi usi e in tutti i suoi aspetti, che ha lo scopo di assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque e la tutela degli aspetti ambientali ad esse connesse. Definisce, inoltre, in modo inequivocabile i bacini idrografici e inserisce per la prima volta in maniera organica le attività di pianificazione e di programmazione attuate con modalità di coordinamento e di collaborazione tra i soggetti pubblici competenti al fine di garantire le condizioni di omogeneità di salvaguardia della vita umana e del territorio, compresi gli abitati ed i beni. Questa legge purtroppo però è stata quasi del tutto accantonata e inapplicata. Dal punto di vista normativo i riferimenti che maggiormente ci interessano, oltre alla legge Galli, sono gli artt. 117 e 118 della Costituzione che modificano l’assetto del governo territoriale in senso federalista. Con questi due articoli vengono ribaltate le competenze legislative tra Stato e Regioni. Per esempio nel settore idrico “convivono” competenze concorrenti, le Regioni disciplinano il modello organizzativo di un servizio che ha forte impatto con i livelli di prossimità, allo Stato spettano la tutela della concorrenza o la determinazione dei livelli essenziali del servizio pubblico. Dopo alcuni anni di grande confusione anche giuridica e pressanti tentativi di privatizzare i servizi pubblici locali (Art. 35 Legge di Bilancio 448/2001, messa in mora dello stesso art. da parte della Commissione Europea perché incompatibile con le Direttive 92/50 e 93/38) si arriva al decreto legge 269/03, poi convertito nella legge 236/03, all’articolo 14 che sostituisce il comma V dell’art. 113 del Testo Unico degli Enti Locali sui servizi di pubblica utilità, che detta le nuove forme di gestione: • Gara europea per individuare una gestione totalmente privata; • Gara europea per individuare la parte privata, di una gestione mista pubblico privato, la cui parte pubblica è costituita mediante affidamento diretto a società di capitali partecipata da enti pubblici locali; • Gestione interamente e esclusivamente pubblica mediante affidamento diretto ad una società di servizio degli Enti Locali a capitale intermante pubblico. Questo tipo di società è quello che in gergo viene definito affidamento in house. L’affidamento in house L’origine della forma di gestione in house, o diretta, nasce da una sentenza della V Sezione della Corte di Giustizia Europea del novembre 1999, denominata sentenza Teckal, su un contenzioso sorto appunto tra la Teckal srl contro il Comune di Viano e l’Azienda Gasacqua Consorziale (AGAC) di Reggio Emilia. Il contenzioso interessava l’aggiudicazione da parte di un ente locale ad un consorzio cui esso partecipa, di un contratto di fornitura di prodotti e di prestazione di servizi determinati, e la sentenza sancisce la non applicabilità delle regole sulla concorrenza qualora “…l’ente locale eserciti sulla persona (giuridica) di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano…” . L’erogazione del servizio in house si realizza quando l’amministrazione svolge l’attività attraverso proprie strutture interne, senza ricorso al mercato, perciò si parla di fenomeno di “delegazione interorganica”. L’estratto della sentenza dimostra come in realtà l’articolo 14 fu scritto nel 1999, ma di fatto recepito soltanto nel 2003 con la legge 236. Da questo si evince che è proprio la natura giuridica dei servizi pubblici locali che consente la forma di gestione diretta a patto che vengano rispettate due caratteristiche peculiari. Attività prevalente Non esiste un quantum di attività prevalente da svolgere all’interno del proprio ambito territoriale ottimale. Per analogia potrebbe essere applicato il parametro indicato dal Decreto Legislativo 158/95 art. 8 comma 3, che stabilisce nell’80% la cifra di affari da realizzare dalla società. Comunque va detto che ad oggi non c’è una indicazione giurisprudenziale chiara. Non è sufficiente che il requisito sia previsto nello statuto della società erogatrice del servizio, ma occorre che la società svolga effettivamente l’attività prevalente nei confronti dei comuni soci e che tale situazione si mantenga nel tempo. Tale requisito (controllo analogo) essendo uno dei due requisiti che legittima l’affidamento in house, deve realmente permanere in capo al soggetto gestore, è necessario pertanto istituire meccanismi di verifica in corso di rapporto a disposizione dell’Autorità d’Ambito, che deve essere messa in condizione di controllare in primo luogo gli atti di bilancio del gestore. Qualora l’Autorità d’Ambito dovesse verificare che nell’anno precedente non si è adempiuto al rispetto dell’attività prevalente, eccedendo in attività esterne, l’Autorità d’Ambito stessa deve indicare al gestore le “modalità di rientro” e i tempi previsti per effettuarle, se non adottate entro il tempo indicato si verificherà la decadenza dell’affidamento. Controllo analogo L’Ente Locale deve esercitare sull’Ente gestore un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Anche per questo requisito fondamentale per l’affidamento in house, i sostenitori della privatizzazione del ciclo idrico, hanno avanzato più di una critica. La principale è rappresentata dalla frammentazione del capitale sociale tra più Enti pubblici soci. Ciò renderebbe difficile l’esercizio del controllo analogo da parte di un piccolo comune, con una minima partecipazione azionaria, su una società magari di grandi dimensioni. Tale critica ci sembra pretestuosa e da rispedire al mittente. Innanzitutto non solo perché è necessario rimodulare gli strumenti del diritto societario (aumentare i quorum di costituzione e di deliberazione dell’assemblea ordinaria e straordinaria, diminuire le quote di capitale necessarie per attivare gli strumenti di controllo e vigilanza), ma anche perché si deve consentire a ciascun Ente Locale socio, anche con minima partecipazione finanziaria, di poter verificare l’erogazione del servizio sul proprio territorio. Circolare Matteoli: una tentata truffa o un tentativo di vendetta politica? Comunque un falso. La Circolare del 6 dicembre 2004 emanata dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, doveva servire a disciplinare la costituzione, l’operatività e la funzionalità delle società di gestione interamente pubbliche del servizio idrico. In realtà lo scopo non dichiarato invece era proprio quello di rendere più difficile l’affidamento in house dell’acqua. La circolare dopo un excursus legislativo delle norme sugli affidamenti dei servizi pubblici locali arrivava a conclusioni completamente infondate, contrastanti sia con la giurisprudenza nazionale che europea. Scriveva infatti che “…si dovrà ricorrere alla gestione in house soltanto in casi eccezionali e residuali, la durata della società dovrà essere motivata e obbligatoriamente limitata al tempo necessario per il superamento degli impedimenti all’effettiva messa in concorrenza del servizio. Le società in house, in quanto società di scopo con peculiari caratteristiche, potranno essere partecipate esclusivamente da Enti Locali, e non potranno essere partecipate da società a partecipazione pubblica, neppure totale…”. Questi i punti salienti della circolare Matteoli, totalmente inefficaci dal punto di vista normativo. La circolare non è altro che un tentativo goffo di “vendetta” politica contro quegli Enti locali che hanno scelto la gestione diretta del servizio idrico integrato. Il sistema giuridico italiano essendo basato sul principio delle fonti gerarchiche non permette ad una circolare ministeriale di modificare le norme previste nelle leggi ordinarie. Continua pertanto ad essere giuridicamente valido l’art. 113 novellato del d.lgs. 267/00 che prevede come modalità di gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica anche quello della società intermante pubblica. La controriforma ambientale del Governo Berlusconi: la legge delega Il 24 novembre 2005 è stato approvato alla Camera dei Deputati il disegno di legge 1753-B in merito alla “Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione”. In maniera più diretta la chiameremo legge delega sull’ambiente. Un vero e proprio ecomostro composto da un solo articolo e ben 53 commi, che prevede che entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge il governo è appunto delegato a emanare uno o più decreti legislativi nei settori della gestione dei rifiuti e bonifica dei siti contaminati, nella tutela delle acque dall’inquinamento e gestione delle risorse idriche, nella difesa del suolo e lotta alla desertificazioni, nella gestione delle aree protette, conservazione e utilizzo sostenibile degli esemplari di specie protette di flora e fauna, nella tutela risarcitoria contro i danni ambientali, per le procedure VIA e VAS, e infine nella tutela dell’aria e riduzione delle emissioni in atmosfera. Come è facile intuire una delega sterminata che mette mano su tutti gli aspetti della politica ambientale stravolgendola allo scopo, omettendo ogni riferimento al protocollo di Kyoto, di rendere ingestibile la vigente normativa sull’ambiente (crea forte confusione nella concorrenzialità legislativa tra Repubblica, Regioni e Enti Locali) e di smantellare ogni forma di controllo pubblico in campo ambientale. Da qualche giorno è pubblico il decretone ambientale che in perfetta sintonia con l’orientamento di fondo e l’indicazioni politiche contenute nella delega opera importanti “mutazioni” nella gestione dei servizi di interesse economico generale, come appunto acqua e rifiuti. Le modifiche più rilevanti vengono introdotte nella gestione dei rifiuti. Non viene più riconosciuta la titolarità della gestione del servizio ai tre tipi di soggetti previsti dal c. 5 del D.Lgs. 267/2000, escludendo de jure la possibilità di gestire il ciclo dei rifiuti con società a totale capitale pubblico. Inoltre il decreto propone definizioni di rifiuto già oggetto di procedure di infrazione comunitaria, prevedendo l’esclusione dalla normativa delle sostanze e dei materiali di scarto di processi produttivi ai fini del reimpiego in processi successivi. Come a dire diminuiscono i rifiuti perché viene loro cambiato nome. Rispetto alla risorsa idrica, anche in questo caso diverse sono le modifiche apportate, basti pensare soltanto che vengono abrogate tutte le disposizioni allegate al vigente decreto legislativo nr° 152 del 1999. Per quanto concerne la gestione dell’acqua invece la proposta è quella di istituire Autorità d’Ambito con personalità giuridica allo scopo di espropriare definitivamente i Comuni di ogni competenza diretta, sia sul versante del servizio idrico, che su quello della gestione dei rifiuti. Rispetto alle forme gestionali restano in vigore quelle indicate dall’art. 113 comma 5 del TUEL, continua ad essere giuridicamente valido l’affidamento in house providing. Va detto comunque che una lettura complessiva del testo evidenzia una forte impostazione neoliberista per quel concerne la gestione dei servizi economici. Attualmente siamo impegnati insieme alle altre forze dell’Unione e alle associazioni ambientaliste per impedire l’approvazione del maxi decreto ambientale (318 articoli) perfettamente consapevoli che se dovesse essere approvato dal Consiglio dei Ministri in questi tempi supplementari della legislatura, l’abrogazione della delega sull’ambiente sarà uno degli obiettivi prioritari del Governo dell’Unione. Walter Mancini Un piano per la difesa delle acque e del suolo Si potrebbe scrivere una storia dell’Italia elencando le perdite di vite, di ricchezza, di beni, conseguenti le frane e le alluvioni e la siccità, tutte ricorrenti, in tutte le parti d’Italia, con le stesse modalità e cause, tutte rapidamente dimenticate. Come anno zero può essere preso il 1951, l’anno della grande alluvione del Polesine provocata dal dissesto idrogeologico del lungo periodo fascista e di guerra durante il quale si è aggravato il taglio dei boschi ed è venuta meno la manutenzione dei fiumi. In quell’anno del grande dolore nazionale, ci si rese conto che la ricostruzione dell’Italia avrebbe dovuto dare priorità alle opere di difesa del suolo; molte indagini e inchieste misero in evidenza la fragilità di molti corsi d’acqua, oltre al Po, in cui i detriti dell’erosione si erano depositati nell’alveo e avevano fatto diminuire la capacità ricettiva dei corpi idrici. Inoltre era già stata avviata una graduale occupazione e privatizzazione delle fertili zone golenali, originariamente appartenenti al demanio fluviale proprio perché ne fosse conservata, libera da ostacoli di edifici e strade, la fondamentale capacità di accoglimento delle acque fluviali in espansione nei periodi di intense piogge. Il “miracolo economico” degli anni cinquanta e sessanta del Novecento è stato reso possibile dalla moltiplicazione di quartieri di abitazione, di fabbriche e di attività di agricoltura intensiva che richiedevano una crescente occupazione del territorio, nelle pianure e nelle valli. Nello stesso tempo la intensa migrazione interna dalle zone più povere e dissestate del Mezzogiorno verso un Nord che prometteva lavoro in fabbrica e paesi e città più vivibili e con migliori servizi, ha lasciato vaste zone del Mezzogiorno e delle isole e delle montagne e colline esposte all’abbandono umano e esposte ad un crescente degrado del territorio e a una serie crescente di frane e alluvioni. Per una nuova politica del territorio, per avviare serie iniziative di difesa del suolo non servì la frana di un pezzo del monte Toc nel bacino del Vajont, e i relativi duemila morti del 1963. E neanche la grande alluvione di Firenze e Venezia del 1966, un altro momento del grande dolore nazionale; anche allora fu riconosciuta, nel dissesto territoriale la causa prima della tragedia; fu istituita la Commissione De Marchi che riferì al Parlamento che occorrevano investimenti di diecimila miliardi di lire di allora in dieci anni per opere di difesa del suolo. Opere che non sono state fatte. Nei decenni successivi la costruzione di edifici e strade ha continuato ad alterare, anzi in maniera accelerata, profondamente la superficie del suolo creando ostacoli al flusso delle acque; si è innescata una reazione a catena che ha fatto aumentare l’erosione del suolo, i detriti dell’erosione hanno invaso gli alvei dei fiumi e torrenti e, di conseguenza, è diminuita la capacità dei fiumi e torrenti e fossi di ricevere l’acqua, soprattutto a seguito di piogge più intense. Nello stesso tempo si sta assistendo a modificazioni climatiche planetarie che alterano i cicli delle stagioni e delle piogge. Di conseguenza sempre più spesso, il territorio e la collettività italiani sono (e saranno) esposti a siccità e frane e alluvioni che distruggono edifici, strade, raccolti; sempre più spesso le comunità danneggiate richiedono la dichiarazione di stato di calamità, che significa che lo stato deve provvedere a risarcire i danni provocati da “calamità” considerate “naturali” ma che tali non sono: sono calamità dovute ad errori e imprevidenza umani: per evitarli la politica della “protezione civile” dovrebbe essere sostituita con una cultura della “prevenzione”. Le frane e le alluvioni derivano in Italia da vari fattori. Dalle piogge, prima di tutto, che si alternano rapide ed intense in certi mesi e scarse in altri; ma come si può organizzare la prevenzione delle calamità se non si sa neanche esattamente quanto piove in una regione in un anno ? La velocità con cui le piogge scorrono nelle valli, sul fianco delle montagne e colline, e poi nei fiumi a fondovalle, la loro forza di erosione del suolo, dipendono dalla vegetazione: se il suolo è coperto di alberi e macchia spontanea, la “forza” contenuta nelle gocce d’acqua delle piogge si attenua cadendo sulle foglie e l’acqua scorre sul suolo abbastanza dolcemente. Se il suolo è nudo, la forza delle gocce d’acqua lo sgretola in particelle fini che rapidamente sono trascinate a valle e, quando il flusso di acqua è intenso, il ruscellamento si trasforma in un fiume di fango, quello che abbiamo visto tante volte nelle immagini delle alluvioni. Se poi il flusso delle acque incontra ostacoli, edifici, muraglioni, il fiume di acqua e fango si rigonfia, cambia strada, si infiltra dovunque e spazza via tutto. E di ostacoli le acque sul suolo italiano, in tutte le regioni, ne incontrano tanti: decisioni miopi ed errate e l’abusivismo edilizio, tollerato dalle autorità locali e addirittura incentivato con due devastanti “condoni”, hanno fatto moltiplicare sul fianco delle valli, addirittura nel greto dei fiumi, case, fabbriche, edifici, strade. Nel 1989 era stata emanata una legge, la “centottantatre”, che stabiliva come rallentare ed evitare i disastri delle frane e delle alluvioni: La difesa del suolo e delle acque deve, indicava giustamente la legge, essere organizzata per bacini idrografici, quelle unità geografiche ed ecologiche che comprendono le valli, gli affluenti, i fiumi principali, dalle sorgenti al mare. Poiché i confini dei bacini idrografici non coincidono con quelli delle regioni e delle province, per ciascun bacino idrografico deve essere istituita una autorità di bacino che deve redigere un “piano” per indicare dove devono essere fatti i rimboschimenti, dove devono essere vietate le costruzioni, deve devono essere fermate le cave o le discariche dei rifiuti, dove devono essere costruiti i depuratori. Al piano di ciascun bacino dovrebbero attenersi --- lo voleva la legge, non sono ubbie di ecologisti --- le autorità amministrative, i consorzi di bonifica, le comunità montane, gli enti acquedottistici. Anche questa legge è stata abrogata dal testo unico delle leggi sull’ambiente approvato dal governo il 10 febbraio 2006 e di imminente pubblicazione. Eppure la salvezza del territorio contro le alluvioni e l’aumento delle risorse idriche richiederebbero un grande illuminato programma di opere pubbliche, sull’esempio di quelle intraprese dal presidente degli Stati uniti Roosevelt, nel 1933, per far uscire l’America dalla crisi con investimenti per la sistemazione delle valli e del corso dei fiumi, creando occupazione e tornando a rendere fertili terre erose e assetate proprio per l’eccessivo sfruttamento del suolo. Tali opere richiederebbero un piano quinquennale che dovrebbe cominciare con una indagine dello stato del territorio, oggi facilmente eseguibile con mezzi tecnico-scientifici come rilevamenti satellitari e aerei. Tanto per cominciare gran parte di questo lavoro è disponibile, sparso per diversi ministeri e agenzie: in parte è stato fatto (avrebbe dovuto essere fatto) nell’ambito delle autorità di bacino idrografico secondo quanto richiesto a suo tempo dalla legge 183; in parte fu (avrebbe dovuto essere) predisposto dal decreto del 1999 dopo l’alluvione di Sarno. Tale indagine dovrebbe rilevare le vie di scorrimento delle acque dalle valli verso il mare e gli ostacoli attualmente esistenti a tale flusso, rivo per rivo, fosso per fosso, torrente per torrente, fiume per fiume. Come secondo passo, l’indagine sullo stato del territorio indica (indicherebbe) dove non devono essere fatte nuove opere come costruzioni di edifici e strade e dove sarebbe opportuno localizzare futuri edifici e strade in moda da assicurare il deflusso senza ostacoli delle acque. Le decisioni conseguenti la pianificazione dell’uso del territorio --- l’indicazione di dove si può e di dove non si deve intervenire con opere nel territorio --- comporta due sgradevolissime conseguenze: la modificazione del valore di molte proprietà private e la necessità di una moralizzazione della pubblica amministrazione alla quale dovrebbe essere iniettato il coraggio di “dire no” alle pressioni di molti proprietari di suoli. Come terzo passo l’indagine sullo stato del territorio indica (indicherebbe) dove esistono ostacoli al flusso delle acque; tali ostacoli sono costituiti da edifici o opere costruiti, abusivamente o anche “legalmente”, al fianco dei torrenti e fossi, talvolta nelle golene e negli alvei; dalle arginature fatte per aumentare lo spazio occupabile a fini economici e che fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque, dai ponti e dalle strade e dalle opere che ostacolano il deflusso delle acque o che si trovano in zone esposte ad erosione, alluvioni e frane. In parte tali ostacoli devono essere rimossi; sarà una scelta politica trovare delle forme di indennizzo per i costi di spostamento e di demolizione di proprietà private o di opere pubbliche; in qualche caso basta eliminare la cementificazione dei fianchi di colline; in altri si tratta di recuperare e riattivare antiche note pratiche di drenaggio delle acque, abbandonate in seguito allo spopolamento delle colline e montagne; in altri casi si tratta di praticare una pura e semplice “pulizia” di canali e torrenti. Opere di “manutenzione idraulica” esattamente equivalenti alla manutenzione che viene praticata sulle strade, negli edifici, ai macchinari, ma mirate allo scorrimento delle acque. Come quarto passo, una accurata indagine territoriale è in grado di indicare come è variata, nei decenni, la capacità ricettiva dei torrenti e fiumi; tale variazione è dovuta sia al deposito di prodotti dell’erosione nell’alveo dei fiumi e torrenti, sia all’escavazione di sabbie e ghiaie; nel primo caso le acque piovane tendono ad uscire dagli argini e ad allagare le zone circostanti, e non servono le opere di innalzamento o cementificazione degli argini, ché anzi aggravano la situazione, trasferendo a valle materiali che ostacolano altrove il deflusso delle acque: nel secondo caso i vuoti lasciati dall’escavazione fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque in movimento. Va anche tenuto presente che quanto avviene nel corso di fiumi e torrenti influenza i profili delle coste provocando avanzata o erosione delle spiagge, con conseguente, rispettivamente, interramento dei porti o perdita di zone di valore economico turistico --- e quindi ancora una volta costi per la collettività e anche per privati. La quinta azione --- ma dovrebbe andare al primo posto come efficacia --- per rallentare e fermare i costi per frane e alluvioni, e per aumentare la disponibilità di acqua di buona qualità, consiste nell’aumento della copertura vegetale del suolo. La presenza di alberi e vegetazione fa sì che la pioggia cada sulle foglie, anziché direttamente sul terreno; le foglie e i rami sono elastici e attenuano la forza di caduta e quindi la forza erosiva delle acque. Inoltre la loro presenza e la presenza di sottobosco rallenta la discesa delle acque e quindi la loro forza erosiva. Normalmente si ragiona in termini di rimboschimento delle terre esposte ad erosione; il rimboschimento tradizionale richiede pazienza, cultura e conoscenza delle caratteristiche del suolo, oltre che delle specie vegetali, e tempo e manutenzione perché il trasferimento delle piante dai vivai al terreno è opera lunga e delicata; ma l’attenuazione del moto delle acque è svolto anche dalla vegetazione “minore”, dalla macchia e dalla vegetazione spontanea. Purtroppo esiste una anticultura che suggerisce o impone la “pulizia”, che vuol dire distruzione, del verde, dalle campagne alle valli, ai giardini privati e pubblici urbani. La macchia è spesso estirpata per lasciare spazio per strade o parcheggi o edifici: non ci si rende conto che ogni foglia, anche la più piccola e insignificante, anche quella che cresce negli interstizi delle strade, ha un ruolo positivo non solo come “strumento” per sequestrare dall’atmosfera un po’ dell’anidride carbonica responsabile dell’effetto serra e dei mutamenti climatici, ma anche per contribuire allo scambio di acqua fra il suolo e l’atmosfera --- essendo, ancora una volta, l’acqua la fonte vera della vita anche economica.. Alla distruzione del poco verde contribuisce la gestione del territorio agroforestale, l’abbandono dell’agricoltura di collina e montagna, la diffusione di seconde case e attrezzature sportive proprio nelle valli, una parte molto desiderabile del territorio, la mancanza di “amore” per la vegetazione che è la forma prima di “vita”, dalla quale dipendono tutte le altre forme di vita umana ed economica. La poca cura e protezione del verde spontaneo è la fonte degli incendi (alcuni, molti sono provocati proprio per sgombrare il terreno dal verde che ostacola costruzioni e speculazioni); gli incendi, a loro volta lasciano il terreno esposto a crescente erosione. C’è una sesta azione di sostegno alle cinque precedenti che avrebbe anche il vantaggio di non costare niente; un’opera di informazione e di “pedagogia” delle acque, di narrazione di come le acque si muovono nelle valli e nelle città, delle interazioni fra il moto delle acque e il suolo e la vegetazione e le opere umane; al di là dell’utilità pratica, appunto per diminuire i costi annui dovuti al risarcimento delle perdite economiche provocate da frane e alluvioni, la “cultura delle acque” avrebbe un valore politico e civile, mostrando come la popolazione di ciascuna valle è unita, nel bene e nel male, dalle acque che scorrono nella valle stessa, mostrando le forme di violenza che opere sconsiderate a monte esercitano sugli abitanti a valle. Giorgio Nebbia Sardegna la lotta per il bene comune La disponibilità dell’acqua ha caratterizzato le differenze tra le classi, anche all’interno della società sarda. Richiama emblematicamente la vita di sacrificio delle donne, fino a buona parte del secolo scorso costrette, soprattutto nei centri più piccoli e periferici, a fare provvista per l’uso domestico da fonti pubbliche e a lavare “i panni” nelle rive dei fiumi(quando c’erano) o nei lavatoi collettivi. Affrontare la questione “acqua” ha significato spesso confrontarsi, come in altre regioni del sud d’Italia e d’Europa, con i gravi problemi, economici e di vita, che si determinano a causa delle lunghe e ricorrenti siccità. L’acqua che non c’è, insieme ad un sistema di bacini, condotte ed acquedotti inadeguato, fonte di continui sprechi, ha pesato notevolmente sulle possibilità di sviluppo dell’intera regione. Soprattutto di una regione, come quella sarda, a prevalente economia agro-pastorale e turistica. E come da altre parti non sono stati sufficienti per risolvere l’emergenza idrica, i finanziamenti straordinari dello Stato (a partire da quelli della Cassa per il mezzogiorno), spesso utilizzati male e a fini clientelari. In uno dei 250 murales che decorano le pareti degli edifici di Orgosolo,( noto comune barbaricino) si raffigura una terra arsa e screpolata, calpestata da un contadino con zappa in spalla e da un asino con in groppa una fascina, sovrastati dalla scritta ” hustu Deus hi tenimos est duru e malu a si moer est abba hi di pedimos non suni purpas de voe” (questo Dio che abbiamo è crudele e lento a muoversi, è acqua che ti chiediamo, non già carne di bue). La lotta per l’approvvigionamento e gestione della risorsa idrica, ha radici lontane in Sardegna, ed è legata storicamente alla mancanza d’acqua. Una lotta , partita dalle campagne e che ha visto protagonisti contadini e pastori, conduttori di piccole aziende familiari, ancora oggi sommerse dai debiti contratti nel tentativo, spesso reso inutile dalla siccità, di migliorare la capacità produttiva dei fondi e degli allevamenti. E’ quindi lotta di popolo. Da quelle lotte deriva, anche, l’istituzione del Commissario governativo per l'emergenza idrica(avvenuta nel ’95), nella persona del Presidente della Regione, come riconoscimento di tutta la gravità della situazione sarda, dovuta, non solo al clima, ma anche al mancato collaudo dei bacini già realizzati ed alla complessiva inadeguatezza delle reti di collegamento e distributive. Situazione che è stata resa più difficile dalla dispersione delle responsabilità e dei poteri pubblici d’intervento e dall’assenza, pressoché totale, di coordinamento tra una miriade di soggetti gestori (enti regionali, comuni, consorzi di bonifica, società municipalizzate, consorzi industriali etc). L’azione del Commissario, ha consentito, negli anni successivi alla sua istituzione, di raggiungere progressivamente alcuni risultati positivi, grazie al collaudo dei bacini esistenti, che ha portato le capienze a più del doppio delle precedenti, e alla realizzazione di infrastrutture assolutamente urgenti per garantire una più equa e razionale distribuzione della risorsa idrica, anche a fini agricoli e industriali. La favorevole contingenza climatica degli ultimi anni, ha fatto il resto. Le lotte dei lavoratori rimangono, ancora oggi un riferimento fondamentale per la difesa e il governo democratico di un bene così essenziale come l’acqua. Affianco a contadini e pastori, ci sono anche i lavoratori del sistema idrico integrato, che hanno assunto un ruolo sempre maggiore nel difendere la proprietà collettiva del bene, per contrastare da una parte i tentativi di privatizzazione e al contempo sostenere la costruzione di un sistema di gestione efficiente, non dispersivo, che elimini gli sprechi e assicuri a tutti l’acqua, in ragione del bisogno. Lotte che vedono impegnata Rifondazione Comunista, in tutte le sedi politiche ed istituzionali, come soggetto partecipe del movimento, capace di esercitare senza soffrire contraddizioni la propria funzione di partito di governo all’interno della maggioranza democratica alla Regione. Già alla fine degli anno ’90, i lavoratori ESAF (l’ente strumentale della regione competente nella gestione degli acquedotti e della rete distributiva dell’acqua ad uso potabile), hanno recitato un ruolo decisivo perché la Regione e l’Autorità d’ambito(costituita in forza delle norme regionali di recepimento della c.d. Legge “Galli”) individuassero la soluzione di gestione del sistema idrico integrato “in house”, costituendo una s.p.a. a totale capitale pubblico, in mano a Province e Comuni, attraverso la fusione dei soggetti gestori regionali e locali già operanti. Anche in questi giorni, consapevoli della grande attenzione che suscitano tra le popolazioni sarde i processi di riforma in materia di gestione delle acque, sono mobilitati per la difesa dell’occupazione e il definitivo superamento della condizione di precariato, nella quale si trovano a vivere da anni circa 1000 dei quasi 3000 lavoratori del settore. Nella vertenza dell'acqua in Sardegna, infatti, sono coinvolti i precari dell'ESAF, i lavoratori a tempo determinato, ricorrente e continuato, delle imprese d’appalto delle manutenzioni e gestioni di gran parte degli acquedotti regionali e comunali, i precari delle municipalizzate, dei consorzi e delle gestioni in economia in capo agli EE.LL.. Il PRC sardo sostiene e condivide le ragioni e gli obiettivi dei lavoratori che puntano a coniugare una efficiente gestione pubblica dell’acqua( praticata con la soluzione in house) alla stabilizzazione e valorizzazione delle professionalità degli operatori, che hanno maturato in questi anni una forte solidarietà tra loro e con i cittadini utenti. Una condivisione rafforzata in un costante confronto con le organizzazioni sindacali e con il sistema delle associazioni per la tutela attiva dei beni comuni. (richiamo a titolo d’esempio le iniziative svolte in Sardegna con la partecipazione dei compagni Pietro Folena e Walter Mancini presso l’Associazione della stampa sarda) Vi sono, inoltre, risultati coerenti rispetto a tali ragioni ed obiettivi. Prima fra tutti l’approvazione della legge regionale “sul trasferimento del personale dei soggetti gestori dei servizi idrici regionali al servizio idrico integrato”(L.R. 10/2005 di cui chi scrive è stato relatore), nell’ambito di un percorso da completare, anche in relazione a obblighi amministrativi connessi alle procedure di impegno e spesa di risorse comunitarie finalizzate all’ammodernamento del sistema acquedottistico e fognario sardo. La disciplina approvata consente il trasferimento al soggetto gestore unico del personale degli enti regionali e locali, dei consorzi, delle aziende speciali e di altri enti pubblici operanti in via esclusiva nei servizi idrici del territorio regionale, con le garanzie di trattamento giuridico, economico e previdenziale in godimento o di quello contrattualmente di maggior favore. Ha assicurato, inoltre, anche se in regime di proroga, la prosecuzione dei contratti in essere per il personale precario, in funzione, dell’avvio di specifiche trattative finalizzate alla stabilizzazione. La Sardegna segna un punto positivo – rispetto a quello di partenza e considerato il percorso normativo attualmente obbligato – in ordine al ruolo del ”pubblico” nelle funzioni di governo complessivo di un bene essenziale come “l’acqua”, per preservarlo e valorizzarlo dal punto di vista quantitativo e qualitativo, renderlo esigibile da tutti e a costi minimi per le fasce di popolazione economicamente più disagiate. Un punto che rimarca quanto sia strettamente intrecciato lo sviluppo vero di una terra alle lotte del proprio popolo per emanciparsi dal bisogno, e quanto invece ne siano lontani i meccanismi egoistici di ricerca del maggior profitto per alcuni che stanno alla base della privatizzazione dei beni di proprietà collettiva. Luciano Uras Storie d’acqua e di persone nella Tuscia viterbese Novembre 2002: eravamo a Firenze, al Forum sociale europeo. In quelle giornate frenetiche ed appassionanti, io ed il mio compagno, decidemmo di partecipare ad una conferenza di Vandana Shiva e ad un seminario con Riccardo Petrella sui processi di privatizzazione dell’acqua nell’economia globalizzata. L’argomento ci interessava particolarmente perché, da anni, anche a livello locale, si discuteva della riorganizzazione del servizio idrico integrato. All’improvviso, arrivò una telefonata da Viterbo che ebbe l’effetto di uno schiaffo: la Conferenza dei Sindaci dell’Ambito territoriale viterbese aveva deciso, all’unanimità, di affidare per trent’anni, i servizi idrici dei comuni della provincia, ad un soggetto privato, da individuare con gara europea. Come a dire: una multinazionale avrebbe gestito la nostra acqua! Lo scarto tra la notizia e quello che stavamo vivendo a Firenze, provocò in noi disorientamento ma anche rabbia e voglia di costruire una risposta immediata. Le cose non furono semplici: i sindaci che avevano votato per la privatizzazione (senza consultare nemmeno le rispettive giunte) appartenevano a tutti gli schieramenti politici; gran parte dei partiti, ad eccezione di Rifondazione Comunista, tacevano oppure esprimevano sostegno alla decisione. Insomma si rischiava di intraprendere l’ennesima vertenza giusta, ma sostanzialmente minoritaria. Fu allora che, come compagni di Rifondazione che, da Genova in poi, avevano attraversato le mobilitazioni dei movimenti, comprendemmo che quella sciagurata scelta poteva essere messa in discussione soltanto se attorno alla vicenda si fosse costruito un movimento ampio e partecipato, capace di investire le comunità locali e di aggregare il consenso di tutti coloro che non si sentivano rappresentati dalla decisione dei sindaci. Furono giorni importanti, in cui si approfondirono mille questioni, si stabilirono relazioni e si costruì un sapere diffuso ed autorevole che riuscì a penetrare nelle contraddizioni della rappresentanza politica ed istituzionale. Una rappresentanza che aveva calpestato anche le regole minime della democrazia formale, arrogandosi il diritto di espropriare le comunità della Tuscia delle proprie risorse idriche e di quello che queste rappresentano: un pezzo di identità locale. Ben presto, il blocco monolitico che aveva prodotto quella decisione, iniziò a sfaldarsi: accanto a Rifondazione e ad alcuni comitati popolari che da anni si occupavano dell’acqua, si schierarono con forza la Camera del Lavoro di Viterbo, Legambiente e i Verdi, oltre che pezzi di consigli comunali che si ribellarono alla decisione dei sindaci: nacque il Forum per l’acqua pubblica. Iniziò così una straordinaria esperienza di conflitto e partecipazione: decine di assemblee vennero organizzate in tutta la provincia, i Consigli comunali furono investiti da ordini del giorno che rigettavano la privatizzazione, la Conferenza dei sindaci fu oggetto di continue contestazioni che raggiunsero il culmine in concomitanza con la presentazione di un Piano d’Ambito, tagliato sulle esigenze affaristiche dei privati, che avrebbe fatto lievitare le tariffe in modo insostenibile. Questa diffusa mobilitazione popolare produsse effetti anche sul quadro politico provinciale: la Margherita, attraverso il gruppo dirigente di allora, rivide la sua posizione ed aderì al Forum, mentre i Democratici di Sinistra si lacerarono al loro interno tra il “Correntone”, che si schierò contro la decisione, e la maggioranza (legata al tesoriere nazionale Ugo Sposetti) sostenitrice della gara. Ben presto però la crescita del movimento fu tale che le posizioni favorevoli alla privatizzazione si trovarono minoritarie ed isolate anche all’interno delle istituzioni. Si arrivò così ad una nuova Conferenza che ribaltò completamente la decisione presa. I sindaci, a larga maggioranza, sfruttando una novità legislativa introdotta dal Governo (vale a dire la possibilità di gestire alcuni servizi “in house”, attraverso società interamente pubbliche), decisero di azzerare la precedente scelta e di affidare la gestione del ciclo delle acque ad una società di nuova costituzione, partecipata unicamente dai Comuni, dalla Provincia e dalle realtà gestionali pubbliche già esistenti ed operanti nel viterbese. Si costituì la società “Talete”. Un successo del movimento, del Forum dell’Acqua e di forze politiche come Rifondazione che fin dall’inizio si erano opposte alla privatizzazione. Gli altri, il “partito trasversale” degli affari, costretti ad accettare il nuovo scenario, iniziarono una “opposizione passiva” tentando, in tutti i modi, di rallentare il processo avviato. I “poteri locali” (assolutamente trasversali), quelli per intenderci che hanno monopolizzato da sempre le scelte politiche del territorio viterbese, e che su queste hanno costruito carriere, affari e clientele, dopo essere stati costretti ad accettare la gestione pubblica, hanno cominciato a frapporre ostacoli di varia natura, che ancora oggi rendono il percorso intrapreso fragile e incerto. In questo momento la sfida è rappresentata dal varo di un Piano d’Ambito che raccolga le reali esigenze delle comunità locali. Ciò va fatto attraverso una rimodulazione degli investimenti che tenga conto in primo luogo di alcune scadenze normative (ad esempio nel settore della depurazione), attraverso interventi in grado di garantire la qualità dell’acqua (in diversi comuni esiste il problema della presenza dell’ arsenico in percentuali superiori ai limiti imposti dall’Unione Europea), attraverso una tariffazione sociale capace di disincentivare gli sprechi e di garantire l’accesso all’acqua alle fasce sociali più deboli. Per far questo sono necessarie risorse pubbliche, senza le quali le amministrazioni locali, strangolate dai tagli delle politiche governative, rischiano di subire il miraggio dell’intervento privato come unico possibile, per finanziare le opere idriche necessarie: con tutte le conseguenze che tale scelta comporterebbe. E’ anche per questa ragione che il Forum per l’acqua pubblica, nel rilanciare le ragioni di una nuova mobilitazione che parli anche della necessità di modificare il quadro legislativo, a partire da quello regionale, chiede che le amministrazioni dell’Unione, di Regione e Provincia destinino appositi finanziamenti aggiuntivi in grado di sostenere ed incentivare l’unica realtà gestionale pubblica oggi esistente nel Lazio. p. Forum dell’acqua pubblica di Viterbo Patrizia Roselli LA RAPINA DELL’ACQUA Il Manifesto per il Contratto Mondiale sull’Acqua siglato a Lisbona nel 1998 ha come suoi due primi principi i seguenti. 1) L’acqua è un bene comune – patrimonio dell’umanità. Essa appartiene a tutti. 2) Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile, individuale e collettivo. Questi due principi sono dedotti dal fatto che l’acqua è fonte insostituibile di vita. Se per vivere abbiamo bisogno dell’acqua, allora noi, come individui e come collettività, abbiamo il diritto di avere questo elemento che ci permette di vivere. Questo sillogismo è vero solo apparentemente perché se la premessa è indiscutibile (tutti noi sappiamo per certo che senza acqua non potremmo vivere), la conseguenza non lo è altrettanto perché si basa su un assunto non dichiarato, ossia che la vita sia un diritto sacro e inviolabile riconosciuto a tutti. Tale diritto, come abbiamo modo di vedere tutti i giorni, è rimasto però a livello delle pure enunciazioni di principio. In realtà, se abbiamo bisogno di rivendicare il diritto all’acqua, allora significa che l’acqua non appartiene a tutti. Ancora oggi non esiste alcun trattato o accordo internazionale e giuridicamente valido che riconosce il diritto all’acqua. Esso manca sia nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, sia nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo del 1950, sia nella Carta Europea dei diritti fondamentali dell’Uomo dell’Unione Europea del 2000. Le Dichiarazioni di Strasburgo (1968) e di Parigi (1998) che riconoscono l’acqua come bene comune e dunque il diritto di accesso all’acqua non hanno alcun valore giuridico, limitandosi ad essere una semplice dichiarazione di intenti. Viceversa, al 2° Foro Mondiale dell'Acqua tenutosi all'Aja dal 17 al 22 marzo 2000, nonostante l'opinione largamente diffusa fra i 4.600 partecipanti favorevole al riconoscimento dell'accesso all'acqua per tutti come un diritto umano e sociale imprescrittibile, i rappresentanti governativi di più di 130 Stati hanno adottato una Dichiarazione Ministeriale nella quale non fanno alcun riferimento al principio del "diritto umano" ma affermano che l'accesso all'acqua per tutti deve essere considerato soltanto come un "bisogno vitale". Inoltre, in coerenza con tale affermazione, hanno sostenuto che per assicurare una gestione "efficace" dell'acqua in tutto il mondo questa deve essere considerata non soltanto come “bene sociale” ma principalmente come un "bene economico", il cui valore deve essere determinato sulla base del "giusto prezzo", fissato dal mercato nell'ambito della libera concorrenza internazionale, secondo il principio del recupero del costo totale. Allora, a chi appartiene l’acqua? Fermiamoci a riflettere un secondo. Pensiamo ad un fiume, al Piave per esempio: sappiamo dire a chi appartengono le acque di quel fiume? La questione sollevata dal nuovo impianto che la San Benedetto spa vuole a Padernello di Paese ruota intorno ad una domanda simile: a chi appartengono le falde acquifere che dal Piave alimentano il Sile, fiume di risorgiva? Chi ha il diritto di accedervi, in quale misura, a quale costo? La vicenda, che è ancora storia attuale, vede sostanzialmente tre protagonisti con interessi evidentemente non del tutto compatibili: la ditta San Benedetto, gli Enti Istituzionali (Regione, Comuni) e i cittadini di alcuni Comuni riunitisi in un Comitato Spontaneo. Le date della vicenda 8 novembre 2002: la Regione Veneto, con Deliberazione di Giunta Regionale n. 3123, rilascia un permesso di ricerca di acqua minerale alla San Benedetto spa in un’area di proprietà della stessa, situata a Padernello in Comune di Paese (TV). 16 giugno 2003: il Consiglio Comunale di Paese approva il Piano di Lottizzazione di iniziativa privata, con relativa convenzione, presentato dalla San Benedetto spa di Scorzè e finalizzato alla realizzazione di un nuovo impianto di acqua minerale a Padernello di Paese. I cittadini vengono a sapere della cosa tramite la stampa locale (La Tribuna di Treviso e Il Gazzettino) sollecitata ad occuparsi della questione dal Presidente dell’Ente Parco del fiume Sile, fin da subito contrario al progetto. Con l’Ente Parco si sono schierati i presidenti dei Consorzi di Bonifica: Dese Sile, Destra Piave, Brentella, Basso Piave preoccupati per la salvaguardia del fiume e delle falde. La San Benedetto non ha mai consegnato copia del progetto all’Ente Parco che ne aveva fatto richiesta, perché l’area oggetto dell’intervento non ricade nell’ambito protetto, anche se è situata a soli 1200 m. dal pre-parco. Nel luglio del 2003 ha luogo la prima manifestazione davanti al municipio di Paese. Erano presenti varie associazioni ambientaliste (Gruppo Silis di Morgano, Gruppo Ecologico Tiveron di Santa Cristina di Quinto), cittadini ed i rappresentanti del gruppo regionale dei Verdi , gruppo che aveva presentato in giugno una prima interrogazione a risposta scritta in Consiglio Regionale. Nell’agosto del 2003, l’ Assessore Regionale alle Politiche per il Territorio, Antonio Padoin, chiede al Comune di Paese che l’intervento in oggetto venga sottoposto, prima della sua approvazione(!), a valutazione di incidenza ambientale relativa agli effetti che lo stesso può avere sulle aree SIC. Nel frattempo la San Benedetto ha già proceduto alla realizzazione di due capannoni ed alle opere di urbanizzazione, sebbene possieda soltanto un permesso di ricerca rilasciato dalla Regione e non ancora la concessione ad emungere acqua (eventualmente conseguente alla verifica delle analisi prodotte dalla stessa ditta). In data 15 ottobre 2003, la Giunta Regionale del Veneto, tramite la Direzione Geologia e Ciclo dell’Acqua, con decreto n.263 ha prorogato il permesso di ricerca. Novembre 2003-Gennaio2004: interpellanze dei Verdi e del PRC alla Regione. Il 28 gennaio 2004, con una manifestazione a Venezia, le 4000 firme raccolte dal Comitato Spontaneo vengono portate alla Terza Commissione Consiliare della Regione Veneto che decide di sospendere il tutto per poter valutare il parere della Commissione Tecnica Regionale Attività Estrattive. Questo parere dovrebbe essere fornito entro la data del 13 aprile 2004, ossia 90 giorni dopo il 13 gennaio 2004, data in cui la San Benedetto spa ha fatto richiesta della concessione in via definitiva di estrazione dell’acqua e quindi avviare la produzione degli stabilimenti a di Padernello a pieno regime. E’ importante che entro tale data la Terza Commissione si esprima, perché in questo caso vale anche la regola del tacito consenso. 5 marzo2004. In questa data il Comitato Spontaneo dei Cittadini incontra in un’assemblea pubblica a Quinto di Treviso i Sindaci dei Comuni interessati dalla questione, i quali, a quanto ho capito, fino ad allora latitavano. I Sindaci sono abbastanza insofferenti, rimangono nel vago rispetto alle domande concrete poste loro dai rappresentanti del Comitato. Verso la fine, dall’intervento di un vicesindaco, si capisce che si sono già orientati per la trattazione con la San Benedetto, l’aria dell’assemblea diventa tesa fino alla reazione del sindaco di Quinto di Treviso che intima i Carabinieri presenti di sequestrare le cassette di registrazione della serata e promette di spiccare due querele per diffamazione e calunnie a carico di un rappresentante del Comitato e di un consigliere regionale del PRC. Ovviamente, fino ad ora tali denuncie non sono arrivate; il Sindaco deve essersi reso conto che non aveva alcun elemento su cui procedere. 22 Marzo 2004 . I componenti della Terza Commissione Consiliare, in primis il Presidente Gaetano Fontana, fanno un sopralluogo sulla zona in questione. Il Presidente rilascia alla stampa una dichiarazione nella quale si dice meravigliato per ciò che è già stato costruito nella zona, che non si aspettava di vedere i due capannoni. …Ad ogni modo, è presente la stampa in grande quantità, che ormai da gennaio segue la vicenda da vicino. Se ne sta occupando perfino il settimanale d’informazione della Diocesi di Treviso “La Vita del Popolo”. I Sindaci, presenti al sopralluogo del 22, sono sempre più insofferenti e mal celano il dispetto nel vedere che la questione non va a finire, almeno per ora, sotto silenzio e anzi è sempre più alla ribalta e con molti riflettori puntati. La data del verdetto della Terza Commissione Regionale era fissata inizialmente per il 13 aprile 2004 ma si deve aspettare il 22 luglio perché alla fine si riunisca per demandare la decisione definitiva alla Giunta regionale del Veneto. Dalla nota diramata alla fine della riunione si evince che in pratica la Commissione Tecnica Regionale ha deciso di non decidere sul tema della concessione del permesso di estrazione di acque minerali alla San Benedetto. La nota, infatti, con il suo corollario di raccomandazioni ed auspici, non faceva che confermare quanto da tempo denunciavano i cittadini mobilitati contro questo nuovo impianto, ovvero: la totale mancanza di un serio bilancio idrogeologico delle regione Veneto e la soffocante pressione politico-economica che stava dietro alla questione acque minerali. Probabilmente consapevole dello stato di crisi della falda, dei rischi che correrebbe il Parco del Sile, del dissenso sempre più diffuso e degli enormi interessi in ballo, la Commissione Tecnica Regionale ha preferito insomma passare la patata bollente ai politici. E si arriva così a venerdì 6 agosto 2004 giorno in cui la Giunta Regionale del Veneto ha dato il via libera alla San Bendetto spa perché proceda alla estrazione e all'imbottigliamento dell'acqua in localiltà Padernello di Treviso. Dopo un anno di duri scontri, la San Benedetto è riuscita a spuntarla. La Regione Veneto ha preso la sua decisione nonostante la contrarietà di moltissimi cittadini. Anche in quel giorno di una torrida estate inoltrata una quarantina di attivisti del Comitato Veneto per l'Acqua avevano presidiato Palazzo Balbi, sede della Giunta Regionale del Veneto, per esprimere ancora il loro NO all'autorizzazione che la Giunta regionale si apprestava a rilasciare. Una delegazione di manifestanti è stata ricevuta dall'Assessore all'Ambiente, Renato Chisso e dal Dott. Corrado Soccorso Capo del Dipartimento delle Attività Estrattive della Regione Veneto. La delegazione aveva chiesto che venisse negata l'autorizzazione alla San Benedetto a causa dei rischi di possibili squilibri idrici delle falde che avrebbero potuto influire negativamente sull'approvvigionamento di acqua nei comuni sprovvisti di acquedotto, sul livello delle falde, sulla qualità delle acque in relazione alla accidentale messa in comunicazione di eventuali falde inquinate superficiali con quelle interessate all'emungimento, sul fiume Sile e le sue risorgive individuato come Sito di Importanza Comunitaria. L'Assessore Chisso ha risposto che non era possibile bloccare la San Benedetto in quanto era già stato urbanizzato il territorio su specifiche concessioni edilizie rilasciate dal comune di Paese e quindi l'unica richiesta possibile era quella della mitigazione del danno. La delegazione ha pertanto chiesto l'effettuazione di uno studio idrogeologico approfondito da parte della regione in modo da ottenere un parere tecnico alternativo a quelli già forniti dalla San Benedetto. L'Assessore Chisso non avuto grosse difficoltà a concedere ciò, perchè in fondo era quanto aveva raccomandato la stessa CTRAE il 22 luglio scorso in base alla relazione dell'ARPAV, relazione che non era così rassicurante come Commissione Tecnica Regionale e Giunta volevano far credere. Nell'incontro non è mancata una "nota di colore":l’assessore Chisso nel bel mezzo dell'audizione si è messo bere a garganella da una bottiglia da due litri d'acqua San Benedetto alla presenza dei delegati e del direttore della CTRAE. Questo comportamento la dice lunga sull'arroganza con cui il potere politico stava gestendo questo ennesimo attentato alla risorsa acqua. A questo punto il comitato dei cittadini attendeva di poter leggere ed esaminare i contenuti della eventuale delibera di giunta per decidere le necessarie contromisure. Cosa che puntualmente avvenne. Letta la relazione dell’ARPAV, infatti, si procedette a far pervenire tutta la documentazione all’on. Luana Zanella che fece immediatamente una interpellanza parlamentare. Si giunge così all’esito finale: Il Ministero della Sanità il 20 GENNAIO 2005 ha confermato in aula il diniego al rilascio del riconoscimento dell'acqua naturale prelevata dai pozzi di Padernello dalla San Benedetto, rilevando che: - la quantità di arsenico presente nell'acqua è superiore al limite definito dalla legislazione vigente; - la documentazione prodotta dalla San Benedetto concernente la metodologia dell'abbattimento di tale parametro non è completa. I protagonisti principali della vicenda Il progetto dell’impianto di estrazione di acqua della San Benedetto Alcuni dati innanzitutto: -area interessata dall’intervento: 39 ettari; -superficie coperta prevista: 175.000 mq.; -volume dei fabbricati: 2.750.000 mc.; -altezze di alcuni fabbricati: 25 m.; -prelievo d’acqua previsto: 40 litri al secondo; -cubatura interrata stimata: 500.000 mc.; -impatto sulla viabilità: è previsto un flusso di traffico di circa 200 autotreni al giorno; -localizzazione dell’area: si colloca tutta intorno ad una cava che nella VPRG ha destinazione a verde pubblico. Area SIC: l’impianto sorgerà a poca distanza da un sito di importanza comunitaria del fiume Sile (area SIC: IT3240011) costituito dalla palude di Morgano e di S. Cristina di Quinto di Treviso. Pertanto l’impianto (e non solo la quantità d’acqua da emungere) avrebbe dovuto essere sottoposto in fase progettuale ad una valutazione di incidenza, in quanto potrebbero verificarsi pesanti ricadute sull’area oggetto di tutela, dovute anche all’abbassamento della falda, già duramente messa in sofferenza nei periodi di siccità. Vulnerabilità dell’area: nella carta della Provincia di Treviso, la zona in oggetto è classificata “zona a vulnerabilità elevata”; si tratta infatti di un’area di ricarica degli acquiferi che dal Piave alimentano il Sile, fiume di risorgiva. Problema cave: l’area industr |
Commenti
MarcoAlbeltaro
Gio, 19/08/2010 - 13:25
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CENTRALINA SULL'ELVO
qui sopra undegli appunti del PRC sul servizio idrico del 2006 ma di grande attualità.
La provincia di Biella autorizzando la centralina sull'elvo, prosegue la strada del regalare territorio a privati per scopo di lucro. in campagna elettorale dicemmo GIU' LE MANI DAL TERRITORIO, proprio perchè nei programmi del centrodestra c'era e si sta attuando una devastazione della nostra terra. Autostrada, diga dul sessera, centrale di Cerreto, centraline sull'Oropa in fase di approvazione e questa sull'elvo approvata.
DICIAMO NO AI PADRONI A CASA NOSTRA. FERMIAMOLI PRIMA CHE DISTRUGGANO IL BIELLESE.
l'arcangelo (non verificato)
Ven, 20/08/2010 - 16:19
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scarsa memoria
Va bene il grido di allarme ma occorre sempre ricordare che l'amministrazione provinciale precedente ha agito sulle centraline idroelettriche con la stessa disinvoltura.
Le due centraline ZEGNA sull'alto Sessera, in piena area SIC sono lì a dimostrare quanto quella amministrazione, governata con Rifondazione, abbia supinamente accolto i desiderata industriali.
Chi si sforzava allora di dire GIU' LE MANI DAL TERRITORIO era ovviamente tacciato da Rifondazione come feccia.
Ora all'opposizione ( Rifondazione, ancorché Pietrobon/SEL ) sono tutti lì a fruire del lavoro fatto da altrui ( gli ambientalisti, il Comitato Tutela Fiumi Biellesi, il Comitato DIGA, ecc.).
I contributi veri, quelli che richiedono fatica, studio, contatti, ecc., che non siano il banale copia/incolla alla Marco Sansoè degli articoli di Viale tratti su "Il Manifesto" o il Gossip alla Pietrobon, non si vedono mai.
Trovi mai a livello locale un referente locale di Rifondazione che sappia come calcolare il DMV o cosa sia IGNITOR per poter fare una conversazione/confronto che non sia solo slogan ?
E come mai le persone che potrebbero non trovano in Rifondazione ambito ove lavorare ?
E chi di Rifondazione ( ad eccezione di Walter Clemente che ogni tanto si vede) partecipa a questi laboratori/comitati sul territorio ?
l'Arcangelo
Anonimo (non verificato)
Ven, 20/08/2010 - 23:18
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sei troppo severo, non è vero
sei troppo severo, non è vero che partecipo solo io ogni tanto, sono diversi i compagni impegnati nei vari movimenti, non partecipiamo con i distintivi per scelta e non ci interessa il cappello politico ma il risultato.
purtroppo ogni momento elettorale ha le sue storie e i suoi uomini, a volte si sbagliano le valutazioni, si guarda più al risultato complessivo di quella amministrazione che non al singolo fatto e questo ha portato a delle scelte che alla lunga risultano penalizzanti per il territorio mentre al momento potevano sembrare giuste. il partito va avanti si evolve nelle idee negli uomini, se continuiamo a rinvangare il passato diventiamo inconcludenti. noi ci abbiamo, fatte le dovute analisi e preso le dovute contromosse, messo una pietra sopra e andiamo avanti anche con i commenti di cui sopra, riusciremo a costruire qualcosa? noi siamo fiduciosi e speriamo di trovare chi di ignitor e dmv ne mastichi qualcosa anche a livello locale, se no lo chiameremo da altre federazioni. ciao Valter
Custodiamo la V... (non verificato)
Mar, 24/08/2010 - 23:04
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corri NO DIGA alla festa del riso
“Custodiamo la Valsessera” invita amici e simpatizzanti di partecipare alla corsa podistica non agonistica organizzata nell’ambito di RISINCONTRO (in programma a Masazza, giovedì 26 ore 18,30) indossando la maglietta o la bandana dell’associazione con la scritta “ NO DIGA “.
Vogliamo, alla festa del riso, essere una presenza anomala, provocatoria e positiva.
Vogliamo accogliere l’invito degli agricoltori al confronto, ma con questo appello free diga :
W il buon riso DOP
SENZA DIGA SI PUO' !!
si può: con le tecniche di coltura in asciutta
si può: con la riduzione delle perdite nella rete irrigua
si può: riducendo le eccedenze, ottimizzando le superfici coltivate troppo espanse
Il riso di qualità PUO' essere coltivato rispettando l'ambiente e il territorio montano !!
Partecipiamo ed invitiamo a partecipare a questa corsa podistica a RISINCONTRO per confrontarci amichevolmente con i risicoltori con cui non vogliamo "scontri" ma il semplice riconoscimento delle nostre istanze: la tutela del territorio della Valsessera e del suo corso d'acqua.
Siamo convinti che si può produrre riso rispettando l'ambiente ma riteniamo, altrettanto, che vi siano dei limiti oggettivi nelle disponibilità idriche che non possono essere superati se non infliggendo gravi danni, ambientali ed economici, ad altri territori.
Corriamo con le nostre magliette e bandane free diga per un riso ambientalmente responsabile.
Magliette e Bandane saranno distribuite a Masazza prima della partenza
valter clemente (non verificato)
Sab, 28/08/2010 - 11:00
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ECCEZZIONALE PRIMO POSTO
ECCEZZIONALE PRIMO POSTO
Anonimo (non verificato)
Ven, 20/08/2010 - 19:44
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Infatti Rifondazione c'è
Infatti Rifondazione c'è sempre, anche a Città degli Studi dove tu invitavi ad andare (contrapponendo quell'appuntamento a un altro) e poi di te, nemmeno l'ombra...mi sa che più che arcangelo dovresti farti chiamare grillo parlante.Solo che poi pinocchio a quello gli ha tirato la sveglia.
mario
l'Arcangelo (non verificato)
Lun, 23/08/2010 - 08:42
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le sciocchezze di Mario
E' tipico. Quando si è privi di argomenti si parla di sciocchezze.
Il signor "mario" non coglie il mio richiamo sulla necessità di politiche sostanziate da contenuti (lavoro di indagine e analisi, documentazione, contro-informazione, ecc.) e coerenza (mantenere la barra a dritta sia quando si è alla maggioranza e non solo quando si è all'opposizione) ma si ferma alle apparenze, alle politiche fatte di slogan, il lato debole di rifondazione. Valter si è limitato a ritenere la critica troppo severa ma non certo pertinente.
Gamba Daniele era assente il 19 luglio per via delle sue ferie annuali programmate all'ASL da 4 mesi !! Quale ridicolo dramma rispetto ad evento organizzato all'ultimo, il 13 luglio perchè informati il 12 di una iniziativa del Consorzio della Baraggia. Se il signor "mario" facese presente questa ridicola osservazione circa il mio impegno sul fronte diga al Comitato "Custodiamo la Valsessera" gli riderebbero dietro: averne di "Gamba" presenti tutto l'anno con analisi, relazioni, a gestire sito/facebook ed altro...
Ma la pochezza del signor "mario" va oltre, ipotizzando (come Pietrobon) che il mio Arcangelo "cento passi" contraponesse una appuntamento (no mafie) ad un altro (no diga).
Forse non avezzo ad osservare le dinamiche biellesi non si è accorto che proprio in ragione di quel pezzo, di quella provocazione, alcuni di Libera Biella si sono decisi a partecipare alla manifestazione no diga, partecipazione non programmata in sede di organizzazione della marcia.
Forse non ha presente che sull'argomento Legambiente ha più volte fatto presente a Libera Biella, nella figura di Cipolat, che se si parla di mafia in senso astratto non si combina niente e che occorre un monitoraggio vero su due argomenti biellesi: autostrada e diga. (ma l'autostrada è argomemnto tabù perchè nei programmi PD e Cipolat rientra nella cinghia di trasmissione di quel partito, su questo argomento non vuol far sgarri !!).
E dunque ribadisco: oggi come oggi rifondazione biella non ha persona preparata sul territorio per trattare argomenti come diga e prelievi idrici e più in generale ambientali o di pianificazione.
Non ha amministratori capapaci di argomentare ed intervenire, dare contributi, tecnici o politici. E' una realtà che si può ignorare ritendo sufficiente essere ai cortei con la propria bandiera, fare presenza come le belle statuine presenzialiste con posizioni "clisché" ( questa difesa della bandiera a tutti costi a volte è esagerata, mai che questa bandiera la si è sventolata quando in maggioranza si votava favorevoli ad autostrada e centrali Zegna sul sessera, o si sosteneva i progetti cordar di centraline sull'oropa....).
Forse quella della statuina presenzialista è il ruolo che il signor "mario" pensa per sè e per il proprio partito .
Prosegua pure in questa direzione alimentando in generale la distanza tra cittadino e politica e nello specifico la credibilità di rifondazione già troppo minata dai tanti voltagabbana interni ( Pietrobon, Abate, FIloni, Belletti, ecc.)
l'Arcangelo
valter clemente (non verificato)
Lun, 23/08/2010 - 12:06
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caro Daniele, non riesco
caro Daniele, non riesco più a capirti, vuoi dire che perchè oggi in rifo biellese non abbiamo iscritti ing. o esperti ambientali, non siamo in grado di fare ragionamenti su dighe o centraline e perciò decidere da che parte stare? sostieni che questi argomenti possani essere trattati solo da esperti e perciò chi ha scelto la fabbrica invece della scuola deve tacere e subire? vuoi dire che chi milita e crede in un partito a cui tu dai colpe esagerate e non del tutto veritiere perchè estrapolate dal contesto politico in cui i fatti sono avvenuti, che ha avuto la fortuna e la sfortuna di avere certi militanti oggi non possa più portare con l'orgoglio che gli appartiene la propria bandiera?
se tu intendi così, come arcangelo voli troppo alto per essere capito da noi miseri quì sulla terra. ciao
l'Arcangelo (non verificato)
Lun, 23/08/2010 - 12:49
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l'esperto e il quid
in un partito devono trovare spazio entrambi, esperti e non esperti.(militanza qualificata e non qualificata)
se rifondazione biella in passato ha fatto fuori gli esperti ( o ha avuto degli esperti accomodanti per ragioni di incarichi) e ora non ne ha più deve considerare il problema (che non è di annessioni o appartenza ma capacità di confronto con chi è più esperto): il rischio è di trattare molti argomenti con slogan e populismo.
Intendiamoci: esperto non è un titolo accademico ma una volontà/necessità/capacità di fronte alle probelmatiche; voler "diventare esperti" è il quid che deve guidare chi intende occuparsi di problemi amministrativi ; Gamba, come tanti altri, non ha titoli accademici per occuparsi di agricoltura o urbanistica, solo un po' di passione e metodo....
L'esperto in storia c'è (?). L'esperto in fabbriche o scuola o servizio sociali forse (?). Nelle tematiche più tipicamente amministrative ( gestione del territorio) navigate a vista, in ritardo, senza l'opportunità di dare contributi sostanziali.
Io non sono un tuttologo, in campi che non conosco tendo ad essere prudente prima di dire la mia ( ad esempio nelle politiche culturali).
Mi aspetterei che a fronte di un problema "vero" , la scarsa memoria sulle centraline idroelettriche, non prevalesse nel dibattito il solito "mario" di turno presente egoduto come una statuina il 19 di luglio. Se Rifondazione non coglie la portata di certi errori passati difficilmente riuscirà ad essere credibile nelle future attività.
l'arcangelo