TRE PASSI NELLA CRISI. Dalla critica dell'economia politica alla critica del sistema capitalisitico.

 

 

 

 

 

 

 

 

«Questo capitalismo lucra anche su lavoro e vita». Intervista a Cristian Marazzi.   di Claudio Jampaglia


Christian Marazzi è un mite economista e sociologo che insegna alla "Scuola universitaria professionale della svizzera italiana". E' noto per diversi libri ("Il posto dei calzini", "E il denaro va...") e anche per una partecipazione di molti mesi orsono a "l'Infedele" di Gad Lerner in cui ragionando di crisi aveva anticipato alcune difficoltà finanziarie per il colosso elvetico Ubs. Apriti cielo. Fu accusato di disfattismo bancario, quasi un crimine in Svizzera. Adesso, però, che succede esattamente quello che lui andava dicendo, nessuno gli ha chiesto scusa. Noi gli chiediamo, invece, cosa sta succedendo e la sua lettura è in controtendenza e si rivolge alla sinistra.

Stretta creditizia, crisi di liquidità, bilanci pieni di titoli "tossici", sembra che il sistema che tu hai chiamato del "bio-capitale" si sia gravemente ammalato...
Sta succedendo, a mio modo di vedere, che quello che alcuni avevano chiamato capitalismo manageriale o azionario ed altri una sorta di bio-economia, questo capitalismo degli ultimi 20 anni in breve, sta dimostrando tutta la sua fragilità. Il punto non è tanto la ristrettezza di liquidità o di capitali nel sistema. Ce n'é. E comunque le banche centrali sono impegnate ogni giorno a mantenere la liquidità. Il punto è che c'è anche una totale sfiducia nel mondo finanziario e bancario. Per le operazioni correnti le banche non hanno più la possibilità di far ricorso l'una all'altra. Nessuno sa più cosa abbia in bilancio la banca della porta accanto. Non si fidano più. E questo è ciò che collega la crisi finanziaria all'economia tout court. E da questa situazione la recessione non può che essere amplificata.

E come ne esce il capitalismo?
Cominciamo a dire come possiamo immaginare che ne esca... Dipende da come si definisce questo nuovo capitalismo finanziario. In generale, e questo vale soprattutto per la sinistra, tutte le colpe della crisi vengono addossate alla perversione della finanza e alle scelte che non privilegiano gli investimenti per l'innovazione, per l'occupazione. Alla finanziarizzazione si imputa cioè di aver prodotto solo rendita finanziaria e non crescita economica, reiterando quella divisione tra economia reale, da una parte, ed economia finanziaria e monetaria, dall'altra, che io credo appartenga ormai al '900. Le coordinate della crescita capitalistica dagli anni '70 stanno proprio in un nuovo rapporto tra macchine e lavoro vivo e il sentiero del capitale è stato quello, metaforicamente parlando, di uscire dai cancelli della fabbrica e andare a succhiare sempre più valore nelle classi sociali, nella società tutta. In tutto il suo spazio, in tutto il suo tempo.

E' questa la bio-economia?
E' la vita, i saperi, la cooperazione sociale e spontanea, tutto ciò che è nella sfera della circolazione della vita, come fonte di valore. La finanziarizzazione fa parte di questo processo. E la rendita finanziaria è la faccia monetaria di un valore captato nel corpo vivo della società. Cooperazione, disponibilità, creatività messe a valore. La vita ha preso il posto della terra, direbbero i fisiocratici (si riferisce al movimento di pensiero del XVIII secolo che sosteneva il valore dell'agricoltura rispetto a quello del commercio o della produzione, N.d.R.). E in questo c'è un divenire rendita del profitto e forse anche un divenire rendita del salario. Il destino dei lavoratori è stato legato a quello del capitale attraverso fondi pensioni e svuotamento del lavoro stesso. Tutto ciò è evidente negli Stati Uniti dove gli effetti ricchezza sono divenuti estremamente diseguali. Il salario è rimasto fermo, si è destabilizzato, de-standardizzato, precarizzato. Il lavoro non riesce più a produrre per stimolare la crescita, ma il capitalismo ha sviluppato enormemente il credito al consumo per sostenere la domanda e la crescita. Senza consumi non si cresce e la leva che ha colmato il gap tra salari e plusvalore prodotto è diventato il credito. La leva finanziaria è così entrata dentro la domanda di consumo. Ed ha funzionato fino all'anno scorso. E credo che per capire lo sbocco di questa crisi bisogna capire cosa c'è di nuovo nel capitalismo finanziario.

Nella bio-economia è centrale però la differenza tra chi sa e chi no, tra chi partecipa alla classe finanziaria e chi la subisce. Queste asimmetrie di conoscenza, di potere, stanno cadendo? Aiutano a svelare?
Il sistema è bugiardo di per sé. E' una classica asimmetria di crescita. Lo spiega bene Foucault, il potere deve produrre sapere, detenerlo e anche estirparlo dalla gente. I mercati funzionano per ondate di convenzioni: internet, la Cina, l'immobiliare hanno prodotto movimenti di opinione pubblica storicamente determinati a dirottarsi sugli oggetti del desiderio-investimento. Internet e la new economy negli anni '90, la Cina come paese emergente a cavallo del XX secolo e poi la convenzione immobiliare come nuova frontiera. Le convenzioni non sono mai vere, ma sono reali. Producono. Dentro la finanziarizzazione non c'è solo carta. C'è crescita. La new economy ha permesso di cablare tre quarti del pianeta. E quando è scoppiata la crisi delle dot.com le reti sono stati vendute a prezzi stracciati. L'entrata dell'India nel club dei paesi ad alto tasso di sviluppo è avvenuta proprio in questa fase: si sono comprati le reti e ci hanno investito e lavorato. Il caso immobiliare, quello attuale, è ancora più interessante. Le case negli Stati Uniti sono state costruite, non sono finte, ma poi chi ha avuto la casa dai mutui subprime, l'ha persa, portandosi via gli infissi o smontando le piastrelle. Ecco, quello che fa saltare la finanza secondo me è la differenza tra diritto di proprietà sociale e proprietà privata. Qual è la differenza tra le case popolari fatte con soldi pubblici con piani sociali e lasciare al mercato di costruire più case? Il mercato sa costruire, ma non sa socializzare. E su questo prima o poi cade. C'è una sorta di comunismo del capitale che non ha trovato e che non troverà mai un assetto adeguato proprio dal punto di vista proprietario.

Stai parlando alla sinistra? C'è qualcosa che non va nell'analisi?
Quello che vedo non riusciamo a digerire è questo elemento espansivo della finaziarizzazione che ci obbliga a pensare a forme di lotta in cui siamo costretti a rimettere in discussione i capisaldi come il concetto di proprietà. Se c'è solo l'individualismo proprietario o patrimoniale, che sembra essere la nuova definizione del homo economicus post-fordista, come facciamo politicamente e anche organizzativamente a riproporre la proprietà sociale, quella collettiva, il pubblico in generale o il comune? Val anche per il sapere collettivo, le relazioni sociali e così via, tutto quello che noi produciamo e siamo nella bio-economia. In fondo siamo ancora ai "commons "del '600 inglese, le terre recintate che hanno dato il via alla proprietà e al capitalismo. Siamo di nuovo ai fisiocratici. E la finanziarizzazione permette di creare nuovi recinti, di creare scarsità dentro l'abbondanza. Per questo contesto, ad esempio, che ci sia mancanza di liquidità nel sistema, come non c'è mancanza di alloggi. L'unica cosa scarsa in questo sistema sono i diritti sociali.

E dal punto di vista macroeconomico quali sono le tue previsioni?
Posso solo rispondere con i dati che emergono giorno per giorno. Gli indici sono molto negativi in Usa come in Europa. E' la recessione. Ma vedo anche un serio rischio di stagflazione. Ci sono segnali di diminuzione dei consumi, ma il raddoppio del deficit pubblico americano ci pone un interrogativo senza precedenti. Pur tutelato e difeso da tutte le banche centrali può reggere ancora e quando? Qualsiasi altra moneta sarebbe crollata. Al momento, anche se l'interscambio con l'Ue è maggiore, la Cina non ha mollato gli Usa. E' un mercato troppo importante e ricco. Ma siamo vicini al momento in cui potrebbero dirottare sull'Europa i loro interessi e quel punto chi sostiene il dollaro? E cosa faranno gli operatori del petrolio e con loro di tutti i beni e di tutti i mercati valutati in dollari, si lasceranno trascinare nella svalutazione? Non credo. Agiranno.

In America molti commentatori scommettono sulla fine della "superclass" del 1% dei decisori e detentori di capitale finanziario e sul ritorno della middle-class. Altri scommettono sui paesi emergenti...
Che ci sia una forte crescita, nei limiti ambientali, del ceto medio dei paesi emergenti è vero. Il modello americano però non è duplicabile, si può solo redistribuire, cioè spostare dei super-consumers da una paese all'altro. Ma io vedo l'altra faccia del discorso. Quello del siamo tutti sulla stessa barca. La chiamata a stringere tutti la cinghia. Mi ricordo Greenspan nei primi anni di questa turbolenza dire che bisognava affrontare assolutamente la questione dei salari. Lo hanno detto un po' tutti. Ma da 20 anni i lavoratori sono sotto scacco, dalla condizione di negoziazione al quadro legislativo e fiscale per arrivare a salario e potere d'acquisto. E adesso ci chiedono unità e sacrifici. Sta alla sinistra ricostruire un modo e un percorso perché ci sia un cambio politico in questa fase di tensione e di conflitto. Io credo che sia necessario uscire dall'ottica salariale e creare un'ottica di rendita sociale. Ciascuno di noi produce una ricchezza non solo monetaria, nella società. Dovremmo conoscerne la messa al valore e ragionare sulla proprietà sociale, sui diritti sociali. E' difficile. Vuole dire smuovere le proprie certezze. Ma è necessario.     

Liberazione, 4/10/08

 

 

 

Il mercato in difficoltà e lo stato interventista. di Riccardo Bellofiore

Nei commenti di queste settimane non ci è stata risparmiata la sequela di argomentazioni tranquillizzanti: crisi passeggera; non si può fare a meno della finanza; le banche europee sono al riparo; il vecchio continente, ancora manifatturiero, ne uscirà rafforzato; l'Italia può contare sulle medie imprese multinazionali. Peccato che questa finanza ci abbia portato sulle soglie di una nuova Grande Crisi. Che le banche europee abbiano aggirato la regolamentazione per garantirsi più elevati rendimenti. Che lo sganciamento dell'Europa dagli Usa si sia negli ultimi mesi sgonfiato come una favola. Che i pochi spezzoni vitali del nostro apparato produttivo siano fragilissimi e dipendenti dalla congiuntura. Certo, è finito un mondo. Il punto non è quello di capire il «perché» di breve periodo. Si tratta di capire come se ne esce. Meglio, come ne uscirà il capitale. Senza fermarci alle verità ovvie: socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti; la crisi verrà pagata dal mondo del lavoro. E senza saltare sul carro del solito Tremonti colorato «di sinistra», quando si ha a che fare con un neoliberismo compassionevole dai tratti fascistoidi e reazionari, incluso il protezionismo.
Su queste colonne, un anno fa, segnalavo come lo scoppio della bolla immobiliare abbia visto il ritorno di un Minsky moment, di un punto di svolta superiore nel ciclo dell'instabilità finanziaria. La «nuova economia» si è nutrita di una convenzione Greenspan. La politica monetaria spingeva verso l'alto le «attività» (azioni, case), il che ha rafforzato l'effetto leva. Si ampliava l'indebitamento delle famiglie, a sostegno di un consumo «autonomo» da effetto ricchezza. E si forniva domanda ai neomercantilismi forti (come quelli asiatico e tedesco) e deboli (come quello italiano). Un sistema bancario ombra, ma interconnesso con le banche vere e proprie, poteva fornire moneta senza limiti, mentre la riduzione della disoccupazione di lavoratori «traumatizzati» non si traduceva in pressione sui salari.
A un certo punto, come nella poesia di Yeats, «le cose si dissociano, il centro non può reggere». La bolla scoppia, si rischia la deflazione da debiti. Dietro l'illiquidità fa capolino l'insolvenza, le relazioni interbancarie si bloccano. Facile prevedere i ripetuti interventi delle banche centrali come prestatrici di ultima istanza, e la politica di bassi tassi d'interesse, da parte almeno della Fed. Da marzo/aprile c'è stato un cambio di passo. Il Minsky moment si è mutato in un Minsky meltdown, in un collasso vero e proprio. Per lo spettro dell'insolvenza, sempre più operatori finanziari devono svendere attività: ma se lo fanno tutti, questo non aiuta i bilanci, li affossa. L'acceleratore finanziario è diventato un deceleratore finanziario. Quando il problema non è l'illiquidità, il prestatore di ultima istanza non può bastare. Lo si inizia a vedere con la prima crisi Bear Sterns. La Fed accetta come collaterale dei suoi prestiti titoli che sono cartaccia, e inizia a rifinanziare banche d'investimento non soggette a regolamentazione. E' evidente a questo punto che la politicizzazione della finanza ha fatto un salto, e che è solo il primo passo.
Mentre l'economia reale entra in fibrillazione, si deve nazionalizzare, direttamente e indirettamente, sia la finanza che l'immobiliare: i due pilastri della crescita Usa, dunque mondiale. La Fed prende il ruolo implicito di assicuratore e azionista ultimo, spalleggiata dal Tesoro. Anche questo non è però sufficiente. Lo stato deve acquistare direttamente i titoli «tossici». In questi giorni si sta proponendo che sia lui in prima persona a ricapitalizzare le banche, a diventarne esplicitamente azionista. Fed e Tesoro devono già oggi decidere chi vive e chi muore, in un sistema soggetto a un pesante consolidamento. Schizza ovunque verso l'alto il premio da pagare in eccesso al tasso di interesse di base, e si comprime il credito alle famiglie. Una profonda recessione a breve/medio termine seguita da una bassa crescita, e un razionamento del credito con più alti tassi d'interesse, è il futuro che possiamo attenderci: non solo negli Stati Uniti.
Inutile prendersela con Bernanke. Studioso della Grande Crisi, teorico dell'acceleratore finanziario, sa che la politica monetaria deve essere diversa nelle fasi espansive e in quelle di crisi. Ha fatto quel che ha potuto. Non ce la fa perché non ce la può fare: perché i problemi della finanza affondano nelle contraddizioni dell'economia reale. E' per questo che non valgono granché i buoni consigli di chi, soprattutto i social-liberisti, intona le lodi di migliore regolazione e più stretta vigilanza, e vuole riregolamentare. Ottime parole, buone nei tempi di crisi, e presto dimenticate quando le cose vanno bene.
Il problema di fondo è che il rischio sistemico globale della finanza viene dall'attacco al lavoro degli ultimi decenni. La finanza sregolata, ma politicamente governata, è stata il modo singolare ma efficace per rispondere alla tendenza alla stagnazione da domanda che è l'altra faccia della precarizzazione del lavoro. Non è un problema di instabilità finanziaria: è un problema di domanda effettiva, che nasce dalla organizzazione della produzione, e del lavoro al suo interno. Il paradossale «keynesismo» trainato dalle bolle speculative è oggi al capolinea. La crisi di questo meccanismo obbligherà a trovarne altri: a ricostruire da cima a fondo circuiti monetari, governo macroeconomico, equilibri internazionali.
Il verso successivo di Yeats recita: «e la pura anarchia si rovescia sul mondo». Non ci conterei. Scommetterei piuttosto su una buona dose di mano visibile. Non necessariamente benevola, sia chiaro. Invece di discutere di Stato e mercato, quando è fuori discussione che lo Stato non può che aumentare la sua presa sull'economia, sarà forse il caso di organizzare una resistenza, ma anche di riprendere davvero i temi di un intervento politico nell'economia diverso da quello che il prossimo futuro ci riserva.  

il manifesto, 5/10/08

 

 

 

 

 

L'occidente alla catastrofe, forse è un male forse un bene,      di Berardi Bifo

Il crollo del sistema finanziario internazionale è l'inizio di un processo di trasformazione profonda e catastrofica delle società di tutto il mondo. Gli effetti di questo collasso sono ormai prevedibili. Avendo succhiato tutte le risorse disponibili per salvare le banche, senza peraltro riuscire a salvarle, il potere politico americano ha fatto una scelta: mandare nell'abisso l'economia reale.
Cosa vuol dire infatti il colossale intervento del Tesoro? Vuol dire ipotecare le risorse di tutti. Ogni americano pagherà duemila dollari per salvare Wall Street, non ci sarà più credito disponibile e non ci saranno soldi per gli investimenti. La disoccupazione in America è aumentata di centosessantamila unità nel mese di settembre. E' facile immaginare cosa accadrà nei prossimi mesi. La crisi finanziaria, d'altronde, non va vista come un fenomeno isolato. Essa è in stretto collegamento con un'altra catastrofe, quella geopolitica, quella militare.
Dal 1492 l'Occidente ha potuto disporre delle risorse del pianeta perché disponeva di una forza militare schiacciante. Puntando la pistola alla tempia dell'umanità, gli occidentali hanno potuto appropriarsi delle risorse di tutti gli altri. Ma con la disfatta in Iraq e in Afghanistan, con il ritorno aggressivo della potenza russa, l'egemonia militare è finita. La pistola puntata alla tempia ora appare scarica (anche se purtroppo non lo è). Sta accadendo una cosa nuova: i popoli della terra ora sanno che l'Occidente non ha più nessuna egemonia militare, dunque chiedono di ridistribuire quelle risorse di cui l'Occidente si è appropriato. La restituzione del debito che l'Occidente ha accumulato non solo negli ultimi trenta o quarant'anni, ma negli ultimi cinquecento anni.
Questa è la posta in gioco, questo è l'orizzonte nel quale ci muoviamo. Il 20% della popolazione terrestre che si appropria dell'80% delle risorse della terra è forse pronto a restituire il maltolto? Purtroppo non è pronto, anzi non vuole nemmeno riconoscere l'entità del problema, almeno fino ad oggi. E questo vorrà dire guerra, razzismo, violenza. E' bene saperlo.
Ma questo vorrà dire anche la fine dell'Occidente. Non del capitalismo badate bene, ma la fine dell'Occidente, del mondo come lo conosciamo da Cristoforo Colombo in poi.
C'è qui un'opportunità per gli eredi del movimento egualitario e libertario, c'è qui un'opportunità per i movimenti di autonomia della società?
C'è un'opportunità gigantesca, a mio parere, anche se ora è difficile da cogliere.
Il capitalismo non è una cosa, non è un ammasso di cose. Ce l'ha spiegato Marx. Marx ha detto: il capitale è un rapporto, non una cosa. Io, se me lo permettete, che pure sono piccolo piccolo, vorrei correggere, su questo punto, Marx. Il capitale non è una cosa, ma non è nemmeno un rapporto.

Il capitalismo è l'introiezione di un rapporto. Solo quando gli uomini e le donne introiettano il rapporto tra lavoro e salario, tra valorizzazione e dominio, tra bisogno e merce, solo quando gli uomini e le donne credono che lo sfruttamento sia naturale, il capitalismo li può dominare.
Se gli umani capiscono che ci sono altri modi di organizzare la loro attività e il loro scambio, il loro rapporto con la natura e con le risorse, se capiscono che ci sono modi meno faticosi e meno violenti, allora forse vivere senza dominio capitalista diviene possibile.
Oggi noi attraversiamo una catastrofe. Catastrofe non è una brutta parola, una parola che porta disgrazia. E' un concetto dal senso preciso. In greco significa spostamento che permette di vedere una prospettiva che non si vedeva prima.
Kata significa giù, sotto, ma anche oltre, al di là. E strofein significa spostare.
La catastrofe finanziaria e geopolitica non è di per sé una liberazione. Al contrario, di per sé moltiplica il pericolo, di per sé aumenta la paura.
Ma se ci sono uomini e donne intelligenti, creativi, coraggiosi e soprattutto liberi dall'eredità del passato, come noi siamo o almeno dovremmo essere, allora vedi che si presenta una enorme (imprevedibile ed imprevista) opportunità. L'opportunità è quella di cavalcare la (inevitabile) disfatta dell'Occidente, che ormai è in corso, che ormai è inarrestabile, in un nuovo atteggiamento mentale, in una nuova concezione vissuta della ricchezza.
La ricchezza non è la massa di cose di cui disponiamo, la ricchezza è il modo in cui viviamo il tempo, è il rapporto di solidarietà che sappiamo avere tra noi. Come i gigli nei campi e come gli uccelli nel cielo anche noi umani possiamo vivere di poco, di molto poco. Dovremo imparare a vivere del poco indispensabile, perché altrimenti finiremo tutti malissimo. Non sarà facile impararlo e ancor più difficile sarà insegnarlo a tutti gli occidentali. Ma impareranno, con le buone o con le cattive.
Noi vediamo oggi, grazie alla catastrofe, che il capitalismo non è eterno e non è naturale, che l'economia della crescita non è la migliore organizzazione della vita sociale. Quel che dobbiamo fare è comunicarlo. Senza ansia, senza rabbia, senza arroganza.
Molte cose scompariranno nei prossimi mesi, molti moriranno di fame e molti di violenza e di guerra. E' bene saperlo, è bene prepararsi. E' bene preparare quelli che ci stanno intorno. Ma nulla di ciò che sta sulla terra è eterno, neppure le nostre vite, i nostri giornali, i nostri partiti. La sola cosa che non deve estinguersi è la capacità di capire. Comprendere, comprendere, e trasformare.

Liberazione, 8/10/08

Commenti

Ritratto di Anonimo

è tempo di strappare l erbe malvagie...... W MAO ZEDONG
Ritratto di roberto

Una crisi che è nata dal basso Intervista al Prof. Toni Negri Giovedì 9 ottobre 2008 Sulla crisi "finanziaria" globale abbiamo intervistato il Prof. Toni Negri. "Questa crisi scoppia negli Stati Uniti perché a un certo momento le banche non riescono più a pagare l’insieme di crediti che hanno coperto. Questo succede perché da un lato si è alzato il livello generale dei costi della riproduzione del sistema, si sono poi aggiunti i costi della guerra che sono stati estremamente importanti negli Stati Uniti raddoppiando il debito pubblico americano. Ma la cosa assolutamente centrale è stata la forma nella quale i governi americani, la politica americana, aveva impiantato il superamento del fordismo, cioè il sistema reaganiano, neocorservatore". - [ audio ] (durata 15:39) Trascrizione intervista In questo momento, da un punto di vista globale, la crisi, che era partita negli Stati Uniti ed era stata definita come crisi finanziaria, si sta allargando in una sorta di effetto domino non solo a livello di mercati internazionali, ma anche investendo direttamente le nostre vite. Perche’ definiamo questa crisi finanziaria come una crisi strutturale di sistema? Rispondere e’ abbastanza difficile, devo dire. Intanto diciamo perche’ questa crisi e’ scoppiata. Esplode negli Stati Uniti perche’ ad un certo punto le banche non riescono piu’ a pagare l’insieme dei crediti che hanno coperto. Allora, questo accade per ragioni che sono assai chiare; da un lato, perche’, con il costo del petrolio e delle materie prime, e’ cresciuto il livello generale dei costi di riproduzione del sistema. A questo si sono poi aggiunti i costi della guerra, che sono stati estremamente pesanti negli Stati Uniti, dove hanno raddoppiato il debito pubblico. Ma la cosa assolutamente determinante e’ stata la forma nella quale il capitale americano, il governo americano, la politica americana nel suo insieme, avevano impiantato il superamento del fordismo, cioe’ il sistema neo-conservatore. Come tutti sappiamo, la liberalizzazione e le privatizzazioni erano state estreme, il welfare era stato praticamente distrutto. E pero’ era evidente che la societa’ americana, essendo una società maledettamente rigida verso il basso, cioe’ ferma nei suoi bisogni e nelle sue esigenze, non rifiutava ne’ di curarsi ne’ di comprarsi la casa, ne’ le famiglie rinunciavano a mandare i loro figli a scuola. Allora succede che ad un certo punto il capitale, il governo sono stati costretti a riaprire il welfare. Ma lo riaprono in maniera completamente privatizzata. Invece di socializzare le spese degli ospedali, della scuola eccetera, di coprirle direttamente da parte dello Stato, si e’ cominciato a privatizzarle, cioe’ a chiedere alla gente di pagare. Ma siccome la gente poteva farlo solo in parte, ma soprattutto prendeva a prestito per riuscire pagare, si e’ creato un enorme debito che ad un certo punto e’ saltato. Tanto piu’ che, non contenti di costringere la gente a risparmiare e a spendere i soldi per sopravvivere, i banchieri e in generale il mondo finanziario - bada bene, diretto non semplicemente da delinquenti, ma anche da grandi professori di universita’, di Harvard, di Yale, tutti i vincitori dei più recenti premi Nobel per l’economia - avevano trovato il modo di distribuire, di spalmare questo debito in generale sulla societa’, rinnovandone le forme, prestandosi l’un l’altro i debiti e soprattutto prestandoli ad altre istituzioni finanziarie fuori dagli Stati Uniti. Ora, dato che la globalizzazione non e’ un sogno ma una realta’, questa crisi - scoppiata dal basso negli Stati Uniti, dove non e’ stata una crisi bancaria inventata, ma e’ nata da quello che e’ un deficit di spesa che doveva permettere la pace sociale; e quando questo deficit e’ saltato, la crisi e’ scoppiata per questo - si sta allargando a tutto il mondo, perche’ il mondo e’ globale e non c’e’ sovranita’, ne’ Stato sovrano ne’ banca nazionale che tenga. A questo punto ci sono due strade assolutamente evidenti. Da un lato c’e’ il passaggio dal livello finanziario a quello che e’ il livello imprenditoriale, della produzione in generale. E’ una vera e propria recessione economica che si imporra’ in breve tempo un po’ dappertutto. E’ gia’ stata ampiamente annunciata: tutti gli indici di crescita per l’anno prossimo si limitano per i paesi centrali allo zero virgola, per i paesi emergenti ad una cifra, il dieci per cento lo si vedra’ molto molto raramente. Si stabilizza dunque la recessione, cioe’ si stabilizza quella che e’ una grande distruzione di ricchezza pubblica. Qui ci sono state interpretazioni molto strane, che venivano da uomini di destra che fingevano di criticarsi. Adesso vanno dicendo: "Ah, questi delinquenti di banchieri ci hanno rovinato!" Il fatto e’ che la finanza ormai e’ diventato uno strumento produttivo come tutti gli altri, gia’ Marx riconosceva ampiamente che la finanza era uno strumento fondamentale per allargare il campo degli investimenti. Dentro alla globalizzazione, per esempio, tutto il processo che ha portato paesi enormi come la Cina e l’India alla soglia della maturita’ industriale, tutto il grande sviluppo di autonomia, fuori della dipendenza, che si e’ dato in America Latina, non sarebbero stati possibili senza i grandi mezzi, la grande organizzazione della finanza. D’altra parte, e’ difficile ormai distinguere il capitale produttivo di beni materiali dal capitale che invece si organizza nella finanza. Anzi direi che e’ quasi impossibile, non c’e’ la possibilita’ di distinguere il profitto dalla rendita, e la rendita finanziaria e’ diventata assolutamente egemone. Non c’e’ nessun grande industriale italiano che non sieda anche in Mediobanca: cioe’ che non sia li’ a decidere i destini finanziari del paese con tutto quello che ne consegue. Il problema centrale e’ a questo punto riuscire a capire come si fa a bloccare questa deriva: io credo che tutto questo si possa fare in un solo modo ed e’ rilanciando completamente quella che e’ la capacita’ delle popolazioni, della gente che lavora, di riconquistarsi il reddito e quindi di riaprire circuiti di vita, di consumo e di relativa liberazione dentro questo livello. Ma tutto questo non si puo’ fare se non attraverso delle lotte, perche’ e’ chiaro che la forma nella quale oggi il capitale si afferma e’ quella della repressione dei consumi piu’ semplici, dei consumi di riproduzione al livello al quale siamo evidentemente arrivati. Ed e’ su questo piano che si tratta di lottare perche’ - se adesso i capitalisti vogliono ricostruire le loro fortune, come fanno? - devono continuare a premere, a comprimere quelli che sono i bisogni di sussistenza e di riproduzione delle moltitudini e questo mi sembra assai difficile. Ecco, c’è la panacea che viene adesso presentata, con grande enfasi pubblicitaria : il nuovo interventismo degli Stati nazione, che addirittura porta per paradosso alcuni tra i neo-con, tra i propugnatori del sistema neoliberista e dell’ideologia dell’assoluta libertà di mercato, a diventare paladini dell’intervento statale nella gestione della crisi. Questo riguarda l’America, ma man mano il dibattito si sta spostando anche in Europa e ovviamente anche nella provincia italiana. E’ un paradosso pazzesco che, per altro, non potrà affatto essere la risoluzione della crisi, per come prima l’hai analizzata. Qui bisogna stare molto attenti. Quando si arriva ad un debito pubblico che è praticamente di diecimila miliardi di dollari, come negli Stati Uniti, e quando pensi che questo debito pubblico è prevalentemente sostenuto dai prestiti che la Cina ed i paesi del continente asiatico e quelli del Golfo fanno agli americani, capisci che qui il problema diventa la necessita’ di estinguere, o quanto meno contenere questo debito. Sono cifre che non possiamo neppure immaginare, sono dieci o quindici volte il bilancio dello Stato italiano, cioè il bilancio di una nazione di sessanta milioni di persone. E soprattutto non possiamo neppure immaginare come grandi paesi come la Cina o l’India o i paesi del Golfo, che sono, singolarmente presi e nel loro insieme, grandi potenze economiche, possano continuare a pagare il debito americano senza chiedere delle contropartite. Delle contropartite in termini di potere effettivo. Ecco che qui il problema diventa di una pesantezza enorme, perchè di nuovo si torna a parlare di guerra, e non nei termini delle “guerre di polizia” alla maniera di Bush, ma di guerre vere, quelle guerre di distruzione tra le grandi potenze economiche per la conquista dell’egemonia globale. Ieri, per esempio, mi è cascato l’occhio su di una notizia assolutamente incredibile da parte dell’agenzia di rating (cioe’ di valutazione) Moody’s, che è una di quelle grandi agenzie che servono a garantire altre bande di delinquenti, che garantiscono cioe’ l’affidabilita’ dei bilanci, dei conti delle imprese e delle nazioni. Bene, in questa situazione, continuano a dare la massima qualificazione, cioè tre volte "A", agli Stati Uniti d’America, al bilancio statale degli Stati Uniti. E perche’ dichiarano di farlo? Perche’ gli Stati Uniti rimangono comunque la più grande potenza militare. E’ la capacita’ di muovere guerra, di esercitare comando per via militare la garanzia in ultima istanza della potenza economica americana. Questi sono evidentemente i problemi che si aprono e che ti danno un po’ la vertigine di fronte a quello che sta avvenendo. E questo rilancia una volta di piu’ il bisogno assolutamente fondamentale, che ci sia un vero "New Deal". Ma, bada bene, quando dico "New Deal" mi riferisco a cio’ che questa stagione di riforme e ripresa dopo la crisi del 1929 e la Grande Depressione degli anni Trenta e’ veramente stata: il New Deal è stata la riapertura del conflitto di classe. Il suo protagonista, il presidente americano Roosvelt, si rende conto che per battere i capitalisti responsabili della crisi, bisogna rimettere in gioco la forza operaia, la forza dei lavoratori, e addirittura aiuta con il Governo a formare dei nuovi sindacati: la CIO nasce allora, nel 1933, proprio come sostegno ad una possibilità della società di respirare fuori dai ritmi imposti dall’impresa dominante capitalistica. E oggi questa cosa dev’essere riproposta su un livello piu’ generale: oggi noi dobbiamo evitare i pericoli di guerra, perche’ ricordiamoci che le grandi crisi, quelle che chiamiamo le "crisi darwniane" del sistema, sono crisi che spessissimo inducono guerra, perche’ l’egoismo si organizza in guerra, l’egoismo in crisi, l’egoismo frustrato si organizza in guerra. Ecco, proprio in questa fase, noi possiamo salvare il mondo, se siamo in grado al massimo di rilanciare le lotte di quella che e’ oggi la “classe operaia”, e cioè la classe operaia sociale, quella che produce realmente in maniera generale. Grazie. Un’ultima battuta: tutto questo viene poi presentato dai media in maniera a dir poco superficiale, e a volte in modo addirittura provocatorio, come se la gente non avesse appunto il cervello per capire le cose … E’ proprio così e la cosa a cui starei molto attento e’ la ripresa di discorsi fascisti, perche’ si tratta di fascismo quando si attaccano i grandi padroni del vapore, fingendo che dietro non ci sia un sistema, un sistema capitalistico, come se i responsabili fossero solamente dei corrotti. E questa e’ una storia che parte fin dalla Rivoluzione francese, c’erano i cattivi nobili, ma la nobiltà era in fondo un sistema buono; e il latifondo è in fondo un sistema giusto, ma c’è la mafia e non c’è tutto il resto; ci sono i banchieri cattivi e poi invece gli altri sono buoni ... Tutti questi discorsi servono a due finalita’: a eliminare la differenza di classe e ad identificare dei puri e semplici capri espiatori.
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Che crolli pure tutto. è meglio vivere nella semplicità che nelle opulenze e nelle ruberie.
Ritratto di Mary

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Muerte al capitalismo, w el socialismo y la libertad
Ritratto di Anonimo

Roba da pazzi, a la gente piace essere plagiata è inutile
Ritratto di Anonimo

Senza la vita non ci può essere la morte.. concordate?
Ritratto di Anonimo

L'importante è amoreggiare